Di Piero Meli.
Io non sono oratore: quando parlo, io mi vedo, come sono, come gestisco, negli occhi di tutti coloro che ascoltano. E mi pare di aver dinanzi altrettanti specchi che mi rimandino la mia figura e mi restituiscano – dirò così – tutti i miei atteggiamenti e le mie espressioni. E allora il mio spirito critico impedisce al mio Io di continuare il suo ragionamento in forma disinvolta…
Pirandello: «Io oratore mai!».
L’Agrigentino in un’intervista sull’eloquenza.
da La Sicilia
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
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Al pari d’un personaggio d’una sua novella, Luigi Pirandello non possedeva «il guardaroba dell’eloquenza», quell’armadio pieno di belle frasi capaci all’occorrenza di trasformare in gigante un pensieruzzo tisico.
Il suo linguaggio era invece spontaneo, semplice, da uomo a uomo. Né amava pronunziare discorsi in pubblico.
Anzi era riluttante, e spesso giustificava i suoi dinieghi agli inviti a parlare dell’opera sua col fatto che nei suoi personaggi c’era la sua voce.
Che bisogno c’era di sentirla dal vivo? E quando proprio non poteva farne a meno, le sue «conferenze» consistevano spesso in letture di brani dei suoi lavori cui seguivano domande da parte del pubblico. Insomma vere e proprie conversazioni, dove c’era posto per dibattiti e polemiche.
Le ragioni della sua avversione a tenere una «togata orazione» si trovano in un eccezionale documento, finora sconosciuto.
Si tratta di un’intervista sull’eloquenza, come rileviamo dal titolo («Interviste brevi sull’eloquenza») ma senza alcuna domanda e perciò scritta a tavolino, pubblicata sulla rivista di Titta Madia «Gli oratori del giorno. Rassegna mensile di eloquenza», fasc. n. 7 del novembre 1927, e che qui appresso riproduciamo per la prima volta:
«Io non sono oratore: quando parlo, io mi vedo, come sono, come gestisco, negli occhi di tutti coloro che ascoltano. E mi pare di aver dinanzi altrettanti specchi che mi rimandino la mia figura e mi restituiscano – dirò così – tutti i miei atteggiamenti e le mie espressioni. E allora il mio spirito critico impedisce al mio Io di continuare il suo ragionamento in forma disinvolta… Beati coloro che non hanno questo autocontrollo che non guardano e non considerano sé stessi, vivendo in un medesimo tempo la parte del soggetto e quella dell’osservatore!
Essi sono gli audaci: audaci per una forza che è data dalla indivisibilità del loro «Io» e perciò alla soppressione della possibilità critica esercitata da se stessi su se stessi… Quando parlo, io mi sento: percepisco i toni della mia voce come se fosse quella di un’altra persona: e talvolta, resto sorpreso dalle parole che scaturiscono dal pensiero che quasi non so più se è il «mio» o quello di un altro individuo; perché talune improvvise illazioni, talune inattese deduzioni, taluni fulminei concetti, mi risultano “nuovi”, come se io non li avessi preparati dentro di me, come se non fossero il risultato della “mia” logica, dei presupposti avanzati, della somma delle mie coordinazioni ragionative».
«Quando invece non si tratta di una “conferenza”, ma di un dibattito, di una polemica, allora – continua Pirandello – tutto lo spirito viene attanagliato dalle morse della dialesi e le facoltà di aut osservazione e di considerazione di “sé stesso” oratore con la curiosità e la severità di un altro “sé stesso” critico, vengono ad essere assorbite nel più intenso e rapido sforzo richiesto al cervello di fronte alla necessità dell’improvvisazione di una forma suasiva, caustica, elegante, talvolta anche curialesca o paradossale per necessità polemica».
«Ecco perché molte volte, al tenere una togata e – come dicono i cronisti – “lucida” orazione, io ho preferito, in varie occasioni, di conversare col pubblico.
Io chiedo al pubblico di fare delle domande, sulle quali si discute. Accademia? No, ripeto, conversazione».
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Inutile dire che questa simpatica primizia al notevole interesse biografico aggiunge, qualora ce ne fosse bisogno, un ulteriore riscontro alla teoria della «frantumazione dell’io» del Maestro siciliano.
Piero Meli
da La Sicilia del 18 ottobre 2012
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