Pirandello e la logica della tradizione

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Di Angelo Petrella

Pirandello compiva una distruzione totale e materialistica della ragione tradizionale, rappresentando l’alienazione borghese del personaggio.

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Pirandello e la logica della tradizione

Pirandello e la logica della tradizione

Pirandello esprime rammarico per il fatto che il pubblico non abbia saputo cogliere il fondo umoristico del romanzo celato sotto la «rappresentazione affatto oggettiva dei casi e delle persone (…). Qui ogni volontà è esclusa, pur essendo lasciata ai personaggi la piena illusione ch’essi agiscano volontariamente, mentre una legge odiosa li guida o li trascina, occulta e inesorabile». [1]
In altre parole, l’autore girgentino è cosciente sia del superamento del naturalismo operato dalla propria produzione narrativa umoristica sia, contemporaneamente, dell’appartenenza de L’esclusa all’alveo della verosimiglianza naturalistica, sebbene Pirandello compia grandi sforzi per distaccarsene. È verista la condotta «mostruosamente consequenziale» [2] dei personaggi del romanzo; è verista la loro appartenenza a schemi e ruoli prefissati, immutabili.

[1] Tutte le citazioni dai romanzi pirandelliani sono tratte dalla collana “I Meridiani” dell’edizione Mondadori in due volumi curata da Giovanni Macchia con la collaborazione di Mario Costanzo (L. Pirandello, Tutti i romanzi, Mondadori, Milano, 2005, voll. I-II). D’ora in poi si utilizzerà la sigla TR seguita dal numero del volume e dal numero di pagina. La citazione nel testo qui sopra è tratta da: TR, II, p. 881.

[2] R. Barilli, Pirandello. Una rivoluzione culturale, Mondadori, Milano, 2005, p. 68.

La filosofia positivista impone di considerare la realtà come totalmente soggiogata a leggi deterministiche immutabili: la logica del positivismo non lascia spazio al caso ma, attraverso la triade race, milieu e moment, consente di stabilire con precisione la genealogia dei fenomeni materiali. Il verismo non dà spazio ad alcun pensiero della differenza e, anzi, nella sua monolitica concezione della realtà, riassorbe qualsiasi fenomeno nella logica del determinismo. Pirandello è ben cosciente di questa condizione da cui tenta di liberarsi, se è vero che in una nota critica del 1901 sull’allora fresco di stampa Il marchese di Roccaverdina, pur riconoscendosi in qualche modo discepolo di Verga e Capuana, scrive che quest’ultimo ha fornito «un’analisi minuta, particolare, potente, determinata però man mano, di continuo, dalle conseguenze vive del fatto, dai personaggi che si muovono nel dramma, dalle speciali condizioni ambientali». [3]

[3] L. Pirandello, Il marchese di Roccaverdina, in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Mondadori, Milano, 1993, p. 961.

Pirandello compirà grandi sforzi per liberarsi dalle prescrizioni veriste, superandole dal suo interno. In tutta la sua prima produzione romanzesca si avverte infatti un’insofferenza sempre crescente nei confronti del determinismo positivistico. Ne Il turno, ad esempio, sebbene viga una certa rigidità dei personaggi e del bozzettismo, il determinismo dei fenomeni materiali tende a convertirsi in un’imprevedibilità del caso. Anche ne L’esclusa non è direttamente la condizione oggettiva e materiale a decretare l’estraneità e l’esclusione sociale, come accadeva in Verga, ma è piuttosto il fatto, cioè una serie di combinazioni casuali della realtà:

«potremmo dire che questo di Pirandello è un determinismo sociale, non più naturale. L’impalcatura positivistica e veristica viene scossa, costretta a subire una torsione in senso relativistico, non ancora rovesciata. La fatalità deterministica viene conservata, ma a suo fondamento non sta un accadimento reale, bensì una “verità” che s’afferma nella coscienza comune per la forza di una convenzione». [4]

Dunque Pirandello abiura la verità scientifica propria del positivismo adottandone un’altra nozione, pragmatica e relativa. [4]

[4] R. Luperini, Pirandello, Laterza, Bari, 2000, p. 38

[5] R. Luperini, Pirandello, p. 40.

In altre parole, esiste ancora “il fatto”, ma questo non agisce determinando direttamente le sorti dei personaggi: piuttosto, è l’interpretazione psicologica di ciascuno di essi a indirizzare “il fatto” verso un esito sciagurato. La prima critica che Pirandello muove al verismo è l’inverosimiglianza del determinismo logico: nel mondo alle soglie del Novecento, il pensiero positivista non è più in grado di cogliere la molteplicità di sfumature del personaggio e dunque non può rappresentarne l’intima realtà. Questo passaggio è testimoniato, tra l’altro, dal rapporto con Capuana, il principale mediatore del naturalismo zoliano in Italia. Per Pirandello, Capuana è soprattutto un attento analista psicologico, lontano dal «verismo sobrio, classico del Verga». [6]

I suoi personaggi, come dimostra la tarda opera Il marchese di Roccaverdina, sono indubbiamente «prodotti e determinati dal loro proprio ambiente», [7] ma sono tratteggiati essenzialmente a partire dalla propria interiorità.

[6] A. Di Pietro, Saggio su Luigi Pirandello, Vita e Pensiero, Milano, 1941, p. 25.

[7] L. Pirandello, Il marchese di Roccaverdina, p. 960

Questa caratteristica di Capuana costituirà il punto di partenza per il distacco pirandelliano dal verismo, attraverso la complicazione dell’interiorità psicologica. Anche solo confrontando il capolavoro di Capuana del 1901 con una pressoché coeva novella pirandelliana avente il medesimo tema della pazzia Quand’ero matto (1902), possiamo evincerne la profonda differenza non solo di poetica ma anche di prospettiva: la complicazione psicologica di Capuana si innesta su di una predestinazione meccanica della pazzia del marchese, dovuta al tormento interiore e probabilmente al senso di colpa. E l’autore, in effetti, glissa sulla sofferenza o sulla distorsione ragionativa del personaggio presentandolo direttamente, nell’epilogo del romanzo, come pazzo. Per Pirandello, invece, la pazzia consta proprio nell’agonia della logica: il protagonista impazzisce per un esercizio eccessivo della propria facoltà logica.

«E si badi: qualifico pazzia quest’idea improvvisa, non tanto per la trepida gioja che mi suscitò e che riconobbi in prima benissimo, per averla altre volte provata tal quale, quand’ero matto: specie d’ebbrezza abbarbagliante che dura un attimo, un lampo, nel quale il mondo sembra dia un gran palpito e sussulti tutto dentro di noi; quanto per le riflessioni da povero savio con cui cercai subito di puntellare quell’ebbrezza in me. Pensai: “Purché a questa ragazza si dia da mangiare, da dormire e qualche veste smessa, ci servirà, senza pretendere altro. Sarà pure un risparmio per Marta”. Così». [8]

[8] Tutte le citazioni dalle novelle pirandelliane sono tratte dalla collana “I Meridiani” dell’edizione Mondadori in tre volumi curata da Mario Costanzo (L. Pirandello, Novelle per un anno, Mondadori, Milano, 2007, voll. I-III). D’ora in poi si utilizzerà la sigla NPUA seguita dal numero del volume e dal numero di pagina. La citazione nel testo qui sopra è tratta da: NPUA, II, p. 783.

Non c’è nulla di deterministico né di meccanico: il personaggio mostra la sua pazzia dall’interno, frutto dell’imprevedibilità dell’accidente che lo ha portato a sragionare. A Pirandello non interessa “il fatto” in sé né tantomeno il tema della pazzia, ma interessa piuttosto mostrare come la follia risulti essere una distorsione della logica. Ciò testimonia anche la consapevolezza pirandelliana dell’insufficienza del Logos naturalista, da cui pur egli stesso parte, [9] a rappresentare la realtà del nuovo secolo.

[9] Si legga il capitolo relativo al bozzettismo della novella Capannetta – bozzetto siciliano in: G. Andersson, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Luigi Pirandello, Almqvist & Wiksell, Stoccolma, 1966, pp. 19-39.

Ogni forma di referenzialità, ogni sistema applicato alla letteratura non ha più modo di funzionare: è lo stesso concetto di verosimiglianza a essere messo in discussione. Per approfondire la comprensione del contrasto che Pirandello opera nei confronti del Logos, può essere utile ricorrere al pensiero dei principali esponenti della Scuola di Francoforte, che hanno appunto concentrato larga parte della loro speculazione sui concetti di Illuminismo e di Logos. Nel suo lavoro sull’Eclisse della ragione, Max Horhkeimer parte dall’idea che esistano due ordini di razionalità: una ragione soggettiva e una ragione oggettiva. La prima coinciderebbe con il principio critico individuale, ovvero «la facoltà di classificare, la facoltà di induzione e di deduzione, cioè il funzionamento astratto del meccanismo del pensiero». [10]

[10]  M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino, 2000, p. 11.

La ragione oggettiva, invece, sarebbe quella forma di pensiero che, intendendo la razionalità come immanente alla realtà, si pone l’obiettivo di riconciliare il pensiero con l’ordine della natura creando un’impalcatura filosofica sistematica. La ragione oggettiva considera quella soggettiva «solo un’espressione limitata e parziale di un’universale razionalità da cui si deducevano criteri per tutte le cose e per tutti gli esseri». [11]

[11] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, p. 12.

In altre parole, nel corso della storia del pensiero occidentale, il principio critico della ragione soggettiva è stato variamente indirizzato verso la costruzione dei sistemi di pensiero della ragione oggettiva, giungendo fino al punto di formalizzarsi e cristallizzarsi. Il Logos altro non è che questo sistema di pensiero. Come spiega Horkheimer assieme a Theodor W. Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo, a partire dal positivismo la razionalità tende a distruggere la sostanza critica della ragione stessa, diventando puro strumento della pianificazione dell’assoggettamento della realtà al pensiero. In altre parole, il progresso della ragione moderna – che tanti sforzi ha dedicato alla fuoriuscita dal mito – tende a cristallizzarsi in ideologia e a ricadere in una nuova forma di barbarie autoritaria, asservita alla conquista e al potere.

Il principio critico della ragione soggettiva ha infatti sempre avuto «l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. (…) Il programma dell’illuminismo era di liberare il mondo dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di  rovesciare l’immaginazione con la scienza». [12]

 [12] M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 2001, p. 11.

La ragione oggettiva sottende invece il desiderio di dominare ogni andito della natura: con l’età moderna, dunque, il Logos diventa la formula monadica entro cui tutto può racchiudersi. Il pensiero razionale perde la sua funzione critica e assume il semplice ruolo di coordinatore della realtà: la ragione oggettiva diventa tautologia, dal momento che «secondo Kant, il giudizio filosofico mira al nuovo, ma non conosce mai nulla di nuovo, poiché ripete sempre e soltanto ciò che la ragione ha già posto nell’oggetto». [13]

[13] M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 34.

In questa continua produzione di uniformità, in questa riproposizione del già dato – dove pensare significa produrre un ordine coerente e unitario ai concetti – non c’è più spazio per la critica: «la riduzione del pensiero alla produzione di uniformità, implica l’impoverimento del pensiero come dell’esperienza». [14]

[14]  M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 43. Anche Marcuse, nel suo celebre lavoro L’uomo a una dimensione, parlava del conflitto sovrastorico tra le tendenze alla stabilizzazione e gli elementi sovversivi della Ragione, facendo risalire il conflitto alle origini dello stesso pensiero filosofico, «nel contrasto tra la logica dialettica di Platone e la logica formalde dell’Organon aristotelico» (H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1999, p. 134).

Questo Logos strumentale, che si serve della razionalità per imporre ordine e soggiogare il mondo, trasforma in realtà la società stessa in una macchina dittatoriale mirata al mantenimento dello status quo e all’integrazione dell’uomo nel sistema. Il Logos diventa un’impalcatura strumentale che sostiene l’intero sistema sociale e ne condiziona tutte le sue espressioni: la cultura, l’economia, la produzione, la politica, il discorso e così via. Gli stessi valori sociali borghesi quali ad esempio il matrimonio, la religione o l’educazione – soggetti a una feroce critica da parte di Pirandello – si svuoteranno di significato e assumeranno un senso meramente convenzionale. Nella compiuta modernità, scrive Horkheimer: «al culmine del processo di razionalizzazione, la ragione è diventata irrazionale e stupida. Il tema del nostro tempo è quello della conservazione dell’io, mentre non v’è più nessun io da conservare». [15]

[15] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, p. 113

La distinzione teorica tra le due forme di ragione, prima ancora che ne L’umorismo, era chiara a Pirandello anche grazie ad alcuni pensatori dell’epoca del decadentismo, uno per tutti Gaetano Negri. Nel suo Segni dei tempi, in più luoghi citato da Pirandello, Negri sviluppava numerose riflessioni epistemologiche stabilendo, nell’introduzione, una riflessione preliminare sull’impossibilità di stabilire un fondamento oggettivo al pensiero umano, il quale nascerebbe piuttosto come «la conseguenza dell’intima natura dell’io di ciascuno», [16] intangibile e primordiale.

[16]G. Negri, Segni dei tempi, Hoepli, Milano, 1909, p. 4.

Da questa mancanza di oggettività deriverebbe il corollario secondo cui le cose «non sono che la conseguenza del punto di vista da cui le si guardano». [17]

[17] G. Negri, Segni dei tempi, p. 4.

Ma, cosa più importante, Negri stabiliva una differenza fondamentale tra due tipi di “io”, ovvero di pensiero individuale:

«un io critico che è un io che guarda le cose all’infuori di ogni premessa che ne determini a priori il significato. L’io che non è critico porta in sé stesso la necessità di spiegarsi l’esistenza del mondo in una determinata maniera. Senza quella spiegazione non può vivere. Il pensiero successivo svolge quel presentimento d’idea, e lo circonda di tutta quell’impalcatura di ragionamenti che valgono a tenerlo in piedi. L’io critico non ha in sé stesso nessuna idea innata del sistema del mondo. (…) Questa tendenza critica, per la quale la conoscenza è un fatto che sussiste per sé stesso e che basta a sé stesso, senza appoggiarsi a nessuna premessa di fede, è, a mio parere, il fenomeno intellettuale che propriamente distingue il pensiero moderno». [18]

[18] G. Negri, Segni dei tempi, pp. 4-5.

L’io critico soggettivo è dunque un principio critico, una funzione basilare della razionalità: più precisamente, in termini matteblanchiani, è quel meccanismo di funzionamento della nostra logica asimmetrica. L’io oggettivo è invece una possibile conseguenza del principio critico, ovvero l’elaborazione dei dati ottenuti attraverso l’esercizio del raziocinio in un ordine sistematico.

Chiarita questa premessa, risulterà ora più evidente il fatto che Pirandello non si scagli contro la razionalità tout court, ma solo contro quel tipo di razionalità tendente a farsi sistema: nel saggio Arte e scienza, ad esempio, l’estetica crociana è condannata per un suo definirsi «in base a un procedimento logico, e dunque astratta, come dicevo, monca e rudimentale». [19]

[19] L. Pirandello, Arte e scienza, in Saggi, poesie e scritti varii, p. 167.

L’astrazione è simbolo di fissità. Per Pirandello la logica del moderno è interamente sottomessa al potere della ragione oggettiva: logica è sinonimo di Logos, ovvero di sistema di pensiero astratto, teoretico e meccanico che pretende di ridurre il mondo a pensiero intelligibile. Questo concetto è alla base delle varie manifestazioni di avversione pirandelliana contro la fissità, ivi inclusa quella della forma contro la vita. Scrive Pirandello:

«Ma l’uomo? Anche da vecchio, sempre con la febbre: delira e non se n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche davanti a se stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul serio. L’aiuta in questo una certa macchinetta infernale che la natura volle regalargli, aggiustandogliela dentro, per dargli una prova segnalata della sua benevolenza. (…) È una specie di pompa a filtro che mette in comunicazione il cervello col cuore. La chiamano LOGICA i signori filosofi. Il cervello pompa con essa i sentimenti dal cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido: si refrigera, si purifica, si i-de-a-liz-za. Un povero sentimento, così destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta, diviene idea astratta e generale; e che ne segue? Ne segue che noi non dobbiamo affliggerci soltanto di quel caso particolare, di quella contingenza passeggera; ma dobbiamo attossicarci la vita con l’estratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica.

E molti credono di guarire così di tutti i mali di cui il mondo è pieno, e pompano e filtrano, finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno stipetto di farmacia pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta nera un teschio fra due stinchi in croce e la leggenda: VELENO». [20]

[20]  L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, poesie e scritti varii, p. 154. L’immagine della logica come «macchinetta» ricorre più volte nella produzione artistica pirandelliana (precisamente nel romanzo Suo marito, nel dramma Ma non è una cosa seria e nelle novelle La disdetta di Pitagora, La messa di quest’anno e Nel gorgo).

È ovvio che un sistema che obblighi la realtà a rientrare nelle maglie del pensiero, escluderà o rimuoverà tutto quanto non rientri nel proprio ordine. Il Logos dunque è anche il meccanismo creatore – oltre che delle convenzioni – delle finzioni e delle maschere:

«l’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo». [21]

[21]  L. Pirandello, L’umorismo, pp. 154-155.

Al proposito, Arcangelo Leone de Castris noterà appunto come le metodologie filosofiche ed i sistemi etici vengano considerati da Pirandello i responsabili della rovina della società ottocentesca. La realtà contraddittoria e discorde del presente non può essere espressa o chiarita da forme di pensiero sistematico:

«al contrario è il loro impiego dogmatico, il loro carattere abusivo e pseudo logico a mistificare il mondo, ad approfondire la dissociazione tra l’uomo e le cose, tra la coscienza e i suoi contenuti reali. Falsa, ingannevolmente ottimistica, è la gnoseologia idealistica, la illusoria razionalità di una logica che cristallizza la vita in apparente armonia di concetti e di categorie formali; e falsa l’immagine di una realtà scientificamente concorde e ordinata, scandita in rapporti fissi, in gerarchie oggettivamente plausibili, che il naturalismo pretende di opporre». [22]

[22] A. Leone de Castris, La rivoluzione di Pirandello, in Storia di Pirandello, Laterza, Bari, 1986, p. 214.

Dunque la lotta pirandelliana avviene contro ogni forma di pensiero sistematico. Questo è il motivo per cui l’autore si trova contro la maggior parte delle correnti o delle scuole della sua epoca. Ed è anche il motivo che spiega, come giustamente sottolinea Leone De Castris, l’aspra polemica e la censura nei suoi confronti operata da Croce. Pirandello compiva una distruzione totale e materialistica della ragione tradizionale, rappresentando l’alienazione borghese del personaggio. L’estetica crociana, invece, attraverso l’idea di un’autonomia assoluta dell’arte dai fatti sociali, mirava da un lato a negare valore a un progetto che intendesse la letteratura come denuncia e riflessione, dall’altro a rimuovere il percorso della modernità pirandelliana che, criticando il bilancio fallimentare della società ottocentesca

«era, invece, nella sua direzione più autentica, la testimonianza sofferente del fallimento di un intero ordine di valori e insieme la rivolta contro il sistema che li ha alienati e traditi: la denuncia talora consapevole, e in ogni caso oggettivamente ricca di spinte rivoluzionarie, di una crisi irreversibile e totale, la scoperta di un vuoto a colmare il quale più non servivano le tranquille sistemazioni della filosofia e le mistificanti modellizzazioni della morale tardo ottocentesca, cioè la necessaria distruzione di un ordine formale e la drammatica destituzione di una ragione privilegiata e apparente». [23]

[23] A. Leone de Castris, La rivoluzione di Pirandello, in Storia di Pirandello, Laterza, Bari, 1986 p. 215.

Contro l’idea di un’arte pura, sotto la cui apparenza metafisica si cela in realtà un progetto mirato alla costruzione ideologica di un sistema di valori egemone, Pirandello diventa

«il più sofferente denigratore della logica, colui che più d’ogni altro ha denunziato il ridicolo e immorale paradosso, l’utilitario tranello, della ragione tradizionale. Quella ragione e quella logica erano cadute per sempre – rivelandosi ai suoi occhi come strumento di oppressione, assurdi meccanismi di alienazione dell’uomo – perché travolte dal crollo storico degli antichi ideali che sembravano sorreggerle e renderle necessarie». [24]

[24] A. Leone de Castris, La rivoluzione di Pirandello, in Storia di Pirandello, Laterza, Bari, 1986 p. 218.

Angelo Petrella

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