I malati della ragione e i guariti dalla follia in due novelle di Pirandello

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Di Donatella Nisi

Nella copiosità dell’opera pirandelliana, a causa di interruzioni, forzate o meno, messa in crisi e addii ai generi maggiori, il corpus delle novelle si scopre il più adatto a riprodurre, con un meccanismo quasi perfetto, la vita secondo la poetica dell’autore: una per ciascuno e non mai la stessa per tutti

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Pirandello e la follia
Salvador Dalì, Enigma sin fin, 1928. Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid

I malati della ragione e i guariti dalla follia
in due novelle di Pirandello

da Magazine Treccani

La follia, è noto, attraversa sia le pagine della biografia di Pirandello sia quelle della sua opera letteraria, dagli esiti più famosi nei romanzi e nel teatro (si pensi a Uno, nessuno e centomila e all’Enrico IV o al Così è se vi pare, per citare solo alcuni titoli) sino alle novelle meno conosciute. Se la malattia mentale della moglie dell’autore è sempre in primo piano quando si affronta la tematica pirandelliana della follia, meno noto è che i primi contatti di Pirandello con la pazzia avvengono in età adolescenziale, come scrive Andrea Camilleri in Biografia del figlio cambiato. In ambito familiare, la prima donna a rinchiudersi nella sfera della follia è stata la sorella Lina, a seguito del trauma scaturito dalla scoperta della relazione extraconiugale del padre Stefano. La fanciulla, poi guarita, non vedeva più attorno a sé esseri umani, ma animali, e il padre si trasformò in lupo. Ricordiamo che nell’opera pirandelliana troviamo spesso personaggi rappresentati con tratti da bestia, e nell’apologo teatrale L’uomo, la bestia e la virtù (1919) l’uomo-bestia è portato alla ribalta sui palcoscenici di tutto il mondo. Come afferma Pirandello stesso, l’opera

rappresenta precisamente un uomo in mezzo alle bestie, […] preso […] fra la strettezza ipocrita della morale borghese – maschera della virtù – e la bestialità umana. Apologo con la morale amara che ne deriva, e cioè che è bestiale soffrire come un uomo, mentre gli uomini vivono in maggior parte come delle bestie.

(Abbasso il pirandellismo, in «Il Dramma», 15 dicembre 1931).

L’«abisso nero»

Un altro dato che connota ulteriormente la realtà in cui Pirandello è cresciuto prima del matrimonio è riportato ancora da Camilleri: «la provincia di Girgenti, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi trent’anni del Novecento conterà, in percentuale, il più alto numero di malati mentali di tutt’Italia». Nella critica pirandelliana, Elio Gioanola ha studiato i rapporti fra la follia e l’opera di Pirandello, in particolare in relazione allo sdoppiamento, che per il critico sembra riguardare anche il giovanissimo Luigi quando nelle lettere ai familiari scriveva:

La meditazione è l’abisso nero, popolato di foschi fantasmi, custodito dallo sconforto disperato. Un raggio di luce non vi penetra mai, e il desiderio di averlo sprofonda sempre di più nelle tenebre dense. […] Io scrivo e studio per dimenticare me stesso – per distrarmi dalla disperazione.

(Lettera alla sorella Lina del 31 ottobre 1886)

In un’altra lettera, dove troviamo un’anticipazione dell’immagine del licantropo intorno a cui si sviluppa la novella Male di luna (1913), con il personaggio Batà trasformato in una bestia dall’influenza lunare, rileviamo come la follia connessa al forte sentire, ovvero la meditazione come un abisso nero, sia ricondotta da Pirandello alla metafora della bestia, anche per indicare sé stesso:

Non vi preoccupate di me – sono una bestia mansueta io, che di tanto in tanto, non so al tornar della luna, è presa dalle smanie e digrigna i denti e torce gli occhi e borbotta non so che diavolerie. Ma sono una bestia mansueta una buona bestia, non vi preoccupate… […] Non voglio conforti. Se, mettiamo, un imbecille cade in un abisso, è inutile che voi dall’alto gli parliate lusingandolo a bene sperare. […] oh smanie di una bestia mansueta! È nulla, sinceramente, è nulla. Io son sempre quale sono stato, quale voi mi conoscete – dunque è inutile ogni preoccupazione. Siamo sempre da capo. Pulcinella quando balla perde spesso la berretta, ed io quando parlo perdo qualche volta la maschera gioviale e sorridente. Poco male: di Pulcinella si ride; ridete anche di me, come ne rido io.

(Lettera ai familiari del 29 ottobre 1886)

Pirandello associa qui l’immagine della bestia smaniosa all’immagine della giocondità che maschera il male di vivere. A questi stessi anni risale, non a caso, la composizione delle liriche pubblicate nel 1889 nella raccolta Mal giocondo, il cui titolo, rivela Marco Boni, è suggerito da un verso delle Stanze per la giostra (13,8), come alcune:

reminiscenze polizianesche, che, accanto ad altre del Magnifico, appaiono in Pasqua di Gea (XI-XIII). Nel Poliziano e in genere nei poeti del Quattrocento il Pirandello sentiva, celata dietro l’invito alla gioia, una profonda malinconia.

Già nella lettera giovanile sopra citata, all’immagine letteraria del doppio Pirandello accostava la bestia acquattata in ognuno di noi, pronta a venir fuori inaspettata attraverso una mostruosa metamorfosi, simile a quella di Batà causata dal ‘male di Luna’, ma anche a quella a più riprese evocata in seguito nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore:

[…] strizzò gli occhi, contrasse il volto, strinse le pugna, come assalito da un fitto spasimo di ventre, improvviso… – niente! era lo sforzo tremendo, che ogni volta suol fare su se stesso per contenersi, per spremere dalla sua bestialità adirata la coscienza d’esser medico.

[…] atti ambigui, menzogne vergognose, cupi livori, delitti meditati all’ombra di noi stessi […] ricordi obliati e desiderii inconfessati, irrompono in tumulto, con furia diabolica, ruggendo come belve.

La funzione salvifica della scrittura

Per una interessante lettura sospettosa di questo romanzo, come una storia di delitto e castigo dove Serafino Gubbio, apparentemente neutrale, è rivelato regista di un folle crimine passionale ‘meditato all’ombra di se stesso’, oltre che un hobbesiano lupus per il suo rivale Nuti, si veda il volume di Beatrice Stasi, ‘Veniamo al fatto, signori miei!’. Trame pirandelliane.

Nella copiosità dell’opera pirandelliana, a causa di interruzioni, forzate o meno, messa in crisi e addii ai generi maggiori, il corpus delle novelle (con la sua caotica frammentarietà che aveva dato i natali ai personaggi di tutta la produzione maggiore) si scopre il più adatto a riprodurre, con un meccanismo quasi perfetto, la vita secondo la poetica dell’autore: una per ciascuno e non mai la stessa per tutti. Giovanni Macchia nella sua introduzione alla raccolta Novelle per un anno parla di «fedeltà al genere»: infatti, a partire dalla fine di quel 1892 quando, a dire di Pirandello, Capuana lo spinge a cimentarsi nell’arte narrativa in prosa, davvero per le novelle potremmo dire nulla dies sine linea. Tale costanza è riconducibile sicuramente alla funzione salvifica della scrittura, sentita già dal giovane Pirandello. Infatti, afferma l’autore anche in età matura,

Scrivendo dei nostri dolori delle nostre disgrazie ce ne consoliamo, sfogando i nostri umori scansiamo il rischio che essi ci sopraffacciano: abbiamo attivato una specie di funzione di ricambio spirituale che ci garantisce una salute di ferro. Siamo caduti in pieno nella trappola della letteratura.

(Luigi Pirandello, Non parlo di me, in «Occidente», gennaio-marzo 1933).

La chiave di lettura qui proposta, nell’analisi di due novelle pirandelliane, rovescia la tradizionale valutazione comparativa tra ragione e follia, si vuole rintracciare invece quel particolare tipo di pazzia che genera una narrazione salvifica, una possibilità di scampo, una alternativa al suicidio a cui spesso conduce il freddo meccanismo della ragione. Si pensi, fra tutti, al protagonista suicida della novella E due! (1901), il quale sognava di diventare uno scrittore prima di abbandonarsi a una vita bestiale, della quale ormai prova onta e che lo spinge a togliersi la vita:

Come mai, in quei giorni, gli era potuto venire in mente di comprare quel libro? S’era proposto di non leggere più, di non più scrivere un rigo; e andava lì, in quella casa, con quei compagni, per abbrutirsi, per uccidere in sé, per affogare nel bagordo un sogno, il suo sogno giovanile, poiché le tristi necessità della vita gl’impedivano d’abbandonarsi a esso, come avrebbe voluto.

«Una boccata d’aria nel mondo»

In altri casi, nell’opera pirandelliana, la follia si trasforma in un’arma di difesa per quei personaggi che si scontrano con la ragione “degli altri”, o che combattono con la propria stessa ragione quando si ritrovano «presi nel gorgo d’una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria […]» (L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore). Dopo uno scatto di liberazione, l’uomo percorre la strada dell’illusione necessaria, della pazzia, diventa personaggio accogliendo l’arte come espressione di vita piena. Il personaggio Belluca, della novella pirandelliana Il treno ha fischiato (1914), vive una vita «impossibile» fatta di sofferenza e abnegazione, ma trova un rimedio ai suoi mali «levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo»:

L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita “impossibile”, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti_… Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così… c’erano gli oceani… le foreste… E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione_ una boccata d’aria nel mondo. Gli bastava!

Belluca, che tutti credono impazzito, in realtà guarisce grazie alla capacità salvifica della fantasia. Per concludere, Pirandello ci mostra che quando il mondo ritorna dentro di noi per il tramite delle immagini e possiamo sentirlo altro da quello che viviamo nell’immediato, provandone entusiasmo al di là del bene e del male, solo in quel momento tutto diventa chiaro e riconosciamo come nella letteratura, nella capacità di creare immagini, impariamo a morire, intendendo il tempo vissuto come un progressivo spegnimento; poiché come afferma Umberto Eco: «I racconti “già fatti” ci insegnano anche a morire. Credo che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura. Forse ce ne sono altre, ma ora non mi vengono in mente».

Donatella Nisi
17 ottobre 2022

Bibliografia

Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, a cura e con introduzione di Giovanni Macchia, con la collaborazione di Mario Costanzo, 2 volumi, «I Meridiani», Mondadori, Milano 1973.
Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, introduzione di Giovanni Macchia, 3 volumi in 6 tomi, «I Meridiani», Mondadori, Milano 1985-1990.
Luigi Pirandello, Maschere nude, a cura di Alessandro d’Amico, premessa di Giovanni Macchia, 4 volumi, «I Meridiani», Mondadori, Milano 1986-2007.
Luigi Pirandello, Tutte le novelle, a cura di Lucio Lugnani, 3 volumi, BUR, Milano 2007.
Luigi Pirandello, Saggi e interventi, a cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani, e una testimonianza di Andrea Pirandello, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2006.
Lettere da Bonn, 1889-1891, introduzione e note di Elio Providenti, Bulzoni, Roma 1984.
Lettere giovanili da Palermo e da Roma, 1886-1889, introduzione e note di Elio Providenti, Bulzoni, Roma 1993.
Lettere della formazione (1891-1898con appendice di lettere sparse (1899-1919), a cura di Elio Providenti, Bulzoni, Roma 1996.
Marco Boni, La formazione letteraria di Luigi Pirandello, in «Convivium», (nuova raccolta), vol. XVII 1948, pp. 321-350.
Paola Daniela Giovanelli, Zoomorfismo e antropomorfismo, in Eadem, Dicendo che hanno un corpo. Saggi pirandelliani, Mucchi Editore, Modena 1994, pp. 113-123.
Elio Gioanola, Pirandello, la follia, Jaca Book, Milano 1997.
Franco Zangrilli, Il bestiario di Pirandello, Metauro Edizioni, Fossombrone 2001.
Elio Gioanola, Pirandello Story’s. La vita o si vive o si scrive, Jaca Book, Milano 2007.
Beatrice Stasi, «Veniamo al fatto, signori miei!». Trame pirandelliane, Progedit, Bari 2012.
Donatella Nisi, The ‘Mala Bestia’: an Introduction to the Theme of Evil in Pirandello’s Work, in «Pirandello Studies», 2016, vol. 36, pp. 131-142.
Umberto Eco, Su alcune funzioni della letteratura, in Idem, Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2002, p. 22.

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