Di Andrea Scardicchio.
Mancandogli un’autentica vocazione per l’insegnamento e avvertendo tutto il disagio per quella materia insegnata (la Stilistica), priva di un saldo statuto epistemologico e perciò ancorata a mobili confini disciplinari, Pirandello mal digerì gli obblighi e le pressanti incombenze gravanti sul ruolo del professore, che intralciavano il più stimolante cammino dello scrittore.
Pirandello educatore.
La vita della scuola e la scuola della vita
da Amaltea Trimestrale di cultura
anno VIII / numero due-tre
giugno-settembre 2013
da Amaltea edizioni (pdf con note al testo)
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
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Che Pirandello abbia avuto un rapporto controverso col mondo della scuola è un fatto risaputo. Il suo profilo di maestro è ormai accertato, e ciò a partire dal documentato inquadramento che il Comes produsse anni fa sull’attività cattedratica dell’agrigentino, quella cioè legata ai quasi cinque lustri (1898-1922) trascorsi a Roma in qualità di docente di Linguistica e Stilistica presso l’Istituto Superiore femminile di Magistero. Mancandogli un’autentica vocazione per l’insegnamento e avvertendo tutto il disagio per quella materia insegnata (la Stilistica), priva di un saldo statuto epistemologico e perciò ancorata a mobili confini disciplinari, Pirandello mal digerì gli obblighi e le pressanti incombenze gravanti sul ruolo del professore, che intralciavano il più stimolante cammino dello scrittore. E malcelò sempre segni d’insofferenza per l’attardata pedanteria serpeggiante in quegli ambienti e, al contempo, per il tedioso disbrigo delle immancabili faccende burocratiche. Ciononostante, tralasciando ogni considerazione riguardante certo suo lassismo scolastico, come pure le vacillanti presenze ai Consigli nonché l’uggia provata verso colleghi «che non poteva stimare», fattori pur sempre inquadrabili nell’orbita dell’impellente necessità di ottimizzare i tempi del proprio lavoro letterario, e valutando invece il contributo offerto nell’ufficio propriamente educativo-didattico, è innegabile che in tale ambito Pirandello abbia sempre denotato uno spiccato senso del dovere nell’ottemperanza agli obblighi formativi, muovendosi lungo un terreno di modernismo pedagogico-istruttivo, messo consapevolmente al servizio di una specifica platea di giovani fruitori (future insegnanti). Non mancano le testimonianze, sia dirette sia indirette, volte a confermare lo zelo del docente nel delicato esercizio delle mansioni professorali. Ecco, ad esempio, cosa egli scriveva il 3 gennaio 1908, in difesa del proprio operato, al Direttore dell’Istituto di Magistero (Giuseppe Aurelio Costanzo) che si era fatto nel frattempo portavoce delle lagnanze espresse dal Ministro all’indirizzo di quel docente assenteista, che secondo alcuni «sconvolgeva regole e canoni», avvalendosi di quella speciale immunità di cui godevano gli scrittori in cattedra:
[…] desidererei innanzitutto che Ella facesse notare al signor Ministro che è veramente un’ingiustizia muover lagnanze a un professore che lavora come me e quanto me per la scuola: che ogni anno cambia in tutti i corsi la materia dell’insegnamento, trattando le più difficili e complesse questioni estetiche e linguistiche che si riferiscono alla Stilistica; che sa accendere tanta gara tra le allieve; che dà un corso completo di ritmica e di morfologia metrica per riparare a una gravissima deficienza dell’insegnamento che si dà alle alunne nelle scuole normali su questa materia.
E dopo aver stilato un elenco delle attività teoriche e pratiche svolte settimanalmente nelle classi di propria titolarità (lettura e «correzione viva» di temi, consigli e avvertimenti su lingua e stile, inviti costanti alla formulazione di pareri e giudizi personali, ecc.), Pirandello non mancava di segnalare «il sommo sacrificio» che gli costava assegnare un tema ogni quindici giorni, correggere poi tutti i lavori delle alunne, insistendo pure sul fatto che a quel suo sacrificio corrispondeva purtroppo un’«irrisoria remunerazione». Anche per tali ragioni, insomma, il docente riteneva che quelli esibiti a suo carico erano «ingiusti reclami», avvertendo di conseguenza «che muovere il minimo discorso su questo argomento al prof. Pirandello equivaleva a fargli un torto». Da qui la conclusione perentoria, affidata al solito brio umoristico-sarcastico, quale tassello esemplificativo di una personalità segnata dalla «dinamica d’un travaglio interiore che può giungere ad esiti intellettuali e artistici di anticonformismo partendo dall’opposto»:
D’ora in poi, Ill.mo Signor Direttore, vedendo che a fare con tanto zelo il proprio dovere, e più che il proprio dovere, si guadagna questo; comincerò a fare come tant’altri professori, cioè il mio dovere… ma a modo degli altri, senz’impegno e senza amore. Mi guadagnerò allora la stima e le lodi del signor Ministro».
Sempre nella stessa scia, quella cioè della rivendicazione di un impegno scolastico non certo assiduo ma pur sempre onorato da Pirandello, e per di più rivelatosi incisivo nei metodi e nelle strategie didattiche adottate, si pone la testimonianza dell’amico-collega Manfredi Porena, che affiancò il primo all’Istituto romano di Magistero in qualità di docente di Lingua e Stilistica nelle classi del secondo biennio, a partire dal 1909. In un articolo commemorativo, scritto pochi giorni dopo la morte del drammaturgo siciliano, il Porena volle consegnare ai posteri un’immagine più nitida della carriera scolastica di Pirandello. E ciò sfruttando l’esperienza diretta, avendo per l’appunto condiviso con lui anni di proficua collaborazione. Ponendosi in una posizione chiarificatrice rispetto a talune demistificazioni ingenerosamente circolanti a carico del bistrattato collega, il Porena sosteneva che Pirandello «non poteva dare alla scuola tutto se stesso», poiché «la scuola non poteva dargli, economicamente, tutto quello di cui egli, non per lautezza di vita (ché era estremamente sobrio e parco in tutti i suoi gusti) ma per condizioni di famiglia, aveva bisogno». Pur tuttavia, rilanciava nello stesso articolo il filologo romano, «in quel che dava, era tutto quello che si poteva desiderare».
Già, ma cos’è che effettivamente «dava» quel professore che «non era dei più scrupolosamente diligenti», sebbene contasse comunque sulla compiacenza delle sue alunne, portatrici nei suoi riguardi di una «stima sana, diffusa anche nelle più serie ed austere», quando pure non esibita in genuine pose di ammiccamento femminino (sempre stroncate sul nascere)? Soccorre a tal proposito il ricordo di Maria Alaimo, prediletta ex allieva pirandelliana che avrebbe pure tratto dalle lezioni del maestro utili profitti per il vivace attivismo culturale intrapreso in età matura nella comune patria di Agrigento. Ecco, al riguardo, il meglio del ricordo della Alaimo, incentrato sulla figura umana e professionale dell’amato maestro:
Furono gli anni 16-17. Il corso che si fece in quei due anni fu di stilistica e metrica. Portava qua e là degli esempi e soprattutto attingeva moltissimo dal Leopardi. Leopardi gli era caro, specialmente lo Zibaldone. Quando parlava del Leopardi, assumeva sia nell’atteggiamento, come anche nel tono, nella tonalità delle parole, qualche cosa di… che potremmo oggi definire un atteggiamento romantico, di risonanza […]. Quando, poi, in certi giorni ci faceva fare delle esercitazioni libere era qui che tutta la sua genialità si manifestava. Mai che facesse veramente allusione all’opera sua. (Allora egli era specialmente rinomato come novelliere). Però, qualche rara volta, criticando qualche lavoro di qualcuna di noi, accennava sia pur di sfuggita a qualche sua novella; quasi insomma per mettere a confronto certi momenti d’arte come erano stati resi da lui e come, magari infelicemente, da qualcuna di noi. Gli piacevano quelle pagine in cui l’alunna si abbandonasse o ai ricordi o alle espressioni di un suo mondo. Odiava tutto quello che era meccanico, tutto quello che era di maniera, tutto quel che alle volte arieggiava il moraleggiante, senza avere realmente risonanza nella vita. Qualche volta, però, era chiuso, rigido magari a quella comprensione umana, che era così viva nelle sue novelle, talvolta pareva proprio che gli facesse difetto, come uomo, come professore, come esaminatore, da uomo a uomo, da persona a persona. Era come se su quella cattedra ci stava più per una necessità di vita che non per trasporto suo proprio. Anche cogli altri professori suoi colleghi non pareva che dimostrasse molte vive manifestazioni di amicizia. Se ne stava sempre un po’ appartato. Non che in lui ci fosse della posa, questo no, ma tutto il suo atteggiamento era singolare.
Come si vede, trovano conferma in tale deposizione gli accenni a un’esperienza didattica, quella pirandelliana, facente leva sui presupposti di un metodo intuitivo e sperimentale, ancorata a una prassi antilibresca e antimeccanicistica, organizzata attorno all’espressione delle singole individualità degli allievi e sul rispetto del loro mondo interiore, come pure sull’attivazione dei canali generativi-espressivi del pensiero creativo («E l’Originalità? Sentite, sentite: “Se non avete niente di vostro da dire perché scrivere?”»). Il tutto sempre uniformato all’intento di conseguire risvolti formativi pragmatici, validi cioè a innescare pratiche ricadute esistenziali. Insomma, proprio a quell’indissolubile binomio di teoria e di pratica (una variante, si potrebbe dire, di quello di forma e di vita), era riconducibile, come ha arguito Roberto Salsano, «il preciso indirizzo metodologico che diede alle sue lezioni», essendo queste impostate su precipue componenti empiriche, quale elemento propulsore del rinnovamento della didattica tradizionale. Una chiara dimostrazione anche questa, insomma, di quanto egli si concentrasse «sull’aspetto qualitativo, non quantitativo e burocratico, del proprio ruolo».
Probabilmente erano ancora vivi in Pirandello gli echi del fervore riformista che aveva contrassegnato la scuola italiana nel clima positivistico tardo-ottocentesco (1880-1890), su lungimiranti propositi di modernizzazione dei metodi d’insegnamento, avallati da una serie d’iniziative ministeriali (Musei e Congressi pedagogici, Conferenze didattiche regionali, corsi di aggiornamento per docenti, ecc.), finalizzate a contrastare l’astrattezza delle invalse pratiche didattiche. Iniziative che attecchirono pure in Sicilia, adattandosi alla perseguita impronta di «un’istanza realistica che contrapponeva al verbalismo della lezione espositiva la concretezza della lezione di cose». Niente di più distante, insomma, da quell’esercizio didattico puramente formale, fondato sul codificato culto del “bel dire” e del “bello scrivere”, contemplato ad esempio nei vecchi programmi scolastici per l’insegnamento linguistico-letterario nei licei-ginnasi (1867), il cui fine esclusivo era quello di «acquistar l’abito di parlare e di scrivere con proprietà e gentilezza nella propria favella; i mezzi, l’esempio dei sommi scrittori e la pratica del comporre guidata da esperti maestri».
Invece, il professor Luigi Pirandello si sarebbe reso artefice nell’Istituto femminile romano di una progettualità didattica di portata innovativa, tale per giunta da apparire rivoluzionaria se è vero che, agli esordi della sua carriera scolastica, nelle scuole di Magistero «l’arte dell’insegnamento era trattata e tramandata come un contenuto culturale in sé, di cui non erano depositari gli educatori e i pedagogisti, ma gli specialisti dell’alta cultura, i monopolisti del sapere accademico». Un fatto stigmatizzato per via della diffusa constatazione che gli indirizzi di studio magistrali erano all’epoca «una vuota cerimonia che non giovava all’esperienza didattica». Del resto, di quanto tale metodologia a sfondo etico-sperimentale fosse convintamente assecondata da Pirandello negli anni della docenza romana, è rilevabile pure dalle informazioni forniteci da Santino Caramella, suo assistente di cattedra negli ultimi tempi del magistero pirandelliano (1921-1922). Il Caramella, infatti, invitato a rievocare la figura del maestro negli anni della comune permanenza nell’Istituto capitolino, dopo aver tratteggiato i saldi convincimenti più volte professati da Pirandello intorno al valore della disciplina insegnata, vale a dire quella scienza stilistica concepita come «“forma strutturante” […] della espressione linguistica, secondo la funzione dello stile come sistema nervoso della lingua»(e non soltanto con riferimento alla lingua dell’arte ma anche alla lingua viva), rammemorò pure nella circostanza una serie di esperimenti pratici condotti dall’agrigentino in aula. E vi segnalava, nella fattispecie, la peculiare attenzione che Pirandello andava riservando, in fase di revisione delle prove scritte, «a sollecitare conoscenza della lingua e dello stile mediante sviluppo di esperienza personale». Convinto come era, prendendo in prestito ancora le parole dell’attendibile testimone, «che l’immagine, nata come sentita e vissuta dalla fantasia, diventa comunicativa quando si sveglia in essa un pensiero (del suo valore simbolico) che suscita e dirige la volontà di esprimersi, sicché l’espressione è frutto e messaggio di tutta la personalità», Pirandello insisteva affinché «i discenti cercassero nella loro memoria letteraria e personale forme di espressione di cui riuscissero a percepire e apprezzare la “spinatura” scolastica come si percepisce la spinata delle foglie”. Cosicché, portando gradualmente quelli a impersonare «quasi attori di battute e tirate di stile da mettere in scena nel parlare e nello scrivere», egli spendeva le sue energie affinché essi facessero «dello studio dello stile il teatro dell’espressione consapevole, fino a diventarne principianti autori». In tale luce s’inquadravano pure le esercitazioni volte a familiarizzare i giovani al linguaggio drammatico, di modo che essi «potessero diventare coscienti di tutta la relatività della tecnica in confronto dell’intimo senso della propria personalità che ne doveva risultare». E ciò coll’intenzione, insomma, come scriveva sempre il Caramella, di fare «dei banchi della scuola i “banchi di prova” delle interpretazioni aggiornate da proporre ai suoi comici».
Dunque, a quell’«attore d’istinto» in grado di creare a scuola, con la sua voce e con la sua mimica, «un’atmosfera senza palcoscenico», non era affatto estranea una concezione della prassi scolastica esercitata in stretta sintonia con la propria visione teatrale, che in quegli anni (1918) andava mettendo a punto con febbrile operosità nell’alveo della cosiddetta sua “seconda maniera” (teatro umoristico). Più in generale, il mondo della scuola, con i suoi attori, i suoi spazi, le sue dinamiche (tra sogni, aspirazioni e frustrazioni dei protagonisti), avrebbe trovato un fedele rispecchiamento in tutta la produzione letteraria pirandelliana, sia teatrale sia narrativa. Basti qui accennare a personaggi come il professor Toti di Pensaci, Giacomino!, oppure a quelli eponimi delle novelle La maestrina Boccarmè, Il professor Terremoto, e ancora ai professori Gori di Marsina stretta, Torresi di Donna Mimma e Lamis di L’eresia catara, ecc., per avere elementi sufficientemente probanti di come nella scrittura di Pirandello si riscontrino temi e nuclei rappresentativi riconducibili al suo vissuto d’insegnante (e di studente). Temi che non soltanto assurgono a specchio del «malessere intimamente provato» dall’autore, quando non addirittura a rivelazioni del «trauma originario» legato alla personale condizione di docente. Poiché quando la scuola compare a far da sfondo alle vicende incentrate sui vari operatori del settore, essa non appare esclusivamente quale luogo di frustrazioni e di desideri inappagati (vedi i ricorrenti riferimenti alla scarsa autorevolezza del ruolo, alle inadeguate retribuzioni, alle ipocrisie sociali che aleggiano intorno a quelle figure, ecc.), essendo invece intravista anche nelle sue prerogative educative e didattiche, agganciate nell’operazione artistica pirandelliana alla celebrazione di più alti valori umani e morali. E ciò in linea con gli indirizzi metodologici che Pirandello perseguì negli anni della propria esperienza scolastica, adombrati nelle sue opere e resi funzionali all’enucleazione dei capisaldi ideologici della sua arte (relativismo gnoseologico, spersonalizzazione umana, dramma dell’incomunicabilità, ecc.). Giusto per fare qualche esempio: non è forse ravvisabile nella figura del professore di ostetricia Torresi di Donna Mimma, instancabile sostenitore della superiorità della teoria sulla prassi, del valore della scienza su quello dell’esperienza («Va bene, la pratica. Ma che cos’è la pratica?: […] conoscenza implicita, la pratica. E può bastare? No, che non può bastare. La conoscenza, perché basti, bisogna che da implicita divenga esplicita, cioè, venga fuori, venga fuori, così che si possa a parte a parte veder chiara e in ogni parte distinguere, definire, quasi toccar con mano, ma con mano veggente, ecco! O altrimenti, ogni conoscenza non sarà mai sapere») tutta l’avversione pirandelliana nei riguardi dell’enfasi retorica, dell’astratto nozionismo, della pedanteria intellettualistica accademica, principi pure didatticamente propugnati in aula? Si spiega proprio in tale ottica la chiusa ammonitrice della seconda sezione della novella, incentrata sull’immedesimazione del narratore-autore col dramma esistenziale del personaggio eponimo della novella (una levatrice di lungo corso ma senza studi, riscopertasi meno esperta di prima dopo il conseguimento del diploma), la cui crisi d’identità finale, umoristicamente rilevata, svela la vacuità di un profilo professionale fatto di pura altisonante scienza, offuscante ogni pratica esperienza:
Saprebbero più muoversi ora, queste manine, come prima? Sono come legate da tutte quelle nuove nozioni scientifiche. Tremano, le sue manine, e non vedono più. Il professore ha dato a donna Mimma gli occhiali della scienza, me le ha fatto perdere, irrimediabilmente, la vista naturale. E che ne farà domani donna Mimma degli occhiali, se non ci vede più?
Inoltre, non è forse legittimo scorgere nelle vicissitudini (condite con i soliti esiti grotteschi) di Bernardino Lamis de L’eresia catara, il professore ordinario di storia delle religioni che «non aveva voluto prender moglie per non esser distratto in alcun modo dagli studii», il riflesso di un amore incondizionato per il sapere e per l’esercizio del proprio mestiere d’insegnante? Un mestiere che, come Pirandello ben sapeva, per risultare efficace necessitava di stimoli e sollecitazioni provenienti sia dal rispetto e dalla stima degli alunni, sia dall’operare in un contesto sereno e motivante? Del resto, al riguardo, già nell’Esclusa comparivano segni di tale persuasione pirandelliana, scaturita dalla diretta esperienza scolastica dell’autore. Quando, infatti, Marta Ajala si trasferisce a Palermo (parte II, cap. I), una volta accolta con sincera benevolenza nella nuova realtà lavorativa di quel Regio Educandato di cui ammira «l’edificio del Collegio, il lusso interno, l’ordine che doveva regnarvi», raggiante per «l’accoglienza che le avevano fatto le convittrici dopo la presentazione lusinghiera della Direttrice», ritrova subito le spinte e le motivazioni necessarie che riversa proficuamente nel proprio mestiere, messasi ormai alle spalle i «passati lugubri giorni» e l’«incubo delle tristi memorie»:
E andando così, senza fretta, Marta pensava alle lezioni da impartire, e dal benessere che sentiva, non solamente le idee sgorgavano spontanee, ma quasi le zampillavano le parole che avrebbe dette, i sorrisi con cui le avrebbe accompagnate. Provava uno stringente bisogno d’essere amata dalle allieve, eppure indugiava in quell’aria fresca della via per godere poi maggiormente del calore di quell’amore riverente delle alunne, nella tiepida stanza della scuola.
Ecco, se è vero che l’ambiente dell’Istituto romano di Magistero non parve mai a Pirandello attraente e (altra ragione delle sue vacillanti presenze a scuola?), non gli mancò invece, come a Marta Ayala, quell’«amore riverente delle alunne», che fu tale da indurlo ad assumere nei loro riguardi atteggiamenti di scrupolosa umanità e coscienziosità, fatti valere persino fuori il tessuto scolastico
[…] quando gli fu riferito che una umile, zelantissima studentessa, da lui giustamente rimproverata all’esame scritto, non avrebbe potuto pagarsi un ripetitore, si offerse lui come cosa del tutto naturale, con la massima semplicità. Per tutte le vacanze estive le corresse compiti su compiti, la indirizzò a letture, la guidò a tal segno che all’esame d’autunno la ragazza si guadagnò la promozione e poté proseguire fino alla laurea.
Insomma, a quelle discepole «primitive e inesperte» a profitto delle quali Pirandello si era attribuito l’impegno di insegnare «le semplici pietre squadrate, atte a costruire la casetta razionale e funzionale, niente di più», non dovette sfuggire il senso più profondo dei disponibili modi dell’illustre professore; che rapportandosi a loro con pazienza, umiltà, e abnegazione impartiva lezioni di vita, non soltanto di scuola. Che poi era ciò che meglio gli riusciva fare. Per lui «scolaro docile, se non con gli insegnanti, di sicuro con la vita», attingere al magma dell’esistenza costituiva la condizione imprescindibile per sviluppare un maturo e consapevole apprendimento. La vita della scuola, dunque, con i suoi addentellati e i suoi riverberi nella realtà, s’intrecciava nella sua visione con «la scuola della vita», la palestra educativa garante di un vivo addestramento umano e intellettuale. «Scuola della vita» che corrispondeva a un concetto cardine della filosofia educativa di Pirandello, richiamato non soltanto nella solenne occasione della Dichiarazione per il conferimento del Premio Nobel (Stoccolma, 10 dicembre 1934), ma pure nel suo saggio, di poco antecedente a quella, intitolato antifrasticamente Non parlo di me (1933). È proprio in quest’ultima sede che quel concetto trova per la prima volta esposizione, con aggiunti riflessi gnoseologico-speculativi, per poi essere ripreso e riformulato a un anno di distanza nella Dichiarazione, suppergiù con le stesse espressioni. Scriveva, infatti, Pirandello nel saggio, enucleando il suo pensiero sulle fasi della formazione dello spirito artistico:
Uno spirito che, giunto alla sua maturità, sarà capace di sintesi originali, cioè d’esprimere un suo particolar senso della vita attraverso i modi dell’arte, situazioni e personaggi, che nasceranno dalla concezione della vita quale si sarà formata in esso con l’esperienza e con la riflessione […] non può avere in principio le abilità che in un bambino sorprendono gli adulti. Per giungere dove giungerà gli è necessaria una scuola di vita tanto inadatta agli abili quanto efficace su una certa qualità di spiriti vergini e pazienti: spirito veramente infantile all’inizio, e buono scolare, non dico alla scuola, ma nella vita, buono scolare cui occorre per prima cosa una piena buona fede verso le cose che apprende. Questa buona fede è l’ingenuità stessa del suo fondo, da cui il bisogno di credere negli aspetti della vita; come l’attenzione continua e la serietà intima con cui gli insegnamenti sono seguiti e considerati significano un umile e amoroso rispetto del piccolo spirito vivo verso le grandi cose vive che a poco a poco vengono in sua proprietà.
E seguiva nel suo ragionamento un’aggiunta significativa: e cioè che i depositari delle stesse doti d’ingenuità e di credulità che il vero artista esibisce nel suo rapporto con il mondo, e quindi pure detentori di un’analoga abilità di «creare forme di vita», erano i bambini («Nessun uomo è stato mai un bambino più vero, e quindi incomprensibile, d’un artista, nessuno più di lui privo dei mezzi per farsi valere e incapace di adottare facilmente i modi consigliati dalle convenienze»). Ma non i classici bambini «svelti, pronti, bene educati, disinvolti» («che cresceranno già indirizzati verso campi ben noti dell’attività umana»), bensì nella fattispecie quell’atipica tipologia di ragazzino «pieno d’interesse per se stesso e per tutte le cose della vita attorno», «attento e tardo e svagato e mai dello stesso umore», «così inadatto a far fare una buona figura ai genitori». Insomma, «il bambino più impacciato nelle incertezze e nel travaglio dell’infanzia che sia possibile immaginare»: quello che praticamente non interessa nessuno.
Soltanto quest’ultimo, a dire di Pirandello, sia per l’elevato potenziale di spontaneità-libertà-creatività, sia per l’attaccamento disinteressato alla vita, ma anche per il linguaggio creativo con cui riesce a esprime il suo senso dell’esistenza («il punto vivo»), era equiparabile all’atteggiamento dell’artista di qualità, che possiede quelle le stesse doti. Il quale artista, di riflesso, per riuscire degnamente nella sua impresa rappresentativa deve saper custodire ed esprimere quel patrimonio di conoscenze ed esperienze sedimentato nel bagaglio della propria memoria infantile («Vera infanzia, e fedeltà all’infanzia, senso schietto della vita, senso del mistero, impegno ad acquistare, per un bisogno di cui non si vede lo scopo, coscienza delle cose e dei loro rapporti e di pari passo un proprio linguaggio»). Perciò, concludeva Pirandello:
Guai allo scrittore che ad un certo punto non si ricorda della sua infanzia, dove ha radici originarie il suo mondo, e non torna fedele all’impegno assunto quando gridò che era nato per esprimere. Esprimere è dire agli uomini com’è la vita, come uno spirito umano fatalmente disinteressato la sente in sé per tutti; non è scrivere, cioè mostrare come uno spirito ozioso, anche se severamente impegnato, riesce a muoversi e ad atteggiarsi con le parole. Non si tratta di dar spettacolo della propria bravura e capacità di dire, ma di comunicare altrui, com’è possibile, cercando che siano spettacoli o romanzi, versi, novelle, per quanto è possibile, le forme che lo spirito umano crea, quasi continuando su altro piano l’opera stessa della natura naturante, forme in cui si stringe e s’addensa, assunto, cioè fermo nel moto stesso per cui si svela, un genuino senso umano di questa misteriosa vita che tutti viviamo.
Dunque, infanzia, scuola, letteratura si stagliavano nella matura riflessione pirandelliana quali ricettacoli di esperienze paradigmatiche, interconnesse tra loro per il comune valore formativo, assimilabili a tappe obbligate del percorso umano di evoluzione e di perfezionamento intellettivo-spirituale. Così, nelle forme di un concettoso vademecum istruttivo, perlustrando gli angoli più riposti dell’universo bambinesco, studentesco e artistico, Pirandello metteva in campo in Non parlo di me tutta la sua sensibilità pedagogica, affiorata alla luce d’istanze e di cognizioni programmaticamente avvertite per autobiografico coinvolgimento. Non era anche lui stato un bambino «tardo» e per giunta «dall’animo impaziente ed avido di libertà»? Non aveva egli forse raccomandato sempre, da professore, la chiarezza e la semplicità del dire, sostenendo nella scrittura il valore dell’umiltà (contro ogni ipotesi di talentuosa superbia o di pretesa bravura), corredo necessario del perito artista? E così via dicendo.
Tutti saldi principi teorici, ascrivibili al ricco mosaico esperienziale della sua vicenda d’artista, della sua esperienza di docente, della sua vita d’infanzia. Con quest’ultima innalzata a momento archetipico del formarsi dello spirito, quale spazio aurorale d’affetti, idee e sentimenti che trovano realizzazione nella dimensione artistica. Infanzia che per lui non coincideva con la leopardiana «radura d’illusioni cui si vorrebbe far ritorno», bensì con la «remota, incomprensibile età diversa, enigmaticamente suggellata», come testimoniano anche le parole di Serafino Gubbio (quaderno III, cap. III):
Solo i fanciulli han la divina fortuna di prendere sul serio i loro giuochi. La meraviglia è in loro; la rovesciano su le cose con cui giuocano, e se ne lasciano ingannare. Non è più un giuoco; è una realtà meravigliosa.
Occorre ricordare, a tal proposito, che nell’opera di Pirandello l’universo infantile non è soltanto puntellato di riflessioni qua e là sparse in pagine critiche e teoriche, ma non sfugge nemmeno a una coerente trasposizione letteraria. Lo comprovano gli spazi e gli indugi dedicati ai fanciulli nel novelliere dell’agrigentino («sempre soffusi di gentilezza, di un soffio evanescente di poesia»), ma ancor di più la giovanile produzione favolistica pirandelliana, espressamente dedicata a un pubblico adolescenziale. Un chiaro esempio, tali prove, di una concessione dell’autore esordiente a quel gettonato genere della letteratura per ragazzi, che nel periodo post-unitario vantò tutto un fervore di opere e d’iniziative editoriali promosse nel solco di diffuse istanze eticopedagogiche. Frutto dei lavori di laurea attesi a Bonn (la memoria dottorale sul tema Lessing, la Favola e le Favole e la tesi Fonetica e sviluppo di suoni del dialetto di Girgenti), ma complice pure l’influenza del Capuana, l’interesse di Pirandello per quella tipologia di testi per bambini si concretizzò in un’attività scrittoria che annovera sia traduzioni di favole classiche (da Arsitofane, da Lessing), sia componimenti originali (apologhi, versi in forma di filastrocca).
Sebbene, tuttavia, anche molte sue novelle, compresi taluni esiti teatrali, risultino ascrivibili a quello stesso repertorio, considerata la massiccia presenza di scenari narrativi meraviglioso-fantastici, perlopiù popolati da animali ritratti in straniante prospettiva antropomorfizzata. Nella penuria di attenzioni critiche su tale inesplorato caso di sconfinamento d’autore, ha concentrato fortunate attenzioni Franco Zangrilli, che a più riprese ha messo in luce le spinte ideologiche e le finalità morali sottese al bestiario favolistico pirandelliano, usufruito dall’autore in congeniale chiave simbolico-umoristica.
Non è certo questa la sede per addentrarsi nella disamina dei risultati prodotti da tali stimolanti indagini. Qui è sufficiente, invece, tirando le fila del nostro ragionamento, trarre dalla segnalazione di quel segmento di parabola creativa pirandelliana elementi validi a fornire un’ulteriore conferma dell’esplicitarsi nell’autore di un’autentica vena educativa. Perciò appare legittimo a questo punto dissentire dalle valutazioni che ne hanno eccepito la sussistenza, suffragate dall’idea che a Pirandello «era aliena la vocazione pedagogica, e anzi gliene era connaturata una antipedagogica». Vocazione che invece affiora visibilmente in molteplici circostanze della sua attività (cattedratica e non) e che è possibile esaminare in relazione con i risvolti edificanti associati alla sua arte. È questo un terreno d’indagine su cui si sta concentrando attualmente l’impegno condiviso di letterati, pedagogisti, storici del teatro, accomunati dall’idea di intraprendere un approccio «alla vastità dell’opera pirandelliana riletta con sensibilità paideutica». E ciò muovendo proprio dalla convinzione che quell’opera «contenga in sé una specifica valenza educativa, in grado di rispondere a esigenze fondamentali per lo sviluppo dell’umanità dell’uomo», assodato per l’appunto il fatto che «nel campo dell’educativo poco ci si è avvalsi del suo apporto».
Andrea Scardicchio
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