Di Ilaria Paluzzi.
I personaggi pirandelliani sono continuamente tormentati, se non agitati dal conflitto interiore che si anima tra quel che sentono dentro e quanto, invece, la società impone loro.
Pirandello e la ricerca dell’identità più profonda del personaggio
Ci sono alcuni personaggi nella narrativa pirandelliana, i cosiddetti “viaggiatori immaginari’’, che proiettano sulle rotte di un viaggio, che cercano attraverso i finestrini di un treno, una loro dimensione diversa.
Questo articolo cercherà di presentarvene soltanto alcuni tra i tanti presenti nella fitta produzione del drammaturgo agrigentino.
Luigi Pirandello dedicò gran parte della sua ricerca letteraria alla questione dell’identità umana più profonda del personaggio. Le sue storie, infatti, raccontate nei romanzi, nelle novelle e nel teatro, non si limitano mai a descrivere una situazione o un passaggio storico, sociale, culturale, ma sempre scavano nella profondità dell’uomo che vive tale situazione, che affronta tale passaggio.
L’importanza di riuscire a raccontare quel che si muove dentro l’uomo, oltre quanto una maschera nasconde e verso ciò che il volto rivela, viene sintetizzata dallo scrittore d’Agrigento nella premessa ai Sei personaggi in cerca d’autore del 1925, laddove Pirandello si annovera tra gli scrittori «che sentono un più profondo bisogno spirituale, per cui non ammettono figure, vicende, paesaggi che non si imbevano, per così dire, di un particolare senso della vita». [1]
[1] Luigi Pirandello, Prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Milano, Mondadori, 1954, 8.
Questo particolare senso della vita, secondo lo scrittore agrigentino, non poteva che essere reso umoristicamente sulla pagina. Infatti, il tessuto della sua ricerca teorica, sia letteraria, ma anche sulla sua visione dell’uomo, viene sviluppato in un’opera considerata fondamentale per la cultura letteraria del ‘900. Si tratta de L’Umorismo, pubblicato nel 1908.
Pirandello definisce lo scrittore umorista come colui che «scompone, disordina, discordia; (…) quando, comunemente, l’arte in genere, com’era insegnata dalla scuola, dalla retorica, era sopra tutto composizione esteriore, accordo logicamente ordinato». [2]
[2] Luigi Pirandello, L’umorismo (1908), Milano, Garzanti, 2011, 58.
La ricerca sull’identità umana del personaggio, dunque, si costruisce attraverso una dialettica se vogliamo dissacrante: il personaggio, infatti, nella sua ricerca di quell’io perduto tra le forme grottesche che la società gli impone e dove lui si sente soffocare come in una «marsina stretta», è costretto a una dialettica costante che metta in crisi quell’accordo logicamente ordinato, ossia i falsi idoli o, per dirla pirandellianamente, quelle forme «in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo», dunque «sono i concetti, gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato a cui tendiamo a stabilirci». [3] Ivi, pag. 210.
I personaggi pirandelliani sono continuamente tormentati, se non agitati dal conflitto interiore che si anima tra quel che sentono dentro e quanto, invece, la società impone loro. Tanto che, nel tentativo di illudere queste dinamiche sociali, vissute come opprimenti e castranti, si attiva tra le pagine una dialettica vivacissima, la quale trascina il personaggio verso una progressiva e radicale trasformazione. E, alla fine, quella lotta tra il «piccolo me e il gran me» che lo coinvolge quotidianamente, riga dopo riga, alla quale lui non si sottrae mai mettendovi in gioco tutto sé stesso, lo trasforma in definitiva in un piccolo eroe moderno, alla ricerca di un’identità diversa, inedita e insieme originaria.
La ricerca di un’identità più autentica, spontanea, più corrispondente a quell’io ideale che tutti abbiamo dentro e che si rischia di perdere tra le maglie soffocanti delle relazioni quotidiane, torna con l’energia di un fiume carsico tra le pagine del nostro, fiume che scorre in ogni uomo e che sostanzia la nostra natura di esseri umani: «un flusso continuo, che noi cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi (…) Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima e che è la vita in noi, il flusso continuo, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità». [4] Ibidem
Il personaggio pirandelliano si presenta allora come un eroe coraggioso, intrepido, poiché non si rassegna a un destino di mediocrità disegnato dal ruolo che la società gli impone affinché tutto rimanga uguale; ma, allo stesso tempo, vive questa sua rivolta con profondo tormento, a volte terrorizzato dall’idea che questo nuovo io, questi «palpiti di luce» che lui sente vibrargli dentro appena si sposta dall’accordo ordinato delle cose, siano solo momenti fugaci, illusori, pronti a polverizzarsi al prossimo giro di volta o che, peggio ancora, separandosi da quelle relazioni entro le quali si vedeva soffocare, rischi poi di non ritrovarsi, scoprendo che sotto quelle maschere di lui non è rimasto più niente.
Interessante in questo senso il caso della vedova Adriana Braggi, protagonista della novella Il viaggio, la quale vive in una casa talmente isolata che sulla via sono cresciute erbacce così alte da rendere difficile il cammino. Adriana ha 35 anni e non esce più di casa da troppo tempo, per la precisione da quando rimane vedova di un marito che, come molte donne della Sicilia pirandelliana, non è mai stato amato, ma sempre rispettato a dovere. Adriana quasi non si affaccia più alla finestra, come impone la sua condizione di vedova, ma anche di donna, alla quale, come scrive Pirandello nella novella, «fin dall’infanzia s’era costretto a isterilire ogni istinto di vanità». [5]
[5] Luigi Pirandello, Il viaggio (1910) in Tutte le novelle, II. 1905-1913, Milano, Bur, 2007, pag. 542.
Vive chiusa nella sua casa, come serrata in una bara. Ma, ci racconta Pirandello, pur avendo un aspetto trascurato, tanto che pareva «che col marito fosse morta anche lei», «tuttavia una serenità mesta e dolce le sorrideva nel volto pallido e delicato». [6] Ivi, 541.
Infatti, malgrado la sua condizione di donna siciliana, vedova peraltro, l’avesse costretta a rassegnarsi a vivere come già inchiodata sotto terra, tuttavia qualcosa le brillava sul viso, forse il barlume di una vaga speranza verso un mondo lontano, ancora da conoscere, ma che lei sapeva, ne era certa, esisteva.
Speranza alimentata dal cognato, fratello più grande del marito, instancabile viaggiatore, il quale ogni anno andava a fare un giro per il continente e, quando tornava, oltre che i regalini per la mamma, la cognata e i nipotini, trascinava nella casa l’eco di un altro mondo, che si apriva fuori da quegli stretti e paradossali confini dove Adriana aveva seppellito la sua vita insieme alla morte del marito. «Il cognato recava con sé l’aria d’un mondo, che lei non riusciva nemmeno a immaginare», scrive infatti Pirandello. [7] Ivi, 543.
Il cognato, dunque, è l’elemento che va a disturbare il “congegno ordinato’’ delle cose e che costringe la storia a una svolta umoristica. Egli, infatti, con questo suo movimento inarrestabile, vissuto non solo nella mente, ma anche nello spazio, stimola Adriana a non rassegnarsi al suo destino e, così facendo, mantiene viva in lei la luce di quel lanternino che la costringe a non chiudere gli occhi sul contrasto stridente che si genera tra le dinamiche di sottomissione alle quali la società costringe una donna e quanto quella donna sa che umanamente dovrebbe essere. [8]
[8] Sull’importanza imprescindibile dell’ideale umano che vive dentro i personaggi e lo scontro che essi sono costretti a dinamizzare nei confronti di un contesto che può deludere quell’ideale, consiglio di consultare l’articolo della scrittrice e studiosa Noemi Ghetti, Inaudite risonanze.
A un certo punto Adriana, per motivi di salute, si trova a dover svolgere un viaggio che la porterà lontano da quel “natio borgo selvaggio”, oltre il quale non era mai stata. Il cognato si offre di accompagnarla.
Il viaggio stesso si pone nella storia come un altro elemento umoristico, intenzionale a disturbare la tranquillità della vita della vedova. Così Adriana, costretta ad allontanarsi dall’accordo ordinato dove si andava mummificando la sua esistenza, si avventura nel mondo, in quello stesso mondo che lei, fino ad allora, aveva avuto modo di conoscere solo attraverso la fantasia, nutrita dai racconti ricchi di colori e suoni e sapori che il cognato le riferiva ogni volta che tornava.
Sul treno [9] le immagini del paesaggio che si aprono fuori dal finestrino la sorprendono, la emozionano, le riempiono il cuore a tal punto che lei, su quelle immagini, per un attimo ritrova i suoi occhi di bambina, ossia ricrea lo sguardo della fantasia – «Anche ridicola, infatti, avrebbe potuto apparire, alla sua età, per quella meraviglia quasi infantile che le ferveva negli occhi». [10]
[9] Il treno è, notoriamente, un’immagine che ritorna spesso tra le pagine di Pirandello. Indimenticabile, a proposito, la novella Il treno ha fischiato, il cui protagonista, Belluca, potrebbe annoverarsi tra i “viaggiatori immaginari’’ che stiamo tentando di presentare in questa sede. [10] Ivi, 547.
Libera di esplorare con i suoi occhi quel mondo che fino ad allora aveva solo immaginato, percepisce ora sensazioni così forti che, addirittura, a tratti sente vibrarle dentro l’infinito che lega la natura delle cose:
E, come se un lume d’altri cieli le si accendesse improvviso in quel vuoto incommensurabile, ella sentì d’attingere in quel punto quasi l’eternità, d’acquistare una lucida, sconfinata coscienza di tutto, dell’infinito che si nasconde nella profondità dell’anima misteriosa, e d’aver vissuto, e che le poteva bastare, perché era stata in un attimo, in quell’attimo, eterna. [11] Ivi, 550.
Tuttavia, nel sentire l’infinito dentro di sé, Adriana si spaventa e si tira subito indietro, come se una tale bellezza non le si addicesse, o meglio come se tale bellezza creasse una rottura troppo radicale con la sua vecchia condizione di vedova, tornata come un fantasma a perseguitarla e a terrorizzarla. Così, nelle ultime pagine un senso di angoscia la assale e la travolge, fino a esplodere nel penoso finale.
Il protagonista di un’altra novella, La carriola, così come Adriana Braggi, della quale ci eravamo trovati a riflettere nella prima parte del presente articolo, di ritorno da Genova per un viaggio di lavoro, si ritrova a vivere quelle stesse sensazioni di intenso lirismo nell’ammirare il paesaggio che gli si apre fuori al finestrino del treno sul quale sta viaggiando:
Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il brulichio, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato.
Leggendo queste parole, torna alla memoria l’eco de L’infinito di Leopardi: l’espressione «lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi» sembra riassumere il senso più profondo del verso leopardiano «io nel pensier mi fingo» [12], ossia lo spazio, limitato visivamente da quanto l’occhio riesce a vedere, appare al protagonista infinito, in virtù dell’immaginazione che lo porta a illudere i limiti del panorama che gli si apre di fronte, tanto che alla sua vista si concedono «interminati spazi» e, in quell’illusione, il suo pensiero si finge, cioè fa sua quell’infinità, moltiplicando a dismisura le sue possibilità immaginative.
[12] Giacomo Leopardi, L’infinito, in Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, Roma, Newton, 2010, 120.
I due protagonisti delle novelle prese in considerazione illudono i limiti della natura che si trovano ad esplorare, immaginando quegli spazi come se fossero sterminati, attraverso un processo chiaramente illusorio che li porta ad alienare sullo spazio tutto quel che sentono dentro. Pirandello, dunque, ricrea sullo sguardo dei suoi personaggi il senso dell’infinito che sprigiona mirando l’“oltre”, ossia lo spazio che si apre dietro i limiti di quanto l’occhio fisicamente riesce a vedere e verso quanto lo sguardo, come capacità immaginativa, [13] riesce a intuire.
[13] Si tratta di quella che lo stesso Giacomo Leopardi, in un passaggio del suo Zibaldone, si trova a definire come «vista doppia»: «l’uomo sensibile e immaginoso (…) vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono». (Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4418, in cit., pag. 2382). Ed è la stessa che il medico, scienziato, la stessa che lo psichiatra dell’Analisi collettiva, Massimo Fagioli, definisce come “capacità di immaginar’’e che sorge alla nascita con la fantasia di sparizione, in tutti gli esseri umani.
Lo scrittore d’Agrigento, così facendo, mette alla prova i suoi protagonisti, personaggi comuni, quotidiani, ossia «la gente più scontenta del mondo» [14], stimolandoli a cercare tutto quel che «il guardo esclude». [15] Non solo li allontana dal loro contesto, ma li costringe a curiosare su quell’oltre, su quell’altrove indefinito, che affascina e immediatamente spaventa.
[14] Luigi Pirandello, Prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Milano, Mondadori, 1954, 7.
[15] Giacomo Leopardi, L’Infinito, in cit.
Ed è l’attrazione verso questo altrove indefinito, verso lo sconosciuto, il vero motore della dialettica che muove il flusso continuo, il fiume carsico, fulcro del pensiero umoristico pirandelliano. Detto in altri termini, il coraggio di chi lotta contro il congegno ordinato delle cose viene supportato da un processo di pura fantasia, poiché la possibilità di rendere la propria vita diversa si basa su una certezza illusoria che esista una diversità, di cui non si conoscono connotati e forme, pur avendo la certezza che tutto ciò da qualche parte ci aspetta. Per questo i personaggi pirandelliani sono tormentati, perché sanno che oltre i limiti, di là dalle forme e dai falsi idoli, esiste un’altra realtà. Loro sanno che la loro vita potrebbe essere diversa, ma lo sanno fino a quando possono ancora immaginarla diversa, ossia fino a quando è rimasta in loro ancora un po’ di quella fantasia, di quella magia, il lanternino che è acceso in tutti noi da bambini, che ci consente di formulare un’immagine su quel che è stato e che, nostro malgrado, non è più, essendo la fantasia «una attività dell’uomo per la quale egli fa di ciò che non è, che non è più, che è scomparso, che si è allontanato, un qualcosa che è una immagine non materiale, una memoria». [16]
[16] Massimo Fagioli, La marionetta e il burattino, L’Asino d’oro Edizioni, Roma 2011, 163. Fagioli ha formulato e ridefinito negli anni il concetto di fantasia come fantasia di sparizione che insorge alla nascita e come attività di rapporto che «fa di una inesistenza fisica una esistenza psichica. Di una non realtà fisica una realtà psichica». Luigi Pirandello nella sua vita di scrittore cercò in vari momenti di inseguire la fantasia e di rappresentarla, ricerca che nutrì l’intera sua carriera. Non potendo in questa sede approfondire la questione, si rimanda al testo di Giovanni Macchia, La stanza della tortura, per un dovuto approfondimento sul concetto di fantasia nell’opera di Luigi Pirandello.
Se la fantasia si spegne, l’uomo impazzisce. Se ce ne è ancora troppo poca, è più facile adagiarsi alla mediocrità. Se invece si ha la forza di lottare contro i falsi idoli, i concetti, vuol dire che di fantasia ce ne è ancora tanta, vuole dire che è ancora viva quell’ “immagine non materiale, una memoria’’.
Il caso, questo, anche di Silvia Roncella, la famosa scrittrice protagonista del romanzo Suo marito, la quale finalmente lontana dalla morsa stretta e asfissiante della vita coniugale, lontana da quel marito tanto ridicolo quanto cieco, finalmente sente vibrarle dentro l’infinito di tutte le cose e a tratti è spaventata da quanto riesce a sentire ora che dentro di lei potrebbe accadere di tutto, ora che la vita e la fantasia sono un tutt’uno e ogni cosa è investita da «vapori di sogno» e che ella oramai in quella «lontananza infinita» e «abbandonata a quella nuova sua sorte, o piuttosto, all’estro del caso, e ormai così senza più alcuna voluta consistenza interiore, l’animo suo poteva cambiarsi in un punto, rivelarsi da un istante all’altro capace di tutto, delle più impensate, inattese risoluzioni». [17]
[17] Luigi Pirandello, Suo marito, in Tutti i romanzi, Roma, Newton, 2011, 398.
In entrambe le novelle, come nel romanzo appena citato, si usa l’“infinito”, più che come concetto astratto, come aggettivo per descrivere la lontananza. Scrive Pirandello: «l’infinita lontananza». Quegli spazi, infatti, non sono solo sterminati, ma sono soprattutto lontani, irraggiungibili, lanciati in un vuoto che subito crea angoscia. Allo stesso tempo potremmo azzardare una seconda interpretazione di questa lontananza, ossia riferita a quel che si lascia, giacché la bellezza di ogni viaggio non è tanto quel che si va a cercare, quanto piuttosto l’angustia di tutto quel che si butta alle spalle e, se gli occhi possono tingersi di tale suprema visione di infinito, è perché si sono liberati dalle maglie soffocanti, dalla marsina che stringeva la vita di un tempo.
Tanto che, ne La carriola, novella appena citata, Pirandello descrive non solo il senso di infinita lontananza che apre il cuore dell’impiegato di ritorno da Genova, ma ne sottolinea anche la difficoltà per quello di mettere da parte gli impegni, la routine, i doveri, il lavoro, per lasciarsi andare alle proprie sensazioni:
M’ero portate in treno, nella busta di cuojo, alcune carte nuove da studiare. A una prima difficoltà incontrata nella lettura, avevo alzato gli occhi e li avevo volti verso il finestrino della vettura. Guardavo fuori, ma non vedevo nulla, assorto in quella difficoltà.
Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano; vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi vedevano.
Pirandello, dunque, riconosce la possibilità a tutti gli esseri umani di poter realizzare questa pienezza, quest’esperienza creativa, questa sensazione che è pari a quella dei poeti, quella che si prova andando a curiosare oltre la siepe, sia che si tratti di scrittrici nel pieno del loro successo, come il caso di Silvia Roncella, ma lo stesso può accadere a una semplice vedova relegata in un borgo dimenticato dal mondo o a un semplice impiegato: «Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono agiate in una o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti». [18]
[18] Luigi Pirandello, L’umorismo, Milano, Garzanti, 2011, 210-211.
Nel commentare alcune novelle, il critico Lucio Lugnani ha definito questi personaggi pirandelliani come dei «viaggiatori immaginari», ossia come coloro che compiono un viaggio, o magari no, ma anche nella semplice possibilità di vivere quello spostamento realizzano il senso della loro identità più profonda, fino a quel momento per loro sconosciuta.
Questa identità, diversa da quel che si era, nascosta dalle maschere che la società impone e invisibile per la maggior parte delle persone, si può ricreare allorché quel personaggio sia disposto a spostarsi, nello specifico ad allontanarsi dal nucleo dove questa oppressione ha avuto origine.
Perciò, la ricerca di sé trova una metafora perfetta nel viaggio. Viaggio immaginato su una linea che tende verso l’infinito, poiché, scriveva Pirandello in un memorabile passaggio de L’Umorismo che qui riportiamo, l’uomo ha in sé possibilità infinite di realizzare uno scarto rispetto al passato:
Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono anch’essi illusioni, sono le condizioni dell’apparir della nostra individualità relativa; ma nella realtà, quei limiti non esistono punto. (…) I limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Di là da quella linea vi sono memorie, vi sono percezioni e ragionamenti. Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente. [18] Ivi, pag. 207.
Dunque, se Pirandello concentrò gran parte delle sue pagine nel cercare di rappresentare l’identità umana più profonda, ora possiamo dire che quella ricerca fu tanto riuscita proprio perché essa non opponeva limiti alle sue possibilità. Lo scavo sulla psiche del personaggio è un lavoro che non si finisce mai di raffinare, mentre si tenta di ricreare sulla pagina quel movimento infinito, incessante, a tratti straripante, di ogni uomo che, guardandosi attorno, non si accontenta di quanto lo sguardo include, ma va alla ricerca di tutto quel che esclude, alla ricerca cioè di quell’altrove indefinito che si apre oltre la siepe, sotto le maschere e le forme, oltre i falsi idoli, in definitiva oltre i limiti del razionale.
Ilaria Paluzzi
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