Di Giuseppe Panella.
Pirandello divenne sì Accademico d’Italia, ma non fu mai accettato dalla gerarchia culturale fascista e popolare nei teatri italiani.
Pirandello fascista
Ovvero
DEL DEMIURGO INDISPENSABILE
da Biblioteca dei Classici italiani
«Eccellenza, sento che questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l’Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario” (Luigi Pirandello)
FATTI DIVERSI DI STORIA LETTERARIA E CIVILE
Un fascista della prima ora?
Il telegramma il cui testo compare in epigrafe è del settembre 1924: il periodo della massima incertezza e della massima debolezza del regime che Mussolini da poco ha cominciato a instaurare e a realizzare dal punto di vista istituzionale. Tre mesi prima (il 10 giugno), Giacomo Matteotti era stato rapito e poi presumibilmente subito dopo assassinato da un gruppo di squadristi capitanati dal famigerato fascista fiorentino Amerigo Dumini.
Il fascismo vacillava sotto il peso dell’indignazione morale e delle inchieste della Magistratura ordinaria. Si presupponeva, anzi, che sarebbe caduto da lì a non molto. Il cadavere di Matteotti sembrava essere un ostacolo tanto ingombrante sulla strada del potere assoluto da intralciare definitivamente il cammino fino ad allora considerato inarrestabile e incontrastabile praticamente da tutta l’opinione pubblica nazionale e mondiale del Duce verso l’instaurazione del suo dominio personale sulle sorti della nazione italiana. La parola d’ordine della politica attiva, la richiesta che sale dalla classe media, il termine di riferimento dei giornali della borghesia è sempre la stessa: “normalizzazione” (del movimento fascista e della situazione politica).
«La pubblica opinione, fino a ieri in maggioranza fascista, è attonita. La borghesia ha la sua prima vera crisi di coscienza: ubbidire a un governo omicida le repugna. La Magistratura, l’Esercito, il Clero, la Burocrazia, dopo un attimo di incertezza, guardano con simpatia le opposizioni. I combattenti, gran parte dei fascisti, la stampa e alcuni ministri del governo Mussolini si dichiarano ostili alle camicie nere: è un piccolo affare Dreyfus italiano. Trascorrono giorni grigi, afosi; tutti mormorano, ci si toglie dall’occhiello il distintivo del fascio; i carabinieri sono timidi, incerti. Mussolini, timido, tremante, è solo nelle grandi sale di Palazzo Chigi; egli chiama la vedova di Matteotti, vuol vederla, scusarsi, rassicurarla. Le promette che sarà fatta giustizia, che il cadavere del marito sarà ritrovato a tutti i costi, se ne fa garante lui stesso. L’Italia dubita. E’ il primo grande dubbio del popolo italiano. Il paese si è accorto che il Duce è un uomo debole, timido, che annaspa, che cerca aiuto, che si confonde. Tutti sanno che il fascismo è finito, che Mussolini non ha più forza, che è solo col cadavere di Matteotti sotto il tetto. I memoriali dei suoi fidi lo accusano; la paura, una paura folle, ha colto i suoi luogotenenti; essi vogliono difendersi e additano in lui il colpevole. La folla si reca ogni giorno sul Lungotevere a porre fiori sul luogo dove fu rapito Matteotti.» [1].
[1] Leo Longanesi, In piedi e seduti (1919-1943), Milano, Longanesi, 1968, pp. 147-148
È in questo clima politico e sociale che, a sorpresa, Luigi Pirandello chiede la tessera del Partito Fascista: il periodo convulso e contraddittorio dell’Aventino gli sembra “il momento più proprio” per aderire a una formazione politica che sembra toccare il minimo storico del consenso popolare.
Mi sembra del tutto legittimo chiedercene il motivo. E, soprattutto, aggiungere a questa domanda un’altra, forse più significativa, che ne scaturisce: perché proprio Pirandello può essere considerato e fu un’intellettuale ’fascista’ ed altri che probabilmente dall’adesione al Fascio ricavarono maggiori benefici (la feluca di Accademico d’Italia, laute prebende e cattedre universitarie, portafogli di importanti Ministeri) non possono aspirare a tale dubbia gratificazione?
Riconducendo tutto al giro di una frase, perché Pirandello fu ’autenticamente’ e così risolutamente un autore fascista e D’Annunzio, Papini, Curzio Malaparte, Robert Michels e (forse) lo stesso Giovanni Gentile no? Il suo mondo intellettuale e morale coincideva forse con quello di Mussolini e della gerarchia fascista? A questa domanda si può rispondere altrettanto risolutamente di no. Il mondo culturale, la concezione artistica, la prospettiva storica ed esistenziale di Pirandello ha poco o nulla da spartire con quella di Bottai o di Armando Carlini o di Nicola Bombacci o di Alessandro Pavolini (cito nomi di fascisti che ebbero e pagarono giustamente di persona per questo velleità e ambizioni di carattere intellettuale e culturale). E, d’altronde, il fascismo non ripagò la fiducia del suo ’gregario’. Pirandello divenne sì Accademico d’Italia (e vinse subito dopo il Premio Nobel anche se entrambi furono, forse, nei confronti del più grande autore teatrale italiano dopo Carlo Goldoni, un atto quasi dovuto), ma non fu mai accettato dalla gerarchia culturale fascista e popolare nei teatri italiani. A differenza di uomini che erano nelle grazie del Duce (come Giovacchino Forzano che collaborò con Mussolini nella stesura di opere teatrali Campo di maggio del 1930, Villafranca del 1931 e di copioni cinematografici dallo stesso titolo dei testi teatrali che egli stesso trasformò in film), un forte imbarazzo accompagnò alcune delle uscite pubbliche e delle polemiche di Pirandello.
Un fascista poco convinto?
Ne fa fede una novella dall’emblematico titolo di C’è qualcuno che ride (pubblicata per la prima volta sul “Corriere della Sera” nel 1934) che non poco imbarazzo produsse negli ambienti fascisti che seppero leggerla in controluce. Nel testo evidente parodia di una riunione politica fascista con il suo contorno di ridicola e roboante solennità Pirandello sembra ridicolizzare la stessa sostanza pubblica del partito cui ha aderito nel momento della sua massima difficoltà. Nel testo, apparentemente innocente, si descrive una «riunione molto seria” che «vuole anche aver l’aria d’uno dei soliti trattenimenti cittadini in tempo di carnevale. C’è difatti sulla pedana coperta da un tappeto nero un’orchestrina di calvi inteschiati che suona senza fine ballabili e coppie ballano per dare alla riunione un’apparenza di festa da ballo, all’invito e quasi al comando di fotografi chiamati apposta. Stridono però talmente il rosso, il celeste di certi abiti femminili ed è così ribrezzosa la gracilità di certe spalle e di certe braccia nude, che quasi quasi vien fatto di pensare quei ballerini non siano stati estratti di sotterra per l’occasione, giocattoli vivi d’altro tempo, conservati e ora ricaricati artificialmente per dar questo spettacolo. Si sente proprio il bisogno, dopo averli guardati, di attaccarsi a un che di solito e di rude: ecco, per esempio, la nuca di questo vicino aggrondato che suda paonazzo e si fa vento con un fazzoletto bianchissimo; la fronte da idiota di quella vecchia signora.»
Ma che cosa succede in questa sorta di carnevale concentrato in una stanza, in questa ’festa dei folli’, in questo tentativo di conciliare serietà e simpatica, urbana socievolezza che risulta, tuttavia, alla fine, del tutto finto, artificioso, vacuo, ridicolo?
«La verità aggiunge Pirandello è che tutti questi invitati non sanno la ragione dell’invito. È sonato in città come l’appello a un’adunata».
Dunque: la riunione mondana, con gli orpelli, l’orchestrina e degli inquietanti invitati “in domino” che assumono l’aspetto di membri di qualche Confraternita della Misericordia (“in cerca del funerale”) è, in realtà, trasparente metamorfosizzazione di un’adunata ’oceanica’ quale il fascismo amava mettere in piazza (e in scena) per dimostrare il proprio potere e l’avvenuto consenso. E l’adunata assume l’aspetto di una riunione conviviale perché non deve e non può avere carattere minaccioso, ma rendere conto e dare l’idea di un’avvenuta normalizzazione sociale. L’adunata falsamente socializzante non maschera adeguatamente il suo carattere forzato e minaccioso. Nessuno sa che cosa nasconda, a che cosa serva e che cosa ne verrà fuori.
«Senza farsene accorgere, alcuni cercano con gli occhi quei due o tre che si presume debbano essere in grado di saperlo; ma non li trovano; si saranno riuniti a consulto in qualche sala segreta, dove di tanto in tanto qualcuno è chiamato e accorre impallidendo e lasciando gli altri in un ansioso sbigottimento».
La messa in scena voluta e propiziata dal potere serve esclusivamente ad avvalorarne la capacità di indurre e produrre timore ed apprensione, a tenere gli animi sospesi, a produrre ansia e un’atmosfera da incubo la messa in scena del potere è la commedia del potere stesso, ma pesa sulla realtà e risulta effettiva nella misura in cui sortisce effetti concreti. Nonostante sia “una commedia con noi stessi”, questa commedia acquista un peso quando si trasforma in una chiamata di correo e in un’incombenza minacciosa. E’ per questo che non se ne può ridere quando, invece, basterebbe coglierne gli elementi ridicoli per sdrammatizzarla, per darle un tono e un taglio più familiare, accessibile, infine più accettabile. E’ in questo modo che funziona, infatti, la legge pirandelliana della produzione estetica dell’umorismo, quella dell’”avvertimento del contrario” e, infatti, un’adunata guerresca e seriosa che si presenta come mondana o una riunione mondana che vuol essere seria discussione di problemi politici concreti risultano, comunque li si voglia leggere, un fatto ridicolo che scivola nel grottesco e nella necessaria derisione. Eppure non se ne può ridere anzi: «L’incubo grava così insopportabile su tutti, appunto perché a nessuno par lecito ridere. Se uno si mette a ridere e gli altri seguono l’esempio, se tutto quest’incubo frana d’improvviso in una risata generale, addio ogni cosa! Bisogna che in tanta incertezza e sospensione d’animisi creda e si senta che la riunione di questa sera è molto seria».
I tre personaggi che ridono (un padre e tre figli trasparente anche se non esibita personificazione dell’Italia) vengono investiti dalla furia della riprovazione degli altri invitati che avanzano minacciosamente verso di loro «come una nera marea sotto un cielo d’improvviso incavernato, […] lentamente, lentamente, con melodrammatico passo di tenebrosa congiura […]. I tre maggiorenti, quelli che proprio per loro e non per altro, s’erano riuniti a consulto in una sala segreta, proprio per la voce che serpeggiava del loro riso inammissibile a cui han deliberato di dare una punizione solenne e memorabile, ecco, sono entrati dalla porta di mezzo e sono avanti a tutti, coi cappucci del domino abbassati fin sul mento e burlescamente ammanettati con tre tovaglioli, come rei da punire che vengano a implorare la loro pietà. Appena sono davanti al divano, una enorme sardonica risata di tutta la folla degli invitati scoppia fracassante e rimbomba orribile più volte nella sala».
Di fronte al rifiuto di prendere sul serio quanto sta accadendo (le adunate ’oceaniche’, l’organizzazione del consenso da parte di un regime che sta diventando ’reazionario di massa’ per usare l’espressione più cara a Renzo De Felice), il riso scatta quasi spontaneo e di fronte ad esso la repressione non è possibile o, comunque, si rivela inadeguata: chi dovrebbe punire il riso strisciante è impotente a farlo perché ha le mani legate dalla sua incapacità a capire che il comico, il ’contrario’ è presente all’interno delle stesse deliberazioni che hanno voluto la convocazione dell’adunata.
Se la riunione ufficiale (gli invitati sono tutti in nero indossano la marsina delle occasioni mondane) risulta ridicola e si rivela tale nei suoi caratteri ’idioti’ (ma vissuti angosciosamente sotto il segno del grottesco), nulla potrà impedire di farlo notare meno che mai qualche proibizione ufficiale. Se il fascismo è ridicolo sembra ammonire Pirandello per metafora non serve a nulla costringere tutti a prenderlo sul serio. Il comico della situazione emergerà spontaneamente. E al posto di un’ironica considerazione della situazione data (un movimento rivoluzionario che diventa espressione della conservazione e della base sociale di sempre), si scatenerà una valanga di risate che potrà forse avere l’effetto di seppellirla: al posto del comico, l’esplosione anarchica del riso sardonico che allude ad una follia non più redimibile che si è insinuata nei rapporti sociali e che rischia di attraversarli definitivamente (il “terrore che tutti gli abitanti della città siano improvvisamente impazziti” che afferra i tre personaggi che ridono dell’adunata non ne è forse una terribile premonizione?).
Un fascista per opportunità?
Se il fascismo rischia di diventare risibile per effetto dei suoi stessi maggiorenti e ispiratori, non è detto che esso non sia necessario. Pirandello polemizza con gli esponenti del regime, accentua i loro aspetti deteriori e farseschi, ma non rompe con Mussolini e la sua prospettiva politica né abbandona la prospettiva politica che contraddistingue il fascismo. Tale scelta faranno, invece, alcuni che pur lo sostennero nella sua ’prima ora’ (Croce che votò la fiducia al primo governo Mussolini) e tanti personaggi che rifiuteranno sempre anche successivamente di aderire al regime pur non essendone lontani da un punto di vista ideologico (D’Annunzio, ad es. ) o teorico (Gaetano Mosca mi sembra l’esempio più significativo di tutti, ma si potrebbero citare a ragione anche Giuseppe Rensi o lo stesso Adriano Tilgher). Probabilmente Sciascia qui ha ragione nel tracciare una linea di demarcazione tra Pirandello e la prospettiva finale del progetto fascista:
«Certo, uno scrittore può sbagliarsi su se stesso, ma l’opera di un vero scrittore non sarà mai sbagliata. Pirandello è stato fascista, non però la sua opera» [2]
[2] Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora. Intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori, 1979, p. 83
ed è certamente corretto mettere in evidenza i limiti di un rapporto come quello successivamente intercorso tra lo stesso Pirandello ed i gestori e gli esponenti ufficiali della culturalità fascista. Ma, d’altronde, come lo stesso Sciascia ben sa e non può fare a meno di ammettere, Pirandello non sconfessò mai la sua scelta del settembre 1924.
In una delle conversazioni con Domenico Porzio che di poco precedono la sua scomparsa e che costituiscono la sostanza della sua ultima opera, lo scrittore di Regalpetra conferma questa tesi:
«Perché, secondo te, [Pirandello] aspettò tanto prima di ribellarsi al pirandellismo insito nella lettura che ne dava Adriano Tilgher? (chiede Porzio)
Si ribellava, ma al tempo stesso gli faceva comodo. Aveva un carattere difficile, Pirandello, molto difficile. Molto pirandelliano. (risponde Sciascia)
Ci fu un momento in cui fu grato a Tilgher. Ma a un certo punto Tilgher esasperò la sua teoria quasi dicendogli quello che doveva fare.
Però non fu per questo che litigarono. Accadde per una polemica politica, sorta sul “Mondo” di Giovanni Amendola. Il fascismo.
Lui che lo aveva accettato per pessimismo e per disprezzo…
Giovanni Amendola aveva scritto un articolo, in cui sosteneva che Pirandello avesse aderito al fascismo per mascherare la delusione di non essere stato fatto senatore. Pirandello rispose e la polemica coinvolse un po’ tutti.
Chi avrebbe dovuto nominarlo?
Il re, ossia il regime. Del resto nel 1924 era relativamente giovane per diventare senatore, no?» [3]
[3] Leonardo Sciascia, Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio, Milano, Mondadori, 1992, pp. 122-123.
A parte l’obiezione che si potrebbe abbastanza facilmente rivolgere a Sciascia ritorcendo la sua stessa argomentazione che la nomina a senatore era una questione di fedeltà politica (i senatori di nomina regia diventavano tali per fare baluardo intorno alla politica governativa e Pirandello non aveva ovviamente tali requisiti) e non di età o di fama artistica e letteraria (come, invece, avviene tutt’oggi per i senatori a vita), la questione non è ovviamente questa. L’adesione di Pirandello al fascismo è, per quest’ultimo, una spaventosa necessità: Mussolini rappresenta l’unica soluzione possibile ai problemi del Paese e, soprattutto, rappresenta l’unica possibilità di dare sbocco alla volontà di rivolta e di rivincita di tutti coloro i quali non si riconoscono nella cultura politica rissosa, meschina e volgarmente profittatrice dell’Italia liberale e giolittiana. Il fascismo appare l’unica soluzione possibile dopo il fallimento delle idealità rappresentate dalla convulsa e (solo parzialmente) giustificata esplosione dei Fasci siciliani del 1893 e la crisi del sistema di compromesso tra industriali e classe operaia del Nord messa in atto e proposta come la salvezza del Paese da Giovanni Giolitti. Pirandello qui demistifica le attese e le speranze che venivano collegate al patto d’azione tra liberali e Partito socialista così come poteva presentarsi agli occhi dei suoi lettori (e interlocutori) piccolo-borghesi. La novella Le sorprese della scienza (compresa nella raccolta La mosca che è del 1923) è, a tal proposito, assai significativa. Il protagonista, alter ego dello scrittore (il personaggio, infatti, parla in prima persona e si presenta come l’autore di un libro “dove c’era un uomo che moriva due volte” ovverossia il romanzo Il fu Mattia Pascal del 1904) viene invitato dall’amico e vecchio compagno di scuola Merigo Tucci a recarsi a Milocca, zona paludosa e in via di bonifica, dove quest’ultimo abita. Con verve manzoniana, Pirandello ammette:
«Non capita facilmente a gli scrittori italiani di veder la faccia dabbene d’uno dei tre o quattro acquirenti di qualche loro libro beneavventurato. Presi il treno e partii per Milocca» [4]
[4] Luigi Pirandello, Le sorprese della scienza, compreso nella raccolta La mosca del 1923, in Novelle per un anno, cit., vol. II, p. 31.
Milocca si rivela un posto abbandonato da Dio e dagli uomini, la famiglia di Tucci abita lontano dal paese e la strada che vi conduce al buio e dissestata. Tutto quello che l’amico aveva descritto, anzi decantato, come lo scenario di una possibile vita paradisiaca si rivela falso e molto peggiore di ogni aspettativa. Anche la famiglia ospite, nonostante la buona volontà che dimostra e le migliori intenzioni, risulta alla fine noiosa e petulante e il lettore del suo libro dal quale si aspettava molto è, ahimè, un vecchio pedante cita continuamente come termine di paragone il gesuita seicentesco Daniello Bartoli e per giunta cieco!… Ma Tucci insiste nell’affermare che Milocca è il migliore dei paesi possibili. Vale la pena di riprodurre il corso dell’argomentazione:
«Ma come! dissi al Tucci Questo è il paese ricco e felice, tra i più ricchi e felici del mondo?»
E Tucci, socchiudendo gli occhi:
«Questo. E te ne accorgerai.” Mi venne di prenderlo a schiaffi. […]
«Mi canzoni? gli gridai Non avete neanche acqua per bere e per lavarvi la faccia, case da abitare, strade per camminare, luce la sera per vedere dove andate a rompervi il collo e siete ricchi e felici ? Va’ là, ho capito, sai. La solita retorica! La ricchezza e la felicità nella beata ignoranza, è vero? Vuoi dirmi questo?»
«No, al contrario mi rispose Merigo Tucci, con un sorriso, opponendo studiatamente alla mia stizza altrettanta calma Nella scienza, caro mio! La felicità nostra è fondata sulla scienza più occhialuta che abbia mai soccorso la povera, industre umanità. Oh sì, staremmo freschi veramente, se fossero ignoranti i nostri amministratori! Tu m’insegni. Che salvaguardia può esser più l’ignoranza in tempi come i nostri? Promettimi che non mi domanderai più nulla fino a questa sera. Ti farò assistere a una seduta del nostro Consiglio Comunale».
E il narratore, con pazienza, attende che i consiglieri comunali, con accanimento, con forza argomentativa, con studiate e articolate premesse tecnico-scientifiche (sembrano, i consiglieri, “tanti cocomerelli selvatici pronti a schizzare a un minimo urto il loro sugo purgativo” p. 37), decidano di non far nulla! Non soltanto perché l’impianto idro-termo-elettrico necessario a produrre l’illuminazione di Milocca risulterebbe troppo costoso per il Comune o male strutturato nell’impostazione generale o prive delle necessarie premesse logistiche e strutturali, ma perché esso sarebbe in contrasto con le nuove scoperte scientifiche ormai emerse nella ricerca in atto in Europa e tali da permettere prodigi e migliorie impensabili con i vecchi sistemi fino a individuare nel sistema di illuminazione a lusol (una fantastica invenzione linguistica di Pirandello: l’illus (i)o(l)ne!) la migliore tra le forme di illuminazione possibili. E quando, per mancanza di luce, la seduta è tolta e tutto resta come prima, l’amico Tucci commenta:
«Hai capito? mi domandò Tucci, uscendo poco dopo nelle tenebre dello spiazzo sterposo innanzi al Municipio E così per l’acqua, e così per le strade, e così per tutto. Da una ventina d’anni il Colacci [il decano del Consiglio Comunale di Milocca – nota mia] si alza a ogni fine di seduta per inneggiare alla Scienza, per inneggiare alla luce, mentre i lumi si spengono e propone la sospensiva su ogni progetto, in vista di nuovi studii e di nuove scoperte. Così noi siamo salvi, amico mio! Tu puoi star sicuro che la Scienza, a Milocca, non entrerà mai. Hai una scatola di fiammiferi? Cavala fuori e fatti lume da te»
Nonostante l’accurata e previa preparazione dei membri del Consiglio Comunale, nonostante la partecipazione attenta e sembrerebbe addirittura sofferta e spasmodica al dibattito, nonostante la conclamata ed anch’essa sembrerebbe sincera buona volontà degli amministratori in carica, a Milocca regneranno per sempre le tenebre e non quelle, metaforiche, dell’ignoranza o dell’oscurantismo, ma quelle, concrete e inevitabili, che irrevocabilmente calano sul far della notte. Metaforicamente, il gran chiacchierare e sminuzzare i problemi e articolare la discussione e portare avanti il discorso dei consiglieri comunali in oggetto non si traduce in atti concreti o in riforme reali di conseguenza, oltre che comico, è dannoso. E’ questo il messaggio ’politico’ (ma direi meglio im-politico) che emerge da questa straordinaria novella che esemplifica contemporaneamente la scelta estetica di Pirandello (con l’amplificazione parodica della prospettiva dell’“avvertimento del contrario” tipica della sua concezione dell’umoristico), la sua pratica linguistica e stilistica (la capacità di mettere a fuoco situazioni emblematiche ma comuni, piane, quotidiane, né epiche né liricheggiantemente espresse e raccontate, senza usare un linguaggio paludato o enfatico (il barocco di Daniello Bartoli è usato come scelta e contrario) e il profilo ideologico della valutazione etica (che scivola qui quasi naturalmente nella presa di posizione politica anzi politico-morale, certo tendente ad un tono moralistico un po’ livido se non fosse salvata dalla tentazione irresistibilmente umoristica del tutto).
Il demiurgo necessario: il ’volto di Giano’ di Luigi Pirandello
Sotto accusa sembra quasi spontaneamente esser posta la cultura politica dell’Italia liberale: il frutto più maturo, più autorevole e determinato, della gestione del potere da parte di Giovanni Giolitti e la conseguenza (esilarante e micidiale) della prospettiva di compromesso e di conciliazione degli interessi contrapposti tra il padronato e la classe operaia dell’Italia del Nord. Meglio: i settori più avanzati dell’industria meccanica, siderurgica ed elettrica e le aristocrazie operaie che in esse lavoravano. E di esse non è affatto vero Pirandello ignorasse del tutto l’esistenza (come vuole Gian Franco Venè) se sceglierà di ambientare il soggetto cinematografico destinato a diventare, nel 1933, il film Acciaio di Walter Ruttmann (con sceneggiatura e dialoghi di Mario Soldati, dopo la rottura tra Ruttman e Pirandello) proprio nel cuore della fabbrica più significativa del futuro sviluppo industriale italiano: le acciaierie Terni.
Piuttosto che facili e suggestivamente evocative categorie sociologiche (e qui, nel mio tentativo di analisi di Pirandello im-politico, la nozione di “piccola borghesia” si riferisce ai lettori possibili delle sue opere e non alla concezione del mondo o alle prospettive sociali o alla situazione biografica ed esistenziale dello scrittore di Girgenti), mi sembra più opportuno provarmi a leggere i testi a livello letterario (scegliendo di utilizzarli in nome della loro impostazione formale e linguistica e della loro riuscita artistica) piuttosto che utilizzarli per variazioni di dubbia riuscita anche sociologica. Il capofila in questa pratica di interpretazione dei testi pirandelliani [5] soffre, infatti, di questa scelta di fondo che lo porta a non approfondire né a individuare il problema che Pirandello risolve con la sua scelta a favore del fascismo attraverso una pratica di scrittura che si modifica e si trasforma a contatto con l’evoluzione concreta della situazione italiana (e la ricerca qui va fatta non a livello di analisi sociologica, ma leggendo i testi e cercando il politico a livello di scelta estetica ed artistica).
[5] Pirandello fascista. La coscienza borghese tra ribellione e rivoluzione di Gian Franco Venè, Milano, Mondadori, 1991
Altrimenti non si spiegherebbero testi tanto poco (o, forse, tanto più autenticamente) pirandelliani come le novelle analizzate precedentemente o il romanzo Uno, nessuno e centomila del 1926 (pubblicato, quindi, nella prospettiva di un fascismo che si vuole ’normalizzato’ e normalizzatore della vita pubblica e sociale italiana) o il ’mito sociale’ per il teatro La nuova colonia del 1928 che, a mia conoscenza, non è mai stato messo in rapporto con la scelta del fascismo da parte di Pirandello. Che si è sempre voluta e confinata nel registro aneddotico dell’’opportunismo’ o della ’viltà’ degli intellettuali e mi sembra proprio che non lo fosse. Semmai valgono maggiormente a chiarire la prospettiva di riferimento che ho adottato, certe notazioni di Alberto Asor Rosa contenute nel volume dedicato a La Cultura della Storia d’Italia dall’Unità a oggi:
«È un demistificatore Pirandello? Un demistificatore e, al tempo stesso, un mistificatore, nella misura in cui fu lui stesso un mistificato. Il rovesciamento dei miti, la messa in crisi delle nozioni e dei convincimenti più diffusi mettono lo spettatore di fronte alla miseria delle proprie conoscenze e capacità di conoscenza, ma lo convincono al tempo stesso di assistere al ritmo inesorabile e non modificabile della vita, alla “tragicommedia” dell’essere umano. La cultura media, le persuasioni diffuse, che Pirandello satireggia, sono al tempo stesso le uniche ch’egli conosca perché sono, paradossalmente, anche le sue. Questo, se non erriamo, è stato finora troppo poco notato. Non risulta in nessun punto, ci pare, che Pirandello abbia convincimenti sostanziali diversi da quelli dei suoi personaggi: il suo è un guardarsi allo specchio […] La sua genialità non consiste affatto nella produzione di idee (che, prese ciascuna per sé, si rivelano sempre alquanto scontate o addirittura banali): la sua genialità consiste nel mostrare l’assurdità di un patrimonio culturale, che non è quello delle avanguardie o delle élite, ma quello della gente comune, del borghese medio, del normale individuo pensante, che crede a quello che vede e sa soltanto ciò che crede di vedere.» [6]
[6] Alberto Asor Rosa, La Cultura della Storia d’Italia dall’Unità, Torino, Einaudi, 1975
Con la sua analisi del gesto con cui Pirandello smaschera se stesso davanti al suo pubblico e smaschera le credenze più profonde e la fiducia del suo pubblico (mette in gioco, cioè, la verità stessa del principio oggettivo dell’esistenza della realtà), Asor Rosa salda il conto a Tilgher e alla sua lettura relativistica di Pirandello (che è, in realtà, costruita a sovraccumulo con i materiali in esubero della filosofia di Tilgher stesso Dilthey, Simmel, il relativismo storico, l’estetizzazione della realtà quotidiana che con Pirandello non hanno molto da spartire).
Il che mi sembra largamente condivisibile, ma ad una condizione: se Pirandello è contemporaneamente mistificatore e mistificato, questo avviene perché sembra aver capito che essere un demistificatore rischia di non portarlo da nessuna parte. Da una parte, la sua filosofia resta quella del disincanto assoluto nei confronti degli uomini e dei loro rapporti sociali e intersoggettivi (che gli appaiono impastati di passione, di follia, di aberrazioni mentali e di straordinari slanci umani e d’amore sempre, tuttavia, inaffidabili e incomprensibili anche per il più acuto dei filosofi) e, di conseguenza, conduce alla distruzione di ogni forma di possibile convivenza con gli altri. La conclusione di Uno, nessuno e centomila è emblematica: quello che salva e si salva è la possibilità di entrare in contatto profondo con la natura (“Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni”) e dal rifiuto che questo comporta nei confronti della società poco altro è recuperabile. Dall’altra, tuttavia, l’unica possibilità è quella di accettare il dominio dell’artista (esemplare al proposito è Diana e la Tuda, il dramma del 1926 che verte sullo scontro tra “le forme e la vita nuda” nell’ambito della creazione artistica). E non diverso dall’artista si rivela il demiurgo nella sua dimensione di artefice della prospettiva politica di un popolo. È assai probabile, dunque, che Mussolini appaia a Pirandello un demiurgo in quella coniugazione politica dell’élitismo liberale che proprio in quegli anni Filippo Burzio proporrà sotto tale etichetta. L’uomo politico visto in tale accezione è un creatore in grado di dare un senso all’azione svuotata di senso di chi continua a sottoporre la realtà all’azione disgregante del proprio pensiero tormentato e avviluppato dal desiderio di trovare il fondamento autentico di essa.
«Il fatto che Vitangelo Moscarda esca dal “gregge” dei suoi simili rinunciando a qualsiasi volontà di potenza, di autoaffermazione, di superiorità gerarchica pone, per inciso, delle ulteriori domande sul sovrapporsi e l’intrecciarsi di motivi che spingono Pirandello ad aderire al fascismo. È vero che già in un articolo su “L’Idea Nazionale” del 23 ottobre 1924 dichiara di ammirare il capo di questo movimento perché, da una parte, “Mussolini sa, come pochi, che la realtà sta soltanto in potere dell’uomo di costruirla e che la si crea soltanto con l’attività dello spirito”, ma, dall’altra, perché egli ha anche “chiaramente mostrato di sentire questa doppia e tragica necessità della forma e del movimento”, ossia del plasmare e del dissolvere tutto ciò che si manipola» [7].
[7] Remo Bodei, Uscite di insicurezza. Introduzione a Luigi Pirandello – Uno, nessuno e centomila, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. XXV-XXVI
Tale “doppia e tragica necessità” sembra essere la stessa di Pirandello che vuole essere un intellettuale fascista. Come un Giano bifronte nei confronti della realtà, egli oscilla tra il rifiuto assoluto di Moscarda (o di Serafino Gubbio, l’impassibile tecnico cinematografico del romanzo omonimo che continua a filmare anche quando si trova di fronte alla morte vera e non più finzionale del mondo del cinema) e l’accettazione della decisione spirituale prodotta dal demiurgo politico Mussolini perché non vede vie d’uscita nel caos spirituale e sociale dell’Italia giolittiana. Fino alla fine, non sceglierà decisamente una delle due strade: è per questo che la sua opera resta feconda e straordinaria ancora oggi e, nello stesso tempo, è per questo che il suo fascismo non può essere passato sotto silenzio o considerato una mera parentesi senza conseguenze.
Giuseppe Panella
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