Di Pierangelo Scatena.
Che la creazione artistica pirandelliana abbia molti punti di contatto con la filosofia è attestato anche dalla frequente accusa di aridità e di freddezza che una parte della critica ha rivolto alle sue invenzioni letterarie.
Pirandello e la filosofia, ovvero oltre “La ragione degli altri”
da Centro Studi Inconscio e Civiltà
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza.
Non è certo possibile esaurire in poche note la figura e l’opera del più grande drammaturgo italiano del novecento, e nemmeno evidenziare in modo esaustivo i molteplici aspetti letterari che lo rendono uno degli scrittori più rappresentativi dell’inquietudine del XX secolo.
Mi limiterò quindi a considerare alcuni elementi che mi sembrano centrali nella sua produzione, sia teatrale che narrativa, sottolineandone la relazione con alcune correnti di pensiero che hanno caratterizzato la nostra epoca.
Credo infatti che Pirandello sia riuscito, come pochi altri autori (mi vengono in mente Kafka, Musil, Mann, Joyce, Beckett, Camus, Pessoa), a rappresentare la condizione dell’uomo contemporaneo lacerato tra l’ideale e il reale, tra l’apparente infinita possibilità delle sue conquiste sociali e culturali e la miseria della vita quotidiana che lo condanna alla sconfitta e alla solitudine nella prigione delle convenzioni, dei preconcetti e dei pregiudizi, in una contraddizione irrisolta e forse irrisolvibile tra il mondo del contingente che lo domina e l’aspirazione ad un assoluto che ridoni senso alle scelte individuali.
È in fondo il tema che percorre gran parte della riflessione filosofica del novecento, in particolare la corrente fenomenologico-esistenzialista, ma anche la psicanalisi e il bergsonismo, che interpretano l’esperienza di spaesamento di fronte alla ricerca della verità, conseguente al rifiuto della tradizione metafisica, dove l’uomo trova sé stesso come “luogo della contingenza” e il mondo come “mondo fortuito”. Dobbiamo così rilevare come istanze simili, nel clima culturale del trapasso tra il XIX e XX secolo in Europa, venissero colte da pensatori diversi, anche appartenenti a tradizioni e contesti apparentemente lontani.
Che la creazione artistica pirandelliana abbia molti punti di contatto con la filosofia è attestato anche dalla frequente accusa di aridità e di freddezza che una parte della critica ha rivolto alle sue invenzioni letterarie. Quasi che le situazioni paradossali in cui vengono costantemente a trovarsi i suoi personaggi fossero solo frutto di un calcolato esercizio intellettualistico, artificioso e stereotipato, teso a dimostrare tesi filosofiche astratte più che a rappresentare la realtà dell’esistenza. Accusa ingiustificata, che non tiene conto delle stesse riflessioni del Nostro nel saggio sull’umorismo che mostrano come sia proprio nell’eccezionalità che si possono più efficacemente indagare e rappresentare i caratteri e le vicissitudini degli uomini.
Il fatto è che Pirandello, come altri grandi artisti, pur senza essere propriamente un filosofo, aveva certo una sua visione dell’uomo e del mondo da sostenere nella sua opera, ed è vero che gli avvenimenti descritti nei suoi romanzi e nel suo teatro sono spesso al limite del credibile e del verisimile, ma è proprio attraverso la costruzione e l’analisi delle situazioni paradossali che la migliore letteratura europea ha saputo rappresentare la condizione anomica e alienata dell’uomo contemporaneo, costretto in un vortice irrazionale di eventi di cui non è più in grado di intravedere il senso. Degli eventi anche più banali infatti, venuta meno la fiducia in qualche missione storica dell’umanità, non possiamo che sentirci vittime impotenti, in preda al più piccolo, imprevedibile accadimento occasionale. Se è vero (come ci informano le “teorie del caos”) che il battito d’ali di una farfalla ad Hong Kong può essere la causa, attraverso una concatenazione di fatti imperscrutabili, dello scatenarsi di un uragano nella California, anche l’individuo non può che trovarsi in completa balia delle variabili del caso; così in Uno, nessuno, centomila, dove la scoperta di un piccolo, insignificante difetto fisico finisce per stravolgere tutta la vita del protagonista.
Si avverte certamente in Pirandello l’influenza esercitata dal progressivo decentramento dell’essere umano operato dalle scoperte scientifiche che, distruggendo l’illusione antropocentrica, condiziona gran parte del pensiero del novecento (marxismo, psicoanalisi, esistenzialismo, strutturalismo), fino alla negazione della possibilità stessa del soggetto.
Ma è questa anche la condizione esistenziale e culturale della borghesia del XX secolo che, perdute le illusioni positiviste sulle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità nell’era della scienza e della tecnica, è costretta a fare i conti con una società profondamente ingiusta, carica di miseria non solo materiale, senza possibilità di trascendenza o di riscatto.
All’interno dei processi di massificazione e atomizzazione della civiltà occidentale, l’individualità borghese, ancora esaltata dal romanticismo ottocentesco, si ritrova così smarrita nel vortice dell’insignificanza, strumentalizzata e schiacciata dal potere cieco dell’economia capitalistica, di cui pure è stata artefice, ma che gli appare ormai sempre più estranea, incapace di dare ragione e scopo alle forme dell’esistenza.
Ecco pertanto la tragica ironia che caratterizza tutta la produzione di Pirandello: lo straniamento umoristico come strumento che permette di lacerare l’apparente normalità dell’esistenza mostrandone l’assurdo sottomettersi a norme e convenzioni irrigidite. Ed è attraverso questa via che egli svuota completamente i miti e gli ideali ottocenteschi, compiendo autonomamente il percorso di gran parte della cultura del primo novecento, con esiti che lo avvicinano alla riflessione dei più importanti pensatori esistenzialisti. Così supera il tradizionale provincialismo della cultura italiana e diviene forse il più europeo dei nostri scrittori moderni (solo Svevo, per altri versi, può essergli paragonato nella capacità di oltrepassare i limiti di una tradizione letteraria spesso chiusa e distante dai fermenti sovranazionali).
Non voglio però tentare una disanima dei testi delle sue opere. La critica letteraria ha da tempo indagato i motivi e le tematiche della sua produzione mettendo in risalto, al di là di una forma apparentemente legata a modi tradizionali, la grande modernità dell’intreccio narrativo dei romanzi e l’innovazione nella rappresentazione scenica delle commedie (per esempio l’abolizione del diaframma con il pubblico e il suo coinvolgimento nella vicenda mediante l’invenzione del “teatro nel teatro”).
Mi preme invece affrontare un unico tema, fondamentale in tutta la sua opera, che ci consente di aprire a una interpretazione, forse originale, sul senso della ricerca pirandelliana.
Intendo riferirmi a quella che potremmo definire la categoria della “alterità”, che tanta importanza ha nella visione del mondo di Pirandello e che è diventata da tempo centrale nella riflessione filosofica moderna. Categoria che è correlata e dialetticamente complementare a quella di “identità”; quest’ultima si costruisce infatti nella relazione con gli altri.
L’alterità fondante dell’io appare soprattutto nella riflessione degli esistenzialisti, che riconducono l’esperienza soggettiva al rapporto “dialogico” della compresenza e individuano il “sé” installato lontano da noi, nell’altro, nelle cose (Merleau-Ponty, Sartre, Lévinas, Buber, ecc.).
Insomma, proprio nel rapporto con l’altro (che consente relazione, confronto, differenziazione, ecc.) è la base della costituzione dell’io, che si dà sempre dal punto di vista altrui e, quindi, anche come identità plurima, molteplice, policentrica e poliarticolata. La coscienza individuale è perciò coscienza sociale, il suo centro è sempre fuori di sé, perché l’uomo è il soggetto di una mancanza che lo proietta al di fuori, verso l’altro, verso il mondo. L’io non si fa autonomamente, ma è fin balordaggine il prodotto dell’interrelazione sociale, e la realtà contestuale non ne è il contenitore esterno, ne è invece la sua dimensione costitutiva, quella che caratterizza la sua soggettività.
Così la relazione con l’altro è anteriore alla formazione dell’io, sia nel senso che l’io dipende dalla evoluzione psico-sociale dell’umanità, sia perché il suo punto di vista è scelto sempre in rapporto agli altri, presuppone la relazione con essi. Questo rapporto interindividuale consente a ciascun soggetto di dichiararsi “io”. L’io è tale in quanto alterità. La sua dimensione è quella dell’essere con altri e per altri.
Pirandello, arriva ad analoghe interpretazioni dell’essere umano, ma le declina in senso esclusivamente negativo, mostrandoci come l’individuo sia inevitabilmente definito e condizionato, in tutte le sue scelte, da “la ragione degli altri”, dalle loro opinioni (o meglio pregiudizi) e dal ruolo a cui lo costringono le convenzioni di una società che non permette a nessuno di decidere liberamente della propria esistenza.
I suoi personaggi, maschere senza volto, congelate nei ruoli stabiliti dalla società borghese, non hanno altra possibilità di ribellione che quella di portare alle estreme conseguenze, fino al paradosso logico-esistenziale, la costrizione alle regole, con un adeguamento immobilizzante alla maschera imposta; oppure quella di tentare invano di allontanarsi consapevolmente dal mondo, nella speranza di un impossibile rifugio dal “male di vivere”. Col risultato, in ambedue i casi, di chiudersi sempre nella prigione di una vita inautentica. Per questa sua tragica visione delle relazioni sociali avrebbe anch’egli senz’altro potuto sottoscrivere l’affermazione di Sartre “l’inferno sono gli altri”.
Ma gli altri sono anche “il prossimo”, i nostri “simili”, giacché la relazione di alterità si pone in generale tra enti simili. Benché il confronto con l’altro rechi con sé anche l’inquietudine dell’eventuale minaccia, siamo comunque ormai ben lontani dalla semplificante ideologia dell’homo homini lupus di hobbesiana memoria. Con Lévinas, parafrasando l’esortazione del vangelo, potremmo dire: “ama il prossimo tuo, questi è te stesso”.
E forse qui sta la salvezza che nonostante tutto anche Pirandello intravede nella miseria della condizione umana. Il prossimo ci chiama alla responsabilità continua, intranscendibile, per ogni nostra azione. Certo, l’io non ha scelto gli altri, esso si trova all’interno della loro molteplicità che lo costituisce come soggetto. Ma la relazione con l’altro è il presupposto di ogni vissuto. Nella presenza dell’altro è implicita la co-presenza dell’io: l’altro è un essere per me e l’io ha senso solo in quanto esiste socialmente. E proprio per questo non può abitare l’indifferenza, bensì la responsabilità, il luogo di un rapporto inevitabilmente etico. In questa socialità primaria, anteriore ad ogni organizzazione istituzionale, in cui la relazione con gli altri è la condizione dell’essere “io”, l’uomo si pone nella “fraternità”, in un rapporto di dipendenza reciproca e di reciproca responsabilità. Il riconoscimento dell’altro infatti è necessariamente basato sul rispetto. La relazione interumana, che fonda l’originaria possibilità dell’io e la possibilità stessa della propria interiorità, richiede dunque il riconoscimento dell’altro come fine in sé, come prescrive l’imperativo categorico kantiano.
Alla luce delle precedenti considerazioni possiamo capire come la stessa soggettività si strutturi come etica, ed etica ne risulti anche la struttura del reale in quanto costruzione comune di questa misera umanità, nello stesso tempo artefice e vittima delle proprie catene, a cui però il pessimismo politico-sociale del Nostro nega ogni possibilità di riscatto collettivo. Ma la relazione vincolante, così importante in Pirandello, è la questione del nostro tempo. Se riusciamo a cogliere la congiunzione io-altri che precede la costituzione di ciascuno di noi, possiamo forse individuarvi il fondamento etico di ciò che indissolubilmente ci lega: quella “forma morale dell’essere” già intravista da Rosmini.
Se questa “lettura” ha una qualche giustificazione si può comprendere come Pirandello superi il nichilismo di tanta parte della letteratura della nostra epoca, che non vede scampo di fronte alla dissoluzione di tutte le verità realizzata dalla filosofia da Nietzsche in poi. È lui stesso che, in una lettera ad un critico che lo accusava di nichilismo, rifiuta tale definizione affermando che la sua concezione del mondo “ritorna di necessità all’Assoluto”, alla ricerca di un “oltre” che, forse (diciamo noi), è proprio quel fondamento etico di responsabilità a cui ci stringe l’indissolubile relazione io-altri propria della vicenda umana.
Anche se non con la piena consapevolezza propria della riflessione più strettamente filosofica, Pirandello arriva così a conclusioni che ridonano senso all’esperienza apparentemente caotica della vita, alla possibilità di rintracciare le ragioni ultime che fondano il vivere comune.
Si spiega allora come i suoi ultimi lavori teatrali, dopo la distruzione dei falsi valori e protezioni dell’ideologia borghese operata nelle commedie precedenti, affrontino l’ardua ricerca di verità essenziali, che devono esserci al fondo dell’esistenza e della storia degli uomini, e che egli pensa di poter trovare, al di là dei valori propri di ogni socialità (che gli appaiono comunque falsi), in qualcosa di pre-politico che appartenga al fondo naturale dell’umanità, alla sua essenza universale.
Questa ricerca si risolve nella produzione di alcune mitologie (vicine agli archetipi junghiani) che, come tutti i miti, hanno una forte componente etica e cognitiva: il sentimento inviolabile della maternità ne La nuova colonia, la sacralità della vita in Lazzaro, la dimensione catartica dell’arte nell’incompiuto I giganti della montagna. È la scoperta di una realtà che precede ogni comportamento giudicativo, valutativo, conoscitivo e pratico del soggetto; dell’esperienza come evidenza oggettiva che coglie l’essenza prima di ogni sua determinazione categoriale.
Oltre la finzione di dover rappresentare la parte a cui tutti siamo obbligati, nella condizione di quella falsa convivenza che denominiamo società civile, si scopre dunque la necessità di rapportarsi e confrontarsi con l’alterità che ci costituisce, perché l’esistenza umana, come abbiamo visto, non è autonoma e autoreferenziale; il suo luogo è la relazione aperta che ci immette in un giuoco complesso di cui tutti siamo responsabili. Da questo non possiamo sfuggire. La vita è dopo tutto questo giuoco, che possiamo criticare e anche deridere, di cui possiamo mostrare esasperandoli fino al grottesco gli aspetti assurdi e paradossali, ipocriti e falsi, che la realizzano nelle forme della contemporaneità borghese, ma che pure in qualche modo siamo costretti a fare, riconoscendo e assumendo tutta la responsabilità della comune origine e necessità relazionale.
E allora forse, ci dice Pirandello, non ci resta che recuperare la naturalità dell’essere come i bambini “che fanno il giuoco e poi ci credono e lo vivono come vero”.
Pierangelo Scatena
Novembre 2014
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