Di Carlo Ferrucci.
Le visioni del mondo dei due artisti hanno in comune tre assunti fondamentali, strettamente collegati fra loro: un’«etica dello smascheramento», uno «sguardo cosmico» o «galileiano», e un genere di pensiero «ultrafilosofico».
Due sguardi dal cosmo:
Pirandello e Leopardi
da Cuadernos de Filología Italiana,
Num. 1, pp. 93-101,
Editorial Complutense, Madrid, 1994
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
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[1] Cfr., rispettivamente, Marziano Guglielminetti, Leopardi nella letteratura italiana da Graf alla «Voce», in AA.VV., Leopardi e il Novecento, Atti del III Convegno internazionale di studi leopardiani, Firenze, Olschki, 1974, p. 125; e Davide De Camilli, Leopardismo pirandelliano, in AA.VV., Studi in onore di Alberto Chiari, Brescia, Paideia, 1973, vol. I, pp. 345-64.
Una sintonia così marcata, infine, da rappresentare per ciò stesso un punto di contatto tra i due autori, in quanto anche Leopardi tendeva per sua stessa ammissione ad assumere un atteggiamento di forte identificazione, e quasi di indistinzione, nei confronti degli scrittori che si sentiva più vicini.
Diciamo, per cominciare, che di contro all’immagine, certo rivoluzionata ma tutto sommato ancora riassorbibile entro schemi relativamente tranquillizzanti, che dell’uomo ci presentano i maggiori protagonisti della letteratura europea degli ultimi 150-200 anni – un Goethe, un Baudelaire, un Proust, un Musi! -, Leopardi e Pirandello appaiono accomunati dalla volontà, come dire, di passare da parte a parte l’individuo e la società con uno sguardo così corrosivo da obbligarli a fare i conti fino in fondo con le loro inquietudini, contraddizioni, lacerazioni. Forse solo Sade dalle tenebre della sua cella, e Dostoevskij dall’inferno della Russia zarista, si sono spinti altrettanto lontano; ma il primo non aveva ormai più nulla da perdere, mentre il secondo aveva pur sempre una sua fede cui appoggiarsi. Aveva, cioè, qualcosa che né Pirandello né Leopardi intendono possedere perché ogni fede in senso forte nasce ai loro occhi dal vizio dell’uomo divedersi più nobile, più bello, più importante del vero; un vizio al quale entrambi contrappongono quella che potremo chiamare un’ «etica dello smascheramento», che permea l’insieme della loro opera in una misura che questa mia breve analisi potrà illustrare solo per sommi capi.
Tra le manifestazioni più chiare e perentorie di quest’insofferenza per ogni forma di autoinganno, di simulazione e di artificio, vanno sicuramente annoverati un passo del leopardiano Dialogo di Timandro e di Eleandro, del 1824, e un altro del saggio pirandelliano L’umorismo, del 1908.
Tutti i savi – afferma a un certo punto Eleandro, alter ego dello scrittore – si ridono di chi scrive latino al presente, che nessuno parla quella lingua, e pochi la intendono. Io non veggo come non sia parimente ridicolo questo continuo presupporre che si fa scrivendo e parlando certe qualità umane che ciascun sa che ormai non si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici adorati già lungo tempo addietro, ma ora tenuti internamente per nulla e da chi li nomina e da chi gli ode a nominare. Che si usino maschere e travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti; non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una stessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare l’un l’altro, e conoscendosi intimamente tra loro; mi riesce una fanciullaggine. Cavinsi le maschere, si rimangano coi loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e staranno più a loro agio. [2]
[2] Giacomo Leopardi, Tutte le opere, a cura di Walter Binni con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1983, vol. I, p. 163.
Più concitata e realistica, com’è nello stile dello scrittore agrigentino, ma non meno chiara ed efficace, l’analoga presa di posizione di Pirandello:
Maschere, maschere… Un soffio e passano, per dar posto ad altre. Quel povero zoppetto là… Chi è? Correre alla morte con la stampella… La vita, qua schiaccia il piede a uno; cava là un occhio a un altro… Gamba di legno, occhio di vetro e avanti! Ciascuno si racconcia la maschera come può – la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori. E niente è vero! Vero il mare, sì, vera la montagna; vero il sasso; vero un filo d’erba; ma l’uomo? Sempre mascherato, senza volerlo, senza saperlo, di quella tal cosa ch’egli in buona fede si figura d’essere: bello, buono, grazioso, generoso, infelice, ecc. ecc. E questo fa tanto ridere a pensarci. [3]
[3] Luigi Pirandello, L’umorismo, in Saggi, poesie e scritti vari, Milano, Mondadori, 1960, pp, 153-4.
Notiamo che, con questo loro nominare il lato «ridicolo di tale coazione a mascherarsi e imbellettarsi, i due brani contengono in nuce, da un lato, buona parte delle Operette morali e dell’ultima produzione di Leopardi, dalla Palinodia a I nuovi credenti, dai Pensieri, che sono per un certo verso proprio un piccolo trattato sulla simulazione o «impostura», ai Paralipomeni della Batracomiomachia; dall’altro, le innumerevoli figure e situazioni in questo senso tutto particolare «umoristiche» di Pirandello: dalla caleidoscopica decostruzione dell’io proprio e altrui ossessivamente perseguita dal Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila al ghignante funambolismo psicologico del Laudisi di Così è (se vi pare), dalla tagliente «nudità» della maschera del finto pazzo Enrico IV alla «morale del pupo» denunciata con tanto lucido strazio dallo scrivano Ciampa. Se a ciò poi aggiungiamo che il saggio pirandelliano sull’umorismo è di tutti i suoi scritti quello in cui più ricorre, e proprio in riferimento alle Operette morali, il nome di Leopardi, comprendiamo facilmente l’importanza che il parallelo appena tracciato riveste per un’adeguata valutazione del rapporto tra i due scrittori.
Quella che ho definito ‘etica dello smascheramento’, d’altro canto, ha anche un altro risvolto comune a entrambi, un risvolto dotato a sua volta di una componente umoristica ma caratterizzato soprattutto da un’impronta, come dire, «galileiana». Sia Leopardi che Pirandello, in altre parole, esprimono la convinzione che quell’incontrollata mania di travestirsi, quel bisogno di alterare le proprie fattezze, di pavoneggiarsi con un’immagine sempre un po’ troppo compiuta, graziosa e gonfiata di sé, fa tutt’uno col rifiuto dell’uomo di ammettere che il suo mondo non è il centro del creato.
Il disincantato e dissacrante richiamo alle storie che i due scrittori ci rivolgono a questo riguardo è, cominciando di nuovo da Leopardi, un altro leitmotiv delle Operette morali, particolarmente riconoscibile prima nel Dialogo di Ercole e di Atlante, in cui i due mitici personaggi si prendono gioco della «pallottola» o «sferuzza» della Terra, quindi -tre anni dopo, nel 1827- nel dialogo Il Copernico, dove il personaggio del Sole dichiara essere giunto il momento in cui gli uomini e quel «granellino di sabbia» del loro pianeta si rassegnino a mettersi loro, adesso, a girare intorno a lui, smettendo di darsi tutte quelle arie da «imperatori dell’universo». Sarà, infine, la volta della Ginestra di parlare del mondo come di un «oscuro/Granel di sabbia». [4]
[4] Cfr., rispettivamente, Tutte le opere, op. cit., vol. I, pp. 86, 87, 167, 43.
In Pirandello, il motivo dell’ironico ridimensionamento del rango occupato nel cosmo dalla Terra e dai suoi abitanti appare, in termini che esasperano anche lessicalmente quelli leopardiani, già nella sua prima raccolta poetica, Mal giocondo, del 1889. Qui, accanto ad altri temi tipicamente leopardiani come la malia delle illusioni – «dolce inganno», «dolci inganni» – e il naufragio nell’infinito, troviamo la Terra definita prima «sciocca enorme trottola/che ci porta in su’l groppone» e poi, con significativa ripetizione al superlativo del non benevolo aggettivo, «enorme trottola sciocchissima/per gli spazi lanciata a raggirarsi». [5]
[5] Vedi Allegre, IV, in Luigi Pirandello, Saggi…, op. cit., p, 461, e Triste, VIII, ibid., p. 499. La Terra diventerà poi, in Fuorì di chiave, «vettura… sempre in giro, alla ventura» (Il pianeta, 4) e «ferrea/palla di galeotto» (Bolla e palla), e in Poesie varie «palla di cartone» e «baloccuccio» (Il globo).
La stessa immagine, che evidentemente agli occhi di Pirandello simboleggia meglio di qualsiasi altra l’idea che il nostro mondo è in buona sostanza solo il minuscolo trastullo di incommensurabili forze cosmiche, ritorna come «trottoletta volgarissima» in un saggio del 1893, Arte e coscienza d’oggi, e ancora come «invisibile trottolina» – ma con l’aggiunta, letteralmente leopardiana salvo che per l’aggettivo in più, «impazzito», di «granellino di sabbia»- ne Il fu Mattia Pascal’. [6]
[6] Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, Milano, Mondadori, 1943, p. 246.
Il modo, ben più meditato e sofferto di quanto il tono scherzoso dei miei riferimenti testuali non lasci trasparire, in cui tanto «l’etica dello smascheramento» quanto questo «sguardo dal cosmo» si dispiegano nell’opera leopardiana e pirandelliana, può già farci capire quanto sarebbe riduttivo, se non francamente fuorviante, ostinarsi a interpretarle in termini, rispettivamente, di «pessimismo» e «pessimismo-irrazionalismo». Oggi più di ieri, infatti, sia quella caparbia rivendicazione di una maggiore autenticità nei nostri rapporti con noi stessi e con gli altri, sia l’invito a guardare al nostro mondo con gli occhi, diciamo, di un ipotetico extraterrestre, attestano semmai un non comune desiderio di chiarezza e di oggettività, e un forte impegno a far sì che l’arte non contrasti ma, al contrario e a dispetto di certe apparenze, sposi e stimoli la ragione.
A questo riguardo, le prese di posizione teoriche di Leopardi e di Pirandello, anch’esse sostanzialmente collimanti, sono estremamente rivelatrici, e non ancora sufficientemente considerate. Nello Zibaldone, in cui Leopardi si pone a più riprese la domanda se sia ancora possibile fare poesia in un’epoca sempre più dominata dal sapere razionale e dichiara in sostanza di accettare questa sfida, leggiamo ad esempio che
L’immaginazione è la più feconda e meravigliosa ritrovatrice de’ rapporti e delle armonie le più nascoste (p. 1836),
e, con un riferimento ancora più diretto alla possibile convergenza di finzione artistica e verità, che
La facoltà inventiva è una delle ordinarie, e principali, e caratteristiche qualità e parti dell’immaginazione. Or questa facoltà appunto è quella che fa i grandi filosofi, e i grandi scopritori delle grandi verità. E si può dire che da una stessa sorgente, da una stessa qualità dell’animo, diversamente applicata e diversamente modificata e determinata da diverse circostanze e abitudini, vennero i poemi di Omero e di Dante, e i Principii matematici della filosofia naturale di Newton… Immaginazione e intelletto è tutt’uno (p. 2132).
Ma in questa luce bisognerebbe anche rileggere, a testimonianza di quanto Leopardi tenesse al fondamento razionale e ragionato della sua visione artistico filosofica, almeno la vibrante protesta contenuta nella sua lettera al filologo svizzero De Sinner:
È solo a causa della loro vigliaccheria che gli uomini hanno voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze personali e si ostinano ad attribuire alle circostanze materiali della mia vita ciò che è invece frutto del mio intelletto (24 maggio 1832);
così come il già citato Dialogo di Timandro e di Eleandro, che in una lettera all’editore lo scrittore definiva il testo in cui «è dichiarato… abbastanza lo spirito di tutte le Operette» e dove vediamo Eleandro-Giacomo costringere il suo interlocutore ad ammettere che le verità da lui predicate sono «la sostanza di tutta la filosofia»; o il conclusivo Dialogo di Tristano e di un amico, in cui Tristano- Giacomo rivendica a sé il coraggio di «accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera»; o, infine, i non meno conclusivi versi della Ginestra, che in polemica col «secol superbo e sciocco» dicono «il vero/Dell’aspra sorte e del depresso loco/Che natura ci diè» e auspicano che «con franca lingua/Nulla al ver detraendo» regnino il «verace saper, l’onesto e il retto/Conversar cittadino». In quest’ottica, mi sembra molto significativo per il nostro tema che le più esplicite affermazioni di Pirandello sulla peculiare, ma per lui innegabile, interdipendenza di intelligenza e fantasia nell’opera d’arte, siano contenute nello stesso testo che si apre con un attacco contro due critici – uno psichiatra e un antropologo, per la verità – che avevano interpretato la poesia di Leopardi in termini di carenze fisiologiche del loro autore. Ciò rende infatti ancora più legittimo l’accostamento fra le appena ricordate asserzioni leopardiane e quello che Pirandello scrive più avanti in questo saggio, che è Arte e scienza, del 1908. Qui leggiamo tra l’altro che sbaglia chi, come Benedetto Croce – ossia, si noti, il pensatore che negava autentico spessore filosofico e a Leopardi e a Pirandello - applica all’arte distinzioni di «un rigore quasi geometrico», in quanto si tratta di una sfera in cui «le varie attività e funzioni dello spirito» si svolgono invece più che mai «in intimo inscindibile legame e in continua azione reciproca». Contro le «astrazioni» di un’estetica che nega al fatto artistico questa ricchezza e completezza di articolazioni, dunque, prosegue Pirandello, si deve ripetere che esso è caratterizzato all’opposto proprio da un fecondo incontro-scontro, potremmo dire, di sentimento e conoscenza, fantasia e intelletto, gioia dell’invenzione e calcolo:
Per quanto libera, per quanto in apparenza indipendente da ogni regola, essa [l’arte] ha pur sempre una sua logica, non già immessa e aggiustata da fuori come un congegno apparecchiato innanzi ma ingenita, mobile, complessa.
L’armonia di ogni opera d’arte può essere scomposta dalla critica, per mezzo dell’analisi, in rapporti intellegibili, e in quest’armonia la scienza può scorgere una scienza, un insieme di leggi complesse, di calcoli senza fine, che l’artista ha concentrato nella sua azione spontanea. Tutte le osservazioni di lui si rivelano, appaiono penetrate d’intelligenza; il suo piacere è uno strumento di precisione che calcola senza saperlo. [7]
[7] Luigi Pirandello, Arte e scienza, in Saggi…, op. cit., pp. 167 e 178.
Al pari di Leopardi, d’altro canto, anche Pirandello non si limita a dibattere questo tema da saggista, ma lo cala nel vivo della sua arte, conferendo in tal modo a quest’ultima quel tono raziocinante che, subito colto e discusso dalla critica, ci appare sempre più come uno dei principali fattori della fortuna dell’Agrigentino come «classico della modernità». Lo troviamo, ad esempio, tale tono, felicemente sintetizzato -oltre che leopardianamente coniugato col verbo soffrire- in un passo della novella Il professor Terremoto:
Sono così tormentosamente dialettici questi nostri bravi confratelli meridionali. Affondano nel loro spasimo, a scavarlo fino in fondo, la saettella di trapano del loro raziocinio, e fru e fru e fru, non la smettono più. Non per una fredda esercitazione mentale, ma anzi al contrario, per acquistare, più profonda e intera, la coscienza del loro dolore.
o, in chiave di lucida risposta a quanti mettevano in discussione la validità artistica dei suoi personaggi-filosofi, nell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia posposta a Il fu Mattia Pascal:
…volendo parlare così astrattamente come codesti critici fanno, non è forse vero che mai l’uomo tanto appassionatamente ragiona (o sragiona, che è lo stesso), come quando soffre, perché appunto delle sue sofferenze vuol veder la radice, e chi gliele ha date, e se e quanto sia stato giusto il dargliele; mentre quando gode, si piglia il godimento e non ragiona, come se il godere fosse suo diritto? Dovere delle bestie è il soffrire senza ragionare. Chi soffre e ragiona (appunto perché soffre), per quei signori critici non è umano; perché pare che, chi soffra, debba essere soltanto bestia, e che soltanto quando sia bestia, sia per essi umano.
Giunti a questo punto, possiamo cominciare a tirare le somme del nostro discorso. Abbiamo osservato che, al di là di chiare differenze di linguaggio e di timbro espressivo – più ricercati e pacati in Leopardi; più vicini al parlato, più nervosi e concitati in Pirandello le visioni del mondo dei due artisti hanno in comune tre assunti fondamentali, strettamente collegati fra loro: un’«etica dello smascheramento», che ci vorrebbe più capaci di guardarci in faccia, meno succubi delle parti assegnateci dalla tragicommedia della vita; uno «sguardo cosmico» o «galileiano», che ci vorrebbe vedere più consapevoli dei limiti del nostro mondo; e un genere di pensiero – da me in altre occasioni definito, parafrasando Leopardi, «ultrafilosofico» [8] – che sforzandosi di abbracciare nella sua interezza la condizione dell’uomo, esalta la capacità di conoscenza e i contenuti di verità dell’immaginazione e del sentimento.
[8] Carlo Ferrucci, Due estetiche ultrafilosofiche, in Id., Leopardi filosofo e le ragioni della poesia, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 149-159. Si tratta di pagine interamente dedicate al rapporto Leopardi/Pirandello, sul quale v. anche Id., «Leopardi, Pirandello e la morale del «drama a tristo fine», Clinamen, anno I, 1, settembre-dicembre 1988, pp. 70-84. Per un’ulteriore riflessione sulla rilevanza teorica della poesia e della poetica di Leopardi, infine, mi permetto di rinviare anche ai miei lavori Leopardi e l’esperienza estetica della verità, in AA.VV., Leopardi e il pensiero moderno, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 200-214; Un’estetica ontologica?, in AA.VV. , Leopardi, arte e verità, Roma, Bonacci, 1990, pp. 7-18, e «La poesia di Leopardi tra primato dell’esistenza ed esperienza del nulla», in Testo, 19, 1990, pp. 134-144.
È a questi tre aspetti, sicuramente, che è dovuta, oltre alla profonda affinità tra l’opera di Leopardi e quella di Pirandello, anche la loro grande modernità. La loro arte, tuttavia, non sarebbe stata la stessa, non avrebbe corrisposto così in pieno agli stati d’animo degli uomini di oggi, se il terzo aspetto – la volontà di abbracciare e investire, dicevo, l’interezza della nostra condizione non si fosse trovato intrinsecamente obbligato a tradursi, oltre che in lucidità, irrisione, disincanto, anche in partecipazione, solidarietà, compassione.
È cosi che Leopardi, l’ora dolente ora sarcastico smascheratore della vanità delle illusioni, può scrivere senza contraddirsi, già all’inizio dello Zibaldone, di considerarle nello stesso tempo come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in modo che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo evoluti dalla natura (p. 51); ed Eleandro-Giacomo, dopo aver messo in chiaro come si è visto che le «verità dure e triste» da lui ricordate sono «la sostanza di tutta la filosofia», può aggiungere che ciò nulla toglie al valore di
quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita. [9]
[9] Giacomo Leopardi, Tutte le opere, op. cit., vol. I. p. 165.
e nel XXIX dei Pensieri, per limitarci qui solo ad alcuni degli esempi più eloquenti, si trova affermato che l’incapacità dell’uomo di fare a meno delle illusioni va capita e compatita perché è la sua risposta agli inganni perpetrati contro di lui dalla natura. Ciò non significa, però, si badi, che per Leopardi si debba sostituire la finzione alla verità, l’immaginazione alla ragione, la compassione all’irrisione. Piuttosto, egli auspica e mette in opera nei suoi testi – soprattutto, ma non solo, negli ultimi – una problematica quanto feconda compresenza di quegli antinomici fattori del suo pensiero e della sua arte; come risulta chiaramente, fra l’altro, dal Dialogo di Tristano e di un amico, nel quale Tristano-Giacomo salva gli inganni dell’immaginazione ma insiste nel condannare quelli dell’intelletto, e dalla Ginestra, il cui verso «non so se il riso o la pietà prevale» esprime magistralmente, da un lato, la disponibilità del poeta ad offrire ai suoi simili la propria partecipe solidarietà, dall’altro il suo scetticismo sulla loro capacità di meritarsela rinunciando alle «superbe fole» dei loro sogni antropocentrici.
Non diversa appare, anche sotto questo profilo, la visione di Pirandello. Nel già ricordato Il fu Mattia Pascal, ad esempio, non troviamo solo lo «sguardo cosmico» o «galileiano» rivolto suo malgrado sul mondo da un uomo che significativamente è insieme, come dire, di là e di qua della vita, ma anche la constatazione molto leopardiana che le interessate costruzioni della fantasia sono parte organica del nostro modo di essere:
Don Eligio Pellegrinotto – è Mattia Pascal che parla – mi fa però osservare che, per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l’uomo si distrae facilmente … Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel ciclo, che per farci lume di notte come il sole di giorno. e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro.
Il tema variamente accennato nelle poesie, riapparirà poi con particolare evidenza anche in Uno, nessuno e centomila e in novelle come Notizie del mondo, Una voce, I pensionati della memoria, Paura d’esser felice, formando poi parte integrante di quella dialettica, o rimescolio, di verità e finzione, uomini in carne ed ossa e fantasmi, che svolgerà com’è noto un ruolo di primo piano nel teatro dello scrittore agrigentino. È nel saggio sull’umorismo, tuttavia, che lo troviamo formulato nei termini per noi, qui, più rivelatori, oltre che utilmente sintetici; sarà, perciò, con qualche rapido accenno a queste pagine che concluderò la mia analisi.
Pirandello si richiama qui a Leopardi come uomo e come autore di «quei certi dialoghi» e di «quelle certe prosette» di cui abbiamo rilevato in effetti la profonda consonanza con l’opera dell’Agrigentino; non lo nomina più, invece, nella parte conclusiva, la più propriamente teorica, di questo suo fondamentale lavoro. Eppure, riesce davvero difficile non riandare colla mente al verso della Ginestra che ricordavo poco fa nel momento in cui si legge che effetto primario dell’umorismo è una certa qual «perplessità tra il pianto e il riso» ovvero un «sentimento misto di riso e di pianto» di fronte a una situazione che ci sembra, appunto, a un tempo comicamente gratuita e drammaticamente penosa; o non ripensare a tutto quanto, in poesia e in prosa, a quel verso leopardiano fa corona, quando Pirandello fa coincidere tale «sentimento del contrario», così lo chiama, con un estremo, reciproco acuirsi di intelligenza e sensibilità. Che, proprio come in Leopardi, appaiono tanto più interagenti, tanto più disposte, in qualche modo, a rovesciarsi l’una nell’altra, quanto più l’artista mostra di saper far perno su entrambe per attraversare, e comprendere, nella sua visione, l’interezza del nostro essere. [10]
[10] Viene da pensare, a proposito di questa fondamentale esigenza dell’artista-intellettuale moderno di individuare i termini di una ‘nuova alleanza’ tra istanza critico-razionale ed istanza immaginativo-sentimentale, ad alcune notevoli pagine di Maria Zambrano, che di tale esigenza ha fatto uno dei punti nodali del suo pensiero. In un suo testo recente, ad esempio, leggiamo, a proposito del simbolo, che esso «ha de ser captado en la pluralidad de sus significacìones, en un solo acto de pensamiento. Cosa que no es posible que suceda si el sentir no acompafia al entender; si el sentir no precede corno guia al entendimiento y no sigue luego guiado por él… Unirlos, reunirlos, requicre ya un cierto saher y arte hasados en la confianzaen la no-irracionalidaddelsentir y ayudados por la docilidad del entendimiento». (Va colto nella pluralità dei suoi significati, in un unico atto di pensiero. Qualcosa che non è possibile che accada se il sentimento non accompagna la comprensione; se il sentimento non precede la comprensione come guida e non continua poi a farsi guidare da essa… Unirli, riunirli, richiede una certa conoscenza e un’arte fondata sulla fiducia nella non irrazionalità del sentimento e aiutata dalla docilità di comprensione) (Vedi María Zambrano, Los bienaventurados, Madrid, Sirucla, 1990, pp. 89-90).
Carlo Ferrucci
1994
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