Di Salvatore Ferlita.
In che misura gli autori italiani premiati col Nobel abbiano potuto influenzare le opere dei poeti e degli scrittori scandinavi, e non solo, del Novecento. Un interrogativo che ci consente di riconsiderare le acquisizioni critiche oramai cristallizzate, per reimmettere la nostra produzione nel solco della tradizione letteraria internazionale.
Pirandello e Quasimodo. Le ragioni del Nobel
Fa uno strano effetto leggere le motivazioni dei due premi Nobel siciliani per la letteratura, conferiti nel secolo scorso a Luigi Pirandello e a Salvatore Quasimodo. Perché significa guardare alla nostra tradizione letteraria con gli occhi degli altri e venire a capo dei rapporti internazionali tra la nostra cultura e quella dei paesi nordici.
L’occasione è offerta dal volume intitolato “Alloro di Svezia. Le motivazioni del Premio Nobel per la Letteratura” (Monte Università Parma editore, 118 pagine, 16 euro), a cura di Daniela Marchesini, alla quale si deve un’introduzione in cui è spiegato il senso dell’operazione editoriale: quello di «ampliare l’orizzonte del nostro sguardo e uscire da un certo provincialismo italiano». Per far questo, si può finalmente prendere le mosse dalle carte degli accademici di Svezia: le sorprese non saranno poche.
Dal 1901, anno in cui il premio fu consegnato per la prima volta, a oggi, sono stati parecchi i Nobel controversi e non poche volte il comitato è stato tacciato di tendenziosità o di vera e propria insipienza. Difficilmente però si sarebbe potuta contestare la candidatura di Luigi Pirandello, avanzata da Guglielmo Marconi in qualità di presidente della Classe di Lettere dell’Accademia d’Italia.
(segue dalla prima di cronaca) Pirandello ricevette il premio nel 1934: fu lo scrittore Per Hallstrom, membro dell’Accademia di Svezia che aveva vissuto per qualche tempo a Firenze, a caldeggiare la causa del drammaturgo siciliano, facendo riferimento alla «rappresentativa opinione nazionale» che stava dietro la scelta di Pirandello, ossia la stima da lui goduta non solo in patria. Cosa che invece non convinceva affatto Henrik Schuck, storico della letteratura, il quale invece avrebbe preferito insignire Eugene O’Neill.
Fu proprio Hallstrom, segretario permanente dell’Accademia, a tenere il discorso di presentazione, il 10 dicembre 1934. Discorso che ci consente di conoscere il giudizio straniero sull’opera di Pirandello, la sua diffusione e l’accoglienza riservatale. Se ne può in pratica ricavare una sorta di estetica letteraria che entra in conflitto col nostro canone. Sottoposto allo sguardo obliquo degli svedesi, l’universo artistico pirandelliano si illumina di una luce spiazzante e livida.
L’estensore della motivazione aprì il suo discorso con un’inesattezza sul numero delle “Novelle per un anno”: «L’opera di Luigi Pirandello è vasta. Come scrittore di novelle, egli non ha certamente eguali nel numero di pubblicazioni, neppure nel paese principe di questo genere letterario. Il “Decameron” di Boccaccio contiene cento novelle, le “Novelle per un anno” (1922-34) di Pirandello contengono una novella per ogni giorno dell’anno». Si sa invece che l’intenzione iniziale di Pirandello di raccogliere in un solo corpus un numero di novelle pari a quello dei giorni dell’anno fu una promessa mancata.
Come inizio, potremmo dire, non c’è male. E dopo aver messo in rilievo la presenza dell’umorismo e della satira nelle descrizioni che danno corpo alle novelle e l’immaginazione poetica che le anima, Hallstrom non risparmiò allo scrittore siciliano una bacchettata: «Il tratto caratteristico di tutte queste novelle è l’improvvisazione disinvolta che conferisce loro spontaneità; ma dal momento che il limitato raggio d’azione richiede una composizione particolarmente rigorosa, vi si può ritrovare anche il prodotto dell’improvvisazione. Nel trattare frettolosamente il soggetto, può accadere che Pirandello ne perda in breve tempo la padronanza senza mostrare la benché minima preoccupazione per l’effetto generale. Nonostante la loro grande originalità, le novelle sono scarsamente rappresentative del talento dello scrittore».
Fa un certo effetto leggere oggi un giudizio del genere, alla luce di quanto invece la critica da tempo oramai sostiene, riguardo alla importanza e alla compiutezza del corpus novellistico dell’autore. Il Pirandello romanziere non fa certo una fine migliore: «Neppure i romanzi – continua Hallstrom – segnano l’apice del suo compiuto lavoro letterario. Anche se i primi erano imbevuti delle stesse idee con le quali Pirandello ha dato un contributo profondamente originale al teatro moderno, egli ha riservato la forma definitiva di tali idee al teatro».
Se c’è un romanzo da salvare, per lo svedese, questo è “Si gira” (1916), in Italia invece accolto con tiepidezza, se non addirittura stroncato, come ricorda nelle pagine introduttive Daniela Marchesini: «Gli intellettuali scandinavi ne avevano invece già compreso l’importante significato teoretico-concettuale, vale a dire la riduzione della vita a immagini, apparenza che è in realtà vuoto e morte spirituale».
«La nostra esistenza moderna – si legge nella motivazione, sempre in riferimento a “Si gira” – si rivolta e procede con la stessa velocità della morte, completamente meccanizzata come se fosse stata distrutta e annichilita». è la denuncia dell’alienazione che gli svedesi individuarono come nucleo tematico forte, che poi sarebbe ritornato, col suo corrusco alone mitologico, nei “Giganti della montagna”.
Il contributo fondamentale, per gli accademici di Svezia, fu dato da Pirandello alla scena moderna, in direzione di una drammaturgia ricca di speculazioni filosofiche e attenta ai problemi etici e sociali: «Come moralista – sono sempre parole di Hallstrom – Pirandello non è né paradossale né distruttivo. Il bene resta bene e il male, male».
Laddove, dunque, in Italia si intravedeva una pesantezza cerebrale, una complicazione filosofica e psicologica, in Svezia invece si individuava il punto di forza dei drammi pirandelliani: questo, come spiega la Marchesini, anche grazie alla conoscenza dei metodi e dei principi della psicologia sperimentale da parte della cultura scandinava. Un Pirandello rovesciato, dunque, quasi irriconoscibile, viene fuori dal discorso dell’accademico svedese.
Una sorte “migliore” tocca all’altro Nobel siciliano, Salvatore Quasimodo. A sostenerne la candidatura furono due personalità autorevoli come Carlo Bo e Francesco Flora, due guru della critica letteraria di quegli anni. L’attribuzione del Nobel tuttavia, nel 1959, scatenò polemiche accesissime negli ambienti letterari italiani. Basti pensare che il 25 ottobre di quell’anno il “Corriere della Sera” pubblicò un pezzo di Emilio Cecchi che così si apriva: «A caval donato non si guarda in bocca».
Nel suo discorso di presentazione, Andres Osterling, che aveva già tradotto versi dello stesso Quasimodo, mise in correlazione l’anima poetica dell’autore modicano direttamente con la sua terra natia: «Non è difficile immaginare come questa regione così ricca di memorie del passato abbia avuto un’importanza straordinaria per la sua futura vocazione. I resti degli antichi templi greci dell’isola, i teatri vicini al mar Ionio, la sorgente Aretusa, così famosa nel mito, le gigantesche rovine di Girgenti e Selinunte: quale scenario per la fantasia di un bambino».
A convincere gli accademici di Svezia fu sicuramente il contributo dato da Quasimodo in qualità di traduttore della letteratura dell’antichità classica e soprattutto la sua capacità di interpretare la vita morale dei suoi concittadini «nella quotidiana esperienza di innumerevoli tragedie e nel confronto costante con la morte».
Nella tramatura fatta di citazioni bibliche e di allusioni alla mitologia classica, «quella mitologia che è una costante fonte d’ispirazione per un siciliano», Osterling individuò la cifra personale di Quasimodo, autore di «poesie così monumentali che devono essere giudicate un contributo duraturo al mondo della grande poesia». E a chiusura del discorso dell’accademico di Svezia si legge, a mo’ di suggello: «Per la sua poesia lirica che con il fuoco della classicità esprime il sentimento tragico della vita della nostra epoca».
Alla luce di tutto questo, la curatrice del libro a un certo punto si chiede in che misura gli autori italiani premiati col Nobel abbiano potuto influenzare le opere dei poeti e degli scrittori scandinavi, e non solo, del Novecento. Un interrogativo che ci consente di riconsiderare le acquisizioni critiche oramai cristallizzate, per reimmettere la nostra produzione nel solco della tradizione letteraria internazionale.
Salvatore Ferlita
1 novembre 2007
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