Pirandello, la famiglia, il bisogno di scrivere

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Di Vincenzo Consolo. 

La moglie Antonietta è assillata, tormentata dalle furie della follia, dalla paranoia della gelosia. E assilla, tormenta il marito. Egli allora, privo d’ogni difesa, scoperto nell’amore, nella pietà per quella donna infelice, per non precipitare nel gorgo, non può far altro che aggrapparsi alla scrittura.

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Pirandello la famiglia
Pirandello con la figlia Lietta, la moglie Antonietta e il figlio Fausto. 1916.

Introduzione di Salvatore Lo Leggio

dal Blog di Salvatore Lo Leggio

La Repubblica del 1 dicembre 1999 sotto il titolo Pirandello. Il dramma si chiama famiglia, anticipa una parte della postfazione di Vincenzo Consolo al volume Lettere a Lietta di Luigi Pirandello, appena pubblicato da Mondadori. Ne trascrivo e apposto qui un brano. Mi pare che emerga con forza lo speciale significato che nella storia di Pirandello hanno il mestiere e la fatica dello scrittore. Sono – pur nelle sofferenze che arrecano – una fuga dalla sofferenza, una prevenzione della follia.
Salvatore Lo Leggio

Pirandello, la famiglia, il bisogno di scrivere

Luigi Pirandello era già avviato al successo. Era stato riconosciuto dai critici, e da autorevoli amici quali Verga e Capuana, come lo scrittore più “nuovo”, più straordinario. Sembrava ormai sciolto dalle regole, dalle forme siciliane. Aveva superato il marasma dell’ adolescenza in Sicilia, la tempesta dello scontro col padre, colto da lui in flagrante adulterio, aveva sopito l’ angoscia per il tempestoso amore con la cugina Lina, dimenticato l’ afflizione per il lavoro a Porto Empedocle, e s’ era ormai rinforzato nella vita di studente a Bonn, nell’ amore romantico di Jenny. A Roma, ora, nella scrittura ritrovava se stesso, la propria libertà. Ma il richiamo del padre, forse per un bisogno di riconciliazione, in un bisogno di avere e ricevere amore, rientra nelle arcaiche forme di Girgenti, consegna la sua vita “nei registri della piccola città situata sul colle”. Antonietta è bella, intensa, misteriosa e attraente nel suo pudore, seducente nella sua virginea ritrazione. Luigi “a Girgenti vide Antonietta due ore al giorno per trenta giorni: con un totale di sessanta ore di fidanzamento. E sempre in compagnia di donna Caterina e di Anna. Portulano

Il matrimonio dunque e il trasferimento a Roma nella casa di via Sistina all’ angolo con piazza Barberini, accanto alla casa di Andrea Sperelli de Il piacere di D’ Annunzio, il vate verso cui Pirandello nutriva una profonda antipatia, di cui, sulla rivista “Critica”, aveva stroncato Le Vergini delle rocce. “Pirandello, monogamo se ce ne furono mai, s’ innamorerà poi carnalmente e per sempre, nonostante tutto, di Antonietta, che era una donna bella, bruna, dai lunghi capelli e dal fascino triste; ma la radicale diversità intellettuale e psicologica fra i due sposi non promette bene neanche in questo intenerito principio”, scrive Gaspare Giudice. Nascono i tre figli a cadenza di due anni, Stefano, Lietta e Fausto. Sono anni di serenità, di felicità coniugale.

Pirandello, nel 1897, ottiene l’incarico al Magistero, Antonietta è occupata nella gestione della casa, nell’allevare i figli. Ma covano in lei intanto i germi dell’ infezione, del male “siciliano”, cova in lei lo smarrimento, la follia. Ha una prima crisi nervosa alla nascita del terzogenito Fausto, ma la supera. La malattia deflagrerà, con tutta la sua forza devastante, nel 1903.
La causa scatenante è il crollo economico di Stefano Pirandello, che aveva impiegato la dote della nuora in una miniera di zolfo, miniera che allagandosi aveva seppellito nel suo oscuro ventre ogni sicurezza, speranza. La dote, la roba, era per Antonietta il legame viscerale col padre, la sua protezione, il suo inconscio rifugio in quella vita insicura di moglie di un uomo di cui non riusciva a capire l’intellettualità e la creatività. Annega, la fragile creatura, nello smarrimento, si perde nel buio dell’ angoscia, rompe ogni legame con la realtà, con la ragione. S’inoltra nel sottosuolo delle tormentose allucinazioni, dei fantasmi, in un mondo di ombre da cui nessun Orfeo potrà mai più farla risalire alla luce. E lui, l’Orfeo girgentano privo di canto, che possiede solo una prosa scabra, logica, serrata, sta per perdersi, per annegare nella disperazione. Anche lui del resto (soprattutto lui?) si porta nelle cellule i germi di quel famoso nativo male. Pensa al suicidio, ma non lo attua. Il pensiero dei figli, ancora piccoli, lo trattiene. E quindi scrive, è costretto a scrivere. In un affondo repentino, la scrittura arriva alle radici dell’ esistenza, del dolore, della verità. Scrive di notte, vegliando la moglie paralizzata, un capitolo dopo l’altro, un assoluto capolavoro, Il fu Mattia Pascal.

La frattura, il distacco dalla realtà insopportabile, speculare a quella della moglie, lo compie Mattia, grazie alla realtà effettuale di un cadavere, con un suicidio formale, civile. “Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’ io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal”. Con quel tempo passato, chiamavo, si sa subito che tutto era ormai compiuto nell’azione romanzesca, che compiuto era quello scarto che aveva portato la letteratura in una nuova, mai da alcuno prima immaginata, dimensione.

L’urto, di cui dice il tragico greco, continua a flagellare. Antonietta è assillata, tormentata dalle furie della follia, dalla paranoia della gelosia. E assilla, tormenta il marito. Egli allora, privo d’ogni difesa, scoperto nell’amore, nella pietà per quella donna infelice, per non precipitare nel gorgo, non può far altro che aggrapparsi alla scrittura. Su quella soglia, in quella zona d’ombra, s’affolla una schiera infinita di creature larvali che reclamano, invocano d’ esser narrate, rappresentate, d’esser mutate in personaggi. E lo spettatore piagato è costretto a farsi creatore, difendendosi, nella dolorosa, terribile opera, con lo scetticismo, con l’ umorismo. La guerra poi manda lontano e fa ammalare i due figli Stefano e Fausto. E l’Antigone rimasta accanto all’Edipo accecato, la dolce figlia Lietta, è l’unica luce nel buio deserto…

Le lettere di Pirandello alla figlia sono del 1918 – del tempo della fuga della ragazza a Firenze – del 1922 e del 1923 – del tempo in cui Lietta, ormai sposa, si è trasferita nel lontano Cile: l’ Oceano quindi e la barriera nevosa delle Ande seppelliranno in parte e ritarderanno la corrispondenza. E ancora del 1931, 1932, 1933, degli anni in cui alla lontananza della destinataria, della figlia, si somma la lontananza da Roma del mittente, del padre, ramingo allora per l’ Europa; e infine del 1936, anno in cui Lietta ritorna definitivamente a Roma. In queste lettere, e fin dalle prime, vi è il costante e via via sempre più assillante tema economico, la puntuale annotazione di guadagni e di spese che il capofamiglia dovrà far bilanciare, annotazione sulla gravosità delle spese soprattutto… Vi è un prezioso diario della vicenda letteraria dello scrittore, del suo incessante, eroico scrivere (“Bisogna che mi rimetta al lavoro. Non vedo altro rimedio a tutto il male che m’ha fatto la vita…”; e ancora: “Ma se non lavoro impazzisco”), del destino, presso lettori e spettatori, delle sue novelle, dei suoi romanzi, dei suoi drammi teatrali. Vi è la gioia di comunicare alla figlia il successo a Milano dell’Enrico IV interpretato da Ruggeri, il trionfo dei Sei personaggi a Londra, a Parigi, a New York, di quei Sei personaggi di cui Lietta, insieme al padre, aveva sofferto l’insuccesso, il dileggio e gli insulti degli spettatori, alla prima del 1921 al teatro Valle di Roma.

Vi sono, qua e là nelle lettere, brevi, veloci (un qualcosa di profondamente doloroso che appena bisogna sfiorare) notizie su Antonietta, sulle sue crisi, e le sue remissioni. E vi si legge, nei brevi cenni, l’impossibilità, da parte di Luigi, di andare a visitare la moglie, perché egli era, nel delirio della povera donna, la causa prima di ogni suo male, egli era l'”avversario”. Vi si legge la ritrosia dei figli, pur pressati dal padre, ad incontrare la madre. In questo vediamo quanto di lacerazione, di smarrimento, subiscono i componenti, quando in una famiglia deflagra la malattia mentale, quest’oscuro, tragico male che, pur viva, allontana, rende assente una persona…

Quel che sicuramente è in primo piano, nelle lettere, è il rapporto tra questo padre e questa figlia, tra questo Edipo – e ci riferiamo ancora all’ archetipo classico certi di non sfiorare la retorica – dolorante e afflitto dal senso di colpa (“… restammo, dopo il “tradimento” con cui si poté condurla e lasciarla in quella prigione, come una famiglia devastata dal lutto e dalla colpa…”, dice il figlio Stefano) e questa Antigone che ha vissuto la tragedia e ne porta in sé i segni, che più s’accosta al padre, che lo guida e consola. Da qui il tono acceso delle lettere, lo strazio di questo padre per la lontananza della figlia, lo spasmodico desiderio di riaverla vicina.

Vincenzo Consolo
1999

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