Ingiustizia è fatta. La sfiducia di Pirandello (Con audio lettura)

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Di Sarah Zappulla Muscarà

Anche Pirandello, condividendo la sorte dei suoi personaggi, deve constatare incredulo che il processo non accerta la giustizia sostanziale ma si limita a constatare quella formale.

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Pirandello e la legge
Particolare copertina del libro Contro gli avvocati. Immagine da Amazon.it

Ingiustizia è fatta. La sfiducia di Pirandello

da Archivio Repubblica.it

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

Le controversie con gli editori e i legali visti come Azzeccagarbugli: la raccolta “Contro gli avvocati” evoca la diffidenza del Nobel.

Al bando i codici e le normative, vuol dirci Pirandello; al diavolo gli avvocati (tutti quanti allievi dell’immarcescibile Azzeccagarbugli manzoniano), buoni solo ad adoperarsi affinché la giustizia sia ingiusta e la legge si faccia iniqua». Così, felicemente, Salvatore Ferlita nella silloge di novelle di Luigi Pirandello, da lui curata, “Contro gli avvocati” (21 editore), tutte «tenute insieme da una specie di collante giuridico».

L’atteggiamento di diffidenza nei riguardi della giustizia, dei poteri dello Stato, avvertiti, per secolare retaggio, estranei e lontani, quando non addirittura ostili, è motivo strutturante dell’universo pirandelliano (così come lo era stato di quello verghiano) dove «l’uomo che ricorre alla legge sa di cacciarsi in una trappola». Per sua insita natura idonea, la legge nella letteratura di Pirandello, soltanto a fornire un corredo di norme per la formalizzazione dei conflitti piuttosto che per la loro soluzione. L’attitudine causidica dei personaggi pirandelliani, per dirla con Salvatore Ferlita, «loici e notomizzatori, sempre pronti per ogni nonnulla ad attaccar questione e a ricorrere al parere di un legale», come don Lollò de La giara, è propria anche del loro autore (non a caso l’agrigentino nel 1886 s’iscrisse a Palermo contestualmente alle facoltà di Lettere e di Giurisprudenza per poi scegliere la prima). Lo documentano i fitti carteggi costellati di un’insistita volontà, spesso soltanto enunciata, di ricorrere a giudici e avvocati per difendere interessi aggrediti da tutte le parti, in special modo in ambito familiare e professionale.

Un cenno, fra i tanti, ad una scarsamente nota, emblematica vicenda giudiziaria originata dallo scambio di concitate lettere a proposito della pressante richiesta da parte dell’editore Rocco Carabba (che nel 1908 gli aveva pubblicato la sua opera saggistica fondamentale, L’Umorismo) di restituzione della somma di 400 lire, anticipo di un programmato libro per giovinetti mai consegnato. Un contrasto che si sarebbe potuto concludere pacificamente, con la buona volontà di entrambi, se l’irruente Pirandello non fosse uscito dai gangheri per quel rifiuto dell’editore, giudicato offensivo della sua dignità di artista, delle diverse sue proposte di transazione, pubblicare in alternativa novelle o il “capitale” romanzo I vecchi e i giovani, perché in precedenza apparsi, a puntate, sui periodici.

Consuetudine, questa, in verità, della gran parte degli scrittori del tempo, fra gli altri Verga, Capuana, De Roberto. Irato,  l’8 marzo 1911 così il drammaturgo scrive a Carabba:

«Vedo chiaramente che lei capisce di letteratura quanto può capirne un cerinajo che va vendendo per istrada le sue scatole di fiammiferi. E sarebbe poco male, che non capisse di letteratura; ma non capisce neppure con chi ha da fare, e si permette certe insinuazioni che soltanto si possono perdonare a un incosciente».

Fortemente irritato e sicuro delle sue buone ragioni, con orgoglio lo sfida:

«Mi chiami in Tribunale: io le farò l’offerta delle novelle e le farò conoscere da una accolta di periti competenti che valore esse abbiano e a quale rispetto io abbia diritto per la mia onestà d’uomo e di scrittore».

Ma, al pari dei suoi personaggi in cerca di giustizia, Pirandello soccomberà con l’inevitabile aggravio di spese: «A 41 lire di multa, ai danni e alle spese» la condanna, appellata lo stesso giorno dallo scrittore che, nonostante la successiva rinuncia all’impugnazione, verrà ulteriormente condannato «alle maggiori spese, esclusa la tassa di sentenza, ed ai maggiori danni verso la parte civile». E ciò in un periodo della sua esistenza di notevoli difficoltà, anche economiche, per le tristi vicende familiari, in primo luogo la malattia mentale della moglie Antonietta.

Se non ogni conflitto economico di Pirandello sfocia, per svariati motivi, in un procedimento giudiziario, spesso lo sfiora, almeno nelle intenzioni, come allorché il più autorevole editore del tempo, Emilio Treves, che si era contrattualmente impegnato a pubblicare tutti i suoi romanzi, gli rifiuta Suo marito («Son partito dal marito di Grazia Deledda. Lo conosci? Che capolavoro, Ugo mio! Dico, il marito di Grazia Deledda – intendiamoci…», scrive a Ugo Ojetti).

Di certo per le pressioni della scrittrice sarda – a cui sarebbe stato assegnato il Premio Nobel ben otto anni prima di lui, per scelte di opportunità politica di Mussolini (non dispiacere a Gabriele d’Annunzio) – che, venuta a conoscenza del romanzo «pepato», «stuzzicante» (come lo definisce lo stesso autore), in cui in chiave satirico-caricaturale è messa in ridicolo, è subito corsa ai ripari. Questa la sarcastica lettera con cui il Treves, mediante una trasparente parabola, si giustifica con Pirandello, aver già rifiutato un romanzo «bello, interessante», dal titolo Sua moglie, dove si allude mettendolo in “burletta” «in modo evidente alla moglie di Lei, caro signor Pirandello» e ridicolizzandolo «in modo tale che non si può a meno di riconoscerla».

La reazione immediata di Pirandello «costringere legalmente il Treves, che aveva accettato il romanzo per contratto, a stamparlo», come scrive il 30 luglio 1911 sempre a Ojetti, «ma non mi conviene, tu lo capisci». E pochi giorni dopo, informandolo che l’editore aveva già mandato in tipografia il manoscritto, restituitogli con le prime cartelle «sporche di stampa», scrive: «Io potrei, ripeto, costringere il Treves, in virtù del contratto debitamente firmato, a pubblicare il romanzo: Ma a che pro? Non lo farebbe andare!».

A trattenerlo, con la preoccupazione di salvaguardare i rapporti con il potente editore dei più illustri scrittori del tempo, il timore di una ritorsione. Ben a ragione, quindi, osserva accortamente Salvatore Ferlita, per Pirandello la legge «non rappresenta un porto sicuro nei marosi della vita: essa non è che l’ennesimo ingarbuglio, una specie di tagliola verso la quale si corre con tragica consapevolezza».

E ancora, «l’uomo che alla stampella della giurisprudenza si appoggia ha piena consapevolezza di offrirsi inerme al calappio». Anche Pirandello, pertanto, condividendo la sorte dei suoi personaggi, deve constatare incredulo che il processo non accerta la giustizia sostanziale ma si limita a constatare quella formale. Ma la ricchezza e l’ambiguità di problematiche che affollano il concetto pirandelliano di giustizia investendo le figure dell’imputato, dell’avvocato, del giudice, attori primari del rito processuale, cos’altro è se non segno distintivo dell’autentica opera d’arte?

Sarah Zappulla Muscarà
1 febbraio 2019

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