Di Monica Venturini.
Deluso e stanco per i molti impegni teatrali, non trascura però una delle occupazioni che sempre lo aveva appassionato fin dai tempi della formazione. L’interesse per la pittura, infatti, non rappresenta per lui un fatto «occasionale, transitorio, epidermico, come si potrebbe essere indotti a pensare»
La passione del ritratto: Pirandello e le arti figurative
da Atti del XX Congresso dell’ADI
Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 settembre 2016)
da Italianisti.it (pdf con note al testo)
Nella comunicazione si intende mettere a fuoco l’idea dell’arte che Pirandello elabora negli anni della sua formazione, per individuare, tramite precisi riscontri testuali, come l’interesse e la pratica della pittura abbiano influito sull’elaborazione della poetica. Oltre a fare costante riferimento alle pagine di critica d’arte scritte da Pirandello tra il 1895 e il 1898, particolare attenzione sarà dedicata ai taccuini e agli epistolari dello scrittore, nonché alle opere, per ricostruire il tessuto di riferimenti e suggestioni che hanno nutrito il laboratorio pirandelliano.
«Sto qua ad Anticoli a dipingere, e vorrei cangiar professione. Punto e a capo»: così Luigi Pirandello scrive a Marta Abba il 9 luglio del 1936. Deluso e stanco per i molti impegni teatrali, non trascura però una delle occupazioni che sempre lo aveva appassionato fin dai tempi della formazione. L’interesse per la pittura, infatti, non rappresenta per lui un fatto «occasionale, transitorio, epidermico, come si potrebbe essere indotti a pensare» – secondo quanto afferma anche Antonio Alessio – al contrario è da considerarsi un laboratorio estremamente ricco di immagini, spunti, suggestioni, lo stesso nel quale Pirandello elabora temi, figure e motivi della sua narrativa. Ciò rende i suoi esperimenti nel campo delle arti figurative – dagli scritti di critica d’arte ai dipinti realizzati, alle riflessioni e annotazioni sparse, agli incontri e scambi – un campo d’indagine ricco di riferimenti e tracce da seguire per ricostruire, in prima istanza, la formazione dello scrittore, ma anche il suo percorso artistico e umano in tutta la sua interezza e complessità. «Vorrei avere con me la scatola dei colori» – scrive sempre a Marta Abba, da Nettuno il 5 luglio 1928 – «guardando la Pineta m’è nata una struggentissima voglia di dipingere. Vorrei fare per te almeno un bozzetto di questa Pineta».
Sono numerosi i quadri firmati dallo scrittore, che spesso regalava ad amici e parenti e che proprio per questo motivo non si sono conservati se non in minima parte (secondo una testimonianza del figlio Stefano del 1943, i quadretti dipinti dal padre erano più di un centinaio, tavolette di legno per lo più di formato 20 per 30), realizzati soprattutto durante i suoi soggiorni estivi, a Coazze, San Marcello Pistoiere, Viareggio, ma anche Soriano nel Cimino, Monteluco, Castiglioncello e Anticoli Corrado. Se, come sottolinea Di Lieto, è la Natura la costante della sua pittura, che egli interroga «per coglierne il segreto», i volti colti nelle più diverse espressioni affollano le tele pirandelliane, facendo emergere tramite un dettaglio, un particolare, il carattere della persona ritratta: «Una corrispondenza biunivoca lega la scrittura pirandelliana alla pittura: in essa riappaiono i motivi ricorrenti della sua poetica. Egli lavora con la stessa tecnica del découpage, del ritaglio e dell’accostamento degli opposti». La pittura non era per Pirandello solo un piacevole passatempo, né un diversivo, al contrario è per lui un’attività essenziale per esercitare lo sguardo, osservare la realtà e tentare di imprigionarne il senso. Ai familiari lo scrittore ventiduenne poco prima di raggiungere la Germania scrive in una lettera del 6 ottobre 1889 da Cavallasca: «ovunque l’occhio si volga son verdi colli e verdi vallate, e qua e là ricche ville signorili e piccoli paesetti o meglio aggregati di venti, di trenta o poco più casette variopinte, dominate da una piccola chiesa di stil lombardo. In fondo, fosco contrasto, si vedono i primi contrafforti dell’Alpe, brulli e nevati», quasi volesse ritrarre quel paesaggio incontrato nel viaggio e inviarne un’impressione ai cari lontani. La pittura, e in generale l’arte e la riflessione sull’arte, rappresentano per Pirandello un ambito strettamente legato al contesto familiare: si pensi alle numerose riflessioni condivise con le sorelle su argomenti relativi all’arte, alla musica, alla pittura e, con Lina in particolare, su quadri e sculture. Anche le amicizie dello scrittore confermano la condivisione di questa passione; Pier Maria Rosso di San Secondo racconta che Pirandello andava spesso a passeggiare nei boschi con la scatola dei colori (adoperava quelli ad olio, ma anche i pastelli e gli acquerelli) e «dipingeva con tanta intensità come se da quel quadretto dovesse dipendere il suo destino di gloria»; e «sempre, fin quasi alla morte – continua lo scrittore – godette, durante le pause estive, di tenere in mano i pennelli». Come pure, accompagnato da Gnoli e da Romagnoli, si recava di domenica con tavolozza e pennelli all’Acquacetosa, per dipingere i tramonti della campagna romana.
Nei taccuini e nell’epistolario pirandelliano è possibile ricostruire le tappe e i momenti essenziali di questa lunga fedeltà dello scrittore alla pittura. Non solo, ma occorre tener a mente che i taccuini sono ricchi di disegni e schizzi che testimoniano come la tecnica creativa pirandelliana passasse spesso dall’immagine alla parola scritta, da un dettaglio annotato o disegnato all’idea-base di un’opera narrativa. Ciò appare evidente se si pensa, ad esempio, al Taccuino di Coazze (appunti presi a Coazze nel 1901, a Montepulciano nel 1903 e altri sparsi) dove è possibile ammirare anche disegni e schizzi: il campanile della cattedrale di Coazze, un edificio medioevale, una candela accesa, un disegno geometrico, una testa d’uomo e un Pulcinella. Non sono disegni occasionali, ma veri e propri “appunti di lavoro” che si ritrovano nelle opere: ne è prova la scritta del campanile, «Ognuno a suo modo», citata in Suo marito. Anche nel Taccuino di Harvard sono presenti ben due schizzi ad inchiostro: il primo di natura paesaggistica raffigura la valle di Agrigento, il secondo rappresenta la stratificazione del suolo nei dintorni di Porto Empedocle. Mentre nel Taccuino di Bonn appaiono quattordici disegni: cinque teste d’uomo, cinque teste di donne, un portico, un’anfora, la facciata di una casa e nove piccole facce di luna. Senza voler qui approfondire l’analisi, è bene citare anche le sovraccoperte dei libri custoditi nella sua biblioteca conservata a Roma, in Via Bosio, alcune delle quali sono dipinte a mano con colori «vivaci e infiorettati»: verde scuro, grigio. Si ricordano qui i progetti di copertina stesi da Pirandello per la raccolta di novelle La trappola (pubblicata nel 1913 per i tipi di Treves).
A partire da tali riscontri, è evidente che, soprattutto nella ritrattistica, Pirandello diede prova di una eccezionale resa psicologica dei caratteri – si pensi a quando dipinse il figlio Stefano, o Fausto bambino, o il nipote Pierluigi, o ancora la signora Emilia Frateili – dando vita ad una serie di ritratti alcuni dei quali, come ricorda Di Lieto, furono definiti dei ‘test psico-psichiatrici’. Emilio Cecchi, il quale poi avrebbe scritto l’introduzione al catalogo della prima mostra di opere pittoriche dello scrittore, allestita nel 1937 ai Mercati Traianei (la seconda si terrà a Gibellina nel 1984), notò non a caso che Pirandello se ne stava ‘seduto davanti al vero’ e «analizzava col pennello; per non trovarsi poi a mescolare inconsciamente, quando scriveva, i due processi: della pittura e della letteratura. Forse si trattava, principalmente, d’un metodo d’integrità letteraria». Tale metodo emerge con assoluta evidenza nei ritratti, dove suggestioni pittoriche e originalità creativa danno avvio a quel processo che in narrativa avrà nel personaggio il suo fulcro innovativo. Tra i due ambiti non vi è alcuna rottura: si nota anzi una vera e propria correlazione d’intenti, il frutto di una sostanziale corrispondenza. Se è vero che «la pittura pirandelliana rimane legata al realismo ottocentesco con i suoi tocchi impressionistici, ed è ben lontana dalla visionarietà onirica ed inquietante della scrittura drammaturgica», è altrettanto certo che la serie dei ritratti e degli autoritratti rappresenta la parte più innovativa della sua produzione, più profondamente legata alla narrativa e, in particolare, alla riflessione sul personaggio e sull’identità. Proprio i ritratti, infatti, smentiscono il legame con il realismo ottocentesco e prepotentemente presentano aspetti più legati all’espressionismo novecentesco: nella serie degli autoritratti, infatti, Pirandello «indulge ad un forte narcisismo o ad un problema d’identità, che porta l’artista a raffigurarsi continuamente, fino a deformarsi».
Ripercorrendo poi alcune delle riflessioni pirandelliane, disperse come è noto in moltissimi luoghi diversi, si ha la certezza del modo in cui lo scrittore elaborasse un sistema di idee estetiche che riguardavano non solo la letteratura, ma l’Arte tout court con il riferimento costante al mondo della pittura:
I grandi artisti sono uomini capaci di concentrare tutte le loro forze e di mettersi tutti interi in quel che fanno. […] A ogni arte risponde una scienza che bisogna conoscere, un insieme di procedimenti da impiegare, d’esperienze da fare. […]. Il musicista compone l’orchestrazione secondo le leggi dell’armonia; il pittore i suoi quadri secondo le leggi della prospettiva; il poeta i suoi canti secondo le leggi del ritmo e della misura. […] Un artista non è fatto dal caso pittore musico e poeta. Chi da un paesaggio coglie un’impressione piuttosto che un’immagine, chi più che idee precise ha forme vaghe, ma tuttavia l’anima commossa da profondi sentimenti, troverà nella musica il suo linguaggio naturale. Il pensiero del pittore è una visione, la logica del pittore è per così dire il giuoco espressivo d’una luce che ora splende ora s’attenua e i suoi sentimenti hanno un colore e una forma, o meglio, il colore e la forma sono per lui sentimenti. […] Lo scrittore stempera in dieci pagine quel che dovrebbe essere raccolto in uno sguardo, il pittore sovrappone le proprie idee successive in un’immagine che si divide come l’atto dello spirito che l’ha concepita. Nei due casi il quadro avrà bisogno di un commentario: quello del pittore per essere compreso, quello dello scrittore per essere veduto.
Nelle lettere si trovano le tappe di questa elaborazione: la riflessione sull’arte è uno dei poli intorno ai quali si svolge il pensiero di Pirandello negli anni della formazione. In una lettera da Palermo il 23 febbraio 1886, emerge la figura dello ‘scrittore d’immaginazione pittorica’ che riassume in sé tali diversi ambiti: «il poeta è meno limitato del pittore, meno libero del musico. La dipintura del poeta, dai contorni fluttuanti, sveglia sentimenti più che sensazioni; la sua musica, d’un disegno più reciso, non esprime soltanto il tono generale dell’animo, bensì anche il sentimento delle sue sfumature. Senza dubbio avviene talvolta – e ne abbiamo esempi – che uno scrittore d’immaginazione pittorica veda più che non pensi e che un pittore filosofo pensi invece di vedere». Una volta arrivato a Bonn, tra le prime conoscenze fatte da Pirandello ci sarà non a caso proprio un pittore. In una lettera del 10 ottobre 1889 scrive alla famiglia: «in quest’albergo sta anche un pittore italiano, che conoscerò stasera, a pranzo». Si tratta di Giovanni Sambo, pittore veneto venuto da Murano a restaurare i mosaici nell’abside della cattedrale. In una lettera senza data, di poco successiva, Pirandello parla di un concerto di trombettieri ussari, al quale ha assistito con l’amico: «sono stato ieri sera a subirla insieme al mio amico Sambo, il pittore italiano di cui vi feci parola nella mia prima lettera […] Sto tutto il santo giorno in casa, ad accudire i miei lavori. Piglio ogni mattina il caffè e latte con pane imburrato, alle dodici mangio insieme al mio amico Sambo, arrivo alla Posta per vedere se mai ci fossero lettere per me; non ne trovo e ritorno a casa».
Così, alcuni giorni dopo, in una lettera indirizzata a Lina e Calogero del 26 ottobre 1889, scrive nuovamente a proposito di Sambo:
è di questi giorni in Bonn un italiano di Venezia, un certo Giovanni Sambo, maestro mosaicista, il quale fu espressamente chiamato dal nostro paese per rivestir la cupola di questa cattedrale. Ei vi attende da due mesi, e ancora per altri due vi attenderà. Io giornalmente con uno o due libri mi inerpico con lui su per l’impalcatura, e studio ammirato dagli angeli e dai santi, che il mio paziente amico compone. Io vi scrivo questa lettera dalla cupola, mentre sta per esser fornito il naso all’enorme Gesù Cristo seduto sull’arcobaleno.
Pirandello si riferisce ai lavori in corso per realizzare il mosaico absidale presente in questa cattedrale e raffigurante il braccio di Dio Padre che indica Gesù, troneggiante in una mandorla, con la mano destra alzata e il libro della vita nell’altra. I piedi poggiano sul globo e intorno vi sono angeli con candele e la Vergine Maria con le braccia alzate. Il riferimento al ‘naso enorme’ di Gesù Cristo non sembra casuale, ma certo indica un dettaglio che tornerà in modo ricorrente sia nelle novelle che nei ritratti, autoritratti e caricature, fino al Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila.
Anche nella descrizione accurata degli ambienti, Pirandello racconta ai familiari la realtà in cui si trova a vivere, una volta lontano da casa, con riferimenti ad oggetti cari, libri e ‘palchetti per ritratti’, come nella lettera del 5 novembre 1889: «tappeti per terra e tende e paramenti alle finestre e agli usci […] – poi scaffali di libri, armadio, armadietto a muro (secreter?), palchetti per ritratti, palchetti agli angoli con dei vasi pieni di erbe secche a sbuffi e piume, tutto in lagno nero, un grande specchio di forma ovale, bellissimo, sul canapè, eccetera eccetera….». Il 17 novembre 1889, Pirandello dà notizia ai familiari di aver scritto un’elegia per Sambo e ne riporta il testo nella lettera: «aspettando risposta alla mia ultima lettera, vi trascrivo in tanto nella forma in cui presentemente si trova l’ultima delle quindici, che composi per Sambo, il pittore veneziano, che l’altro ieri è ripartito per l’Italia. Ha anche ora qualche buon distico; ma io la voglio tutta perfetta, o la brucio».
Elegie Boreali
Bizzarro in vero questo dei nostri convegni ridotto,
Giovanni Sambo: la cupola d’un duomo!
I santi, che il vostro sottil, paziente lavoro
di quella che a voi toglie anima eterna accresce,
ascoltan benigni noi lieti de l’arte evocanti,
propizio il sole nostre, le glorie imperiture.
Sono le sacre mura dei templi cristiani a parlari,
Sambo, adusate simili in tutto ai nostri:
In loro rinacque umana nostr’arte, e fu gloria d’Italia,
in loro a Dio si disse: ‘Sei Dio perché sei uomo’.
E il cupo sepper volto del dio Buonarroti e gli sdegni;
seppero i sorrisi del Sanzio e gli amori.
Lontani, e voi tra breve, dai lidi del Reno sonanti
ne avremo, io dico, dolce memoria un giorno:
Ricorderemo (gli anni m’avran forse in petto domato
questo inquieto spirito di ventura)
io da la mia Sicilia, bel fior fra tre mari sbocciato,
voi da Venezia, Venere adriatica.
Il testo prova che il rapporto tra i due fu tutt’altro che superficiale e che si basò sullo scambio di idee sull’arte, durante tutto il periodo in cui Sambo lavorò alla cupola del Duomo a Bonn.
Nelle lettere ci sono poi anche tracce dell’interesse per la fotografia del giovane Pirandello che, diviso tra opposti sentimenti verso l’infinita possibilità della riproducibilità tipica della modernità, sempre da Bonn così scrive in una lettera del 21 ottobre 1889:
Molto gentil pensiero fu il tuo, papà mio, di tenermi presso Te rappresentato nel mio povero libro – io ho baciato mille volte a rendimento di grazie la tua immagine, che è pur la più tradita, insieme a quella d’Innocenzo, da fotografo. Il tuo ritratto a solo, mia adorata Mamma, mi è molto piaciuto, guardandolo a una certa distanza. Ti rende in verità alquanto più giovine; ma è forse per questo che mi piace anche di più. Sei una bella Signora, Mamma mia; e il mio libro è ben felice di stare anche nelle tue mani, come lo fu in quelle del non meno adorato Papà mio.
[…] Ma tutto è possibile ai fotografi, anche questo. Non ha limiti la potenza di queste bestie nella trasformazione delle imagini. Adone, per loro, in un momento, in men che sto dirlo, si cangia in Fauno, e viceversa, un Fauno in Adone.
E, sempre nello stesso periodo – sono anni in cui avvia un’ampia meditazione sulla civiltà moderna e sulla crisi dell’espressione e della stessa funzione dell’arte che troverà poi ampia sistemazione in Arte e coscienza d’oggi (1893) – si dedica a nuovi lavori, seguendo idee e suggestioni in diversi generi, spesso utilizzando riferimenti anche pittorici nei titoli e nei testi in progetto, come ad esempio per l’articolo di critica letteraria, dal titolo Ritorni al segno che, secondo Providenti, potrebbe rappresentare la prima bozza de La menzogna del sentimento nell’arte. A questo periodo risale l’incontro con Jenny Schulz-Lander: si verifica proprio tramite uno scambio di identità che non sembra casuale, se si pensa che l’amico inglese William Madden presenta lo scrittore a Jenny come un pittore, certo per far colpo sulla ragazza ma anche perché l’identità prescelta testimonia come la pittura fosse una delle attività più praticate e amate dal giovane Pirandello. Nella lettera del 20 gennaio 1890, così descrive l’incontro ‘da pittore’ con Jenny, in occasione di un ballo in maschera:
Ieri sera intanto, per divagarmi, mi son recato al Beethoven Halle, dove s’inaugurava il carnevale con un gran ballo in maschera. […] Ho anch’io ballato, o per dir meglio saltato, o meglio ancora, pestato i piedi al prossimo mascherato. Fui a dirittura forzato a farlo da una mascherina azzurra da un cappellaccio di paglia spropositato – che mi si attaccò al braccio e non mi lasciò più per tutta la sera. A mezzanotte, ora in cui è costume di tor via le maschere, fui meravigliatissimo di riconoscere nella mia diabolica incognita, una delle bellezze più luminose, che io mi abbia mai visto.. Oggi, seguendo l’uso, mi son recato a farle visita in casa, per domandare come l’avesse lasciata il pazzo uragano di ieri sera. Ella ha nome Jenny Lander, ha venti anni, ed è figlia di un distinto ufficiale di guarnigione a Bonn. Io non so descrivere che cosa sia un ballo carnevalesco in Germania, e che cosa diventino le donne in tale occasione. Tutto fino al bacio è permesso, senza pregiudizio di sorta. In tanto io sono nel più brutto impiccio che si possa immaginare: L’amico mio William Madden, l’inglese, ebbe la buona idea di dire alla Signorina Lander, che io ero un pittore, e per quanto io abbia protestato non ci fu modo di farla ricredere. Ella vuole a tutti i costi che io le faccia un ritratto. E questa mattina ho dovuto comprar pennelli e colori, e dimani comincerò. O Numi aiutatemi!
Poco più tardi, una volta rientrato in Italia, Pirandello inizia la sua collaborazione con Ugo Fleres come critico d’arte a «La Critica» di Monaldi. Con Fleres discute problemi d’arte e dal 1895 al 1905 frequenta assiduamente diversi cenacoli artistico-letterari di cui facevano parte, oltre a Fleres, anche Mantica, Gnoli e numerosi pittori. Qui si apre un secondo tempo della sua attività rivolta alle arti figurative che ha, senza dubbio, il suo momento centrale negli articoli scritti per «Il Giornale di Sicilia», in occasione dell’esposizione di Belle Arti a Roma del 1895-1896, stesso anno in cui pubblica le Elegie renane e in cui raccoglie le traduzioni delle Elegie romane di Goethe che usciranno l’anno dopo. La mostra che rivela un’altra ‘maschera’ dello scrittore, in questo caso critico d’arte, presenta circa cinquecento opere di artisti italiani: quella che Pirandello con grande cura e attenzione prepara «è una delle più lunghe e dettagliate rassegne di cui la mostra abbia goduto sulla stampa per lo più romana, più lunga delle quattro puntate redatte dal Lacchini per il ’Fanfulla della Domenica’, e di quelle scritte dal Gandolin per il ‘Capitan Fracassa’ e poi passate anche al ‘Corriere della sera’; pari interesse, ma anch’egli con minor ricchezza di dettagli, dedicò all’esposizione il solo Fleres su ‘La Critica’» Le questioni trattate da Pirandello sono molte: approva la severità della giuria, critica l’infelice collocazione delle opere e la cattiva illuminazione, discute la cattiva abitudine di disseminare le opere dello stesso autore in più sale:
Tredici sale: nove di pittura, quattro di scultura con sei reparti; trecentottantatrè artisti espositori, e più di cinquecento opere esposte; dite poi che l’arte in Italia non ha cultori. […]. Avremmo anche desiderato, qua e là, maggiore avvedutezza nella disposizione delle tele: certo è cosa difficile e tante volte quasi impossibile dar la giusta luce e il giusto punto di vista a tutti i dipinti.
Se Scotti Tosini torna a sottolineare una certa limitatezza di vedute e conoscenze per il Pirandello critico d’arte, soprattutto in riferimento a tale rassegna – «Le sue conoscenze in fatto di arti figurative non sembravano essere molto vaste. […] Né maggiore estensione di cultura artistica mostrano gli altri saggi pirandelliani dedicati alle arti ed apparsi su ‘La Critica’. Da uno studio all’altro, col resoconto della visita fatta agli studi romani dello scultore americano Ezekiel e del pittore Francesco Vitalini (27 febbraio 1896), su ‘Natura ed arte’, La galleria Saporetti (1 agosto 1896) e sulla ‘Rassegna Settimanale’ Universale, Il concorso per il pensionato artistico (3 maggio 1896) e Le sale Borgia (11 aprile 1897)» – è innegabile che emergano da questi scritti giudizi netti, opinioni ben argomentate che stanno ad indicare l’attenzione e il lavoro che Pirandello ha profuso nella preparazione ed elaborazione degli articoli. Tra gli artisti apprezzati: Angelo Morbelli (Incensum Domine! e Giorno di Festa), Aristide Sartorio definito ‘il genialissimo pittore romano’ (La Sirena, A ponte Salario e Ninfa), Alessandro Milesi (Gli orfani del ganzer), gli scultori Cifariello, Ercole Rosa, Ernesto Bazzaro, nelle opere dei quali – non a caso paesaggi e ritratti – Pirandello critico d’arte cerca soprattutto la sincerità: «noi domandiamo innanzi tutto agli artisti la sincerità, reputata da noi primissimo pregio dell’arte; così nei nostri giudizi saremo innanzi tutto sinceri: tutto potrà mancare alla critica nostra, tranne la sincerità». Interessante notare le motivazioni delle critiche rivolte da Pirandello ad un’opera molto ammirata da altri, un ‘quadretto’ di Raimondo Tusquets, Solemniis peractis, dove si ritrae l’uscita di un porporato da una chiesa ma che, secondo lo scrittore, risulterebbe troppo realistica e zelante e soprattutto ‘vuota d’ogni concetto’:
Questo quadretto si direbbe quasi una sfida alla macchina fotografica. Ma, e poi? Valeva la pena – vorremmo noi domandare al pazientissimo pittore – di spender tanto tempo e tanta cura per una rappresentazione così comune e vuota d’ogni concetto? Par che la stessa intenzione pittorica dell’insieme (dato che il Tusquets ne abbia avuto una) sia sottomessa allo zelo durato e sudato intorno alle più insignificanti e fastidiose minuziosità, così che la pittura, per aver voluto definir troppo, ha perduto l’impressione della realtà, e ci sta dinanzi come un ottimo disegno vestito scrupolosamente di colori diremmo quasi domenicali.
Spiccano alcuni ritratti da lui molto apprezzati, tra cui Figura di giovane donna dello Schuster-Woldan, Ritratto di Gandolin del Lionne, alcune opere di Pellizza da Volpedo (Sul fienile, Mammine e il ritratto Testa d’uomo), nonostante non esprima un giudizio positivo sulla teoria dei colori complementari applicata alla pittura utilizzata dal Pellizza, pittore italiano appartenente al movimento divisionista e poi alla corrente sociale. Tra i divisionisti settentrionali cita anche il Morbelli. Al di là dell’appartenenza a scuole e correnti, ciò che interessa a Pirandello è la ricerca personale dell’artista, ciò che lo distingue dagli altri e lo fa emergere per una visione integrale dell’opera: «Per lo specifico di Pellizza Pirandello coglieva invece uno dei lati più caratteristici della sua produzione, quella volontà di sperimentare, di tentare senza lasciarsi piegare da sconfitte o vicende esterne, che connotò in maniera caparbiamente positiva, tutta la sua attività». Non cita, come fa notare Aurora Scotti Tosini, l’opera del terzo divisionista presente a Roma, Ultime reti di Plinio Nomellini; segno che i giudizi di Pirandello non si conformavano a quelli della critica o del gran pubblico, ma restavano caratterizzati da una certa libertà e indipendenza di posizione. Anche i premi lo dimostrano, se si pensa che per lo più furono assegnati a opere non amate da Pirandello come, ad esempio, i Centauri del Coleman – opera «priva di capacità autenticamente fantastiche» – e La bestia umana del Gargiulo. Ma «il più fine fra i viventi pittori italiani» è per lui Aristide Sartorio: ignora la Gorgone con cui Sartorio si era imposto all’esposizione veneziana e indica, invece, nella Sirena «il capolavoro dell’artista, la sua affermazione assoluta»,35 ne apprezza soprattutto la «trasposizione della campagna romana in chiave di sentimento». Sartorio, l’artista a cui mostra di sentirsi più vicino, lavora sin dai suoi esordi dal vero nella campagna romana, propone nel 1882 all’Esposizione di Roma l’opera Malaria, in uno stile verista, adottato anche dal Michetti e dal Palizzi e coltiva importanti relazioni nel giro artistico-mondano di Roma, collaborando a «La Cronaca Bizantina» e stringendo rapporti umani e professionali con d’Annunzio – note le sue illustrazioni di opere dannunziane – e Michetti. Si tratta di un pittore che realizza quadri con un forte connotato letterario e con interessi europei: dopo un viaggio in Inghilterra, per conoscere direttamente il preraffaellismo, dal 1895 al 1899 è in Germania, professore nell’Accademia di Weimar, dove realizza Diana di Efeso e gli schiavi e La Gorgone e gli eroi. Il percorso dell’artista rivela molte affinità con quello pirandelliano e sarebbe interessante approfondire questa corrispondenza.
La rassegna, nonostante i numerosi rilievi positivi e gli apprezzamenti, si chiude però con una nota negativa, che ci riporta all’universo narrativo pirandelliano e alla questione del personaggio intrappolato in una forma: «opprime il silenzio, scoraggia la solitudine delle vaste, sonore sale del lucido palazzo, di cui soltanto i passi cadenzati di due guardie di città tengono desti gli echi. E se i quadri appesi alle pareti potessero pensare, al suono cupo di quei passi penserebbero certo d’esser reclusi in una prigione, nella quale a nessuno, per tirannico e inviolabile decreto, sia dato di penetrare». Il binomio pittura-narrativa si fa stretto e rimanda qui, in queste poche veloci note di chiusura a problematiche ben più ampie, sviluppate poi dallo scrittore in tutta la sua produzione.
Se si sposta ora lo sguardo dal Pirandello critico d’arte al Pirandello novelliere, è possibile trovare infinite suggestioni pittoriche e spunti di riflessione che rinviano alle arti figurative, a partire dalla tecnica del ritratto e dalla ricorrenza del personaggio pittore, nel quale confluiscono tratti fortemente autobiografici e riflessioni svolte in ambito più prettamente teorico. Come sottolinea Simona Costa, riferendosi alla novella Il fumo e, in particolare, al personaggio di Tino Làbiso, dal ‘pezzolone a dadi rossi e neri’, l’abilità di Pirandello nell’utilizzo di costanti cromatiche che possano colpire il lettore e restare nella memoria è assolutamente straordinaria: «Siamo di fronte a una tecnica del ritratto cara a Pirandello: tenere agganciata una figura a una sua caratteristica, quasi emblema, e punizione a un tempo, della forma in cui si è voluta calare, così scadendo da creatura a personaggio». Pirandello spesso lavora intorno ad un dettaglio – si pensi al tema del naso o a quello dell’occhio o, più in generale, all’elaborazione di certe maschere grottesche – che amplifica e deforma fino all’eccesso, limite al quale giunge senza mai oltrepassare la misura, sulla soglia di ciò divide la realtà dall’immaginazione. Nella novella La vita nuda (1907) che dà il titolo alla raccolta Ciro Colli, «figura un po’ fuori moda di artista bohémien, la cui barbetta a punta pare maliziosamente alludere a una controfigura dell’autore», ricopre il ruolo di ‘testimone e ironico commentatore’. Qui la tecnica del ritratto sperimentata da Pirandello emerge con forza e la barbetta ridotta a un gancio si rivela il dettaglio-chiave per vedere il personaggio artista Ciro Colli.
Anche nella raccolta L’uomo solo – testi editi tra il 1899 e il 1914 – si trovano tracce significative di questo autoritratto d’artista al quale Pirandello affida riflessioni essenziali che dall’individuo, l’uomo solo, si riflettono poi su tutta la collettività, come accade anche in I nostri ricordi (1912); oppure nella novella Il coppo (1912), inserita nella stessa raccolta, in cui Bernardo Morasco, tipico personaggio beffato, ripercorre i suoi sogni giovanili d’artista, improvvisamente interrotti da un matrimonio riparatore che l’ha condannato ad una vita di fatica e stenti.
Sono certo numerosi i riscontri testuali che potrebbero aggiungersi a quelli individuati – dalla novella Va bene a La disdetta di Pitagora a Le tre carissime – , vale la pena di citare almeno Diana e la Tuda, tragedia in tre atti rappresentata nel 1926, dove il giovane scultore Sirio Dossi, mai veramente soddisfatto, tenta di realizzare nella statua di Diana a cui sta lavorando la perfezione della forma dell’opera d’arte; per fare questo obbliga la modella Tuda a lunghissime e ripetute pose. Ma il confronto tra l’opera e la donna risulterà sempre impari, irriducibile, intraducibile. Anche nella raccolta Candelora, pubblicata nel 1928, che include racconti editi tra il 1911 e il 1917, si trovano tracce di questo prototipo pirandelliano. Nella novella omonima (1917), infatti, si incontra lei Candelora, ‘una maraviglia di forme e di colori’, ‘una sfida dispettosa’ agli occhi del protagonista-pittore, Nane Pape, che la scoprono sempre nuova e diversa.
Il dissidio tra vita e forma, tra fluire dell’esistenza e irrigidimento dell’esistere non ha soluzione – con tratti che richiamano il personaggio filosofo, Nane Pape sentenzia l’irrimediabile scissione tra arte e vita – e porta alla morte improvvisa di Candelora, evento di forte valenza simbolica al quale il pittore, ancora una volta testimone, assiste inerme. Una doppia identità è al centro di un’altra novella contenuta nella stessa raccolta, Un ritratto, dove il protagonista – non sappiamo se pittore – riconosce una particolare affinità con un giovane ritratto in un quadro che poi scoprirà immagine dell’odiato fratellastro del suo amico, alter ego fermato ‘alle soglie della vita’, recluso a forza in una dimensione, quella dell’opera, che la vita oltrepassa rumorosa.
Per concludere, il ritratto diventa nella scrittura pirandelliana una modalità narrativa che si ripete in diversi contesti, l’occasione di un incontro tra il personaggio pittore, esplicito alter ego-testimone dello scrittore e un personaggio, spesso femminile o comunque giovane, ritratto sulla tela in una posa e reso eterno da un dettaglio, da una sproporzione che lo rivela a se stesso e agli altri. Ciò che lega la passione per la pittura alla narrativa è dunque per Pirandello più di una coincidenza d’intenti, più di una suggestione di pratiche, qualcosa che nutre in profondità il suo laboratorio multiforme rendendolo tale: sfuggente, complesso, imprendibile.
Monica Venturini
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