Di Umberto Colombo.
Pirandello coglie i più disparati aspetti della persona in situazioni contraddittorie, da cui deriva quella irrazionalità che complica maggiormente il già complicato mistero dell’esistenza, osservato da un unico punto di vista non sufficiente a chiarirlo: la fenomenologia. Questo il punto di partenza.

Pirandello e la fede
nelle “Novelle per un anno”
dalla rivista OTTO/NOVECENTO,
anno XV, n. 6,
Novembre-dicembre 1991.
(…) A prima lettura, le Novelle possono apparire una raccolta di pagine sparse (anche se cronologicamente lo sono) che raccontano, attraverso cronache episodiche, interiorità fatte e disfatte (e tali, in genere, restano, quasi cristallizzate per sempre), in un arruffato intreccio di riflessioni (molte, anche dove erroneamente sembra ci sia soltanto un narrare divertito), connesse e sconnesse, tra pietà e ironia (buttata lì, magari, nella pittura di un atteggiamento esterno), tra inumanità e sofferenza portata, tra interrogativi senza riscontro e appelli a un indefinito mistero, tra congedi e ritorni. Dire combinazione dei contrari è troppo, se poi non è contraddizione. Dire caos soltanto è ugualmente ingiusto.
Diario, anche, di quella terra — la Sicilia, avvolta da una atmosfera di immutabilità — nel quale la finzione e l’invenzione, per quella libertà che concedono, più gravemente accentuano le realtà apparentemente o no a diverbio(…).
Tutti i personaggi, eppure, appaiono ‘veri’ (candidamente o crudamente): si incontrano e, forse di più, si scontrano per schiarirsi a vicenda, e ciascuno, mentre sembra proporre la strada maestra, indica un tratto di sentiero che si interseca con altri a formare la multiformità della geografia umana. Un labirinto? In quale via dovrebbero sfociare i sentieri?

Certo è da rilevare che le varie vite generalmente non diventano vita altrui. Detto in altro modo: la conversione, ovvero l’inversione di rotta, c’è, positiva (come nella Fede) o negava (come nella Madonnina), ma insolita, e improvvisa.
Tuttavia mi pare che la peregrinazione di Pirandello di casa in casa, di strada in strada, sia pure un viaggio alla ricerca del bene imprigionato e quasi soffocato dal male: piccole odissee, stralciate dallo sterminato mondo, per le quali stanno, segretamente a porto e a rapporto, lontane itache, intraviste, implicitamente riconosciute: si chiamino terraferma o, come è stato biblicamente proposto, “terra promessa”.
Se mi è concessa un’approssimazione, parlerei — a paradosso, ben inteso — di un cristianesimo anonimo perché acefalo: lontano da un ‘credo’; e, quindi, per l’assenza di una relazione specifica con Dio (il ‘là’ o l’‘Oltre’), l’uomo (il ‘qui’) rimane inappagato, sconvolto o sconcertato da sentimenti in groviglio, sotto il giogo di miserie: a volte, vita grottesca mescolata al funesto. Perché la spiegazione del male sta oltre il male, come la spiegazione della storia sta oltre la storia.
Da qui il problematismo soggettivo, che diventa frattura psicologica, vicina ad una specie di anarchia spirituale.
Ma Pirandello, puntando sulla singolarità quotidiana dell’uomo, pretende ad una sistematica universalità? Dall’intuizione del fatto vuole passare ad una teoria di vita? Con la molteplice esperienza dell’io, per quanto vasta e ad arcipelago, intende rappresentare il naufragio sociale dell’umanità? Siamo di fronte a ‘tipi’ o ad ‘individui’? L’isola è l’universo e quel tempo è il tempo? Pirandello dissolve o narra un mondo in dissoluzione? Fin dove parla Pirandello e fin dove i personaggi? Pirandello si pone in continuo colloquio con i contrastanti sentimenti di ciascuno? Lontanissimo dal voler scrivere per divertire, protesta anche? Solo volontà di denuncia o desiderio d’altro? Autobiografia di propri sentimenti scoperti in cronache vere o un caos di possibili inverati in invenzioni? C’è un Pirandello progressivo? Tra affermazioni e negazioni che cosa prevale?
Anch’io mi sono lasciato prendere da una serie di problemi, ai quali, dico subito, non intendo dare — perché incapace — risposte asciutte, quasi colpi di scure, che, mentre paiono risolvere, tagliano l’albero alla radice o lo disseccano, anche perché non m’arrogo di intendere una persona qualsiasi, Pirandello compreso che qualsiasi non è.
La fede, imparata nella prima età, è un ritorno ad un paese goduto e ora perduto, con un viaggio di nostalgia: momentaneo recupero di valori?
In Sogno di Natale c’è quel giorno da “rivivere, fors’anche per un minuto” (viene facile, con altre dimensioni interiori, ricordare Leopardi e Ungaretti) nell’”anima […] errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza”, dei quali gli spira “ancor dentro il sentimento”:
Era festa dovunque; in ogni chiesa, in ogni casa; intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori… E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andare frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: “Buon Natale!” e sparivo…
Già in Natale sul Reno:
Andai presso la finestra, e schiarendo con un dito il vetro appannato, mi misi a guardar fuori: nevicava, nevicava ancora, turbinosamente.
Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata….
I due ricordi rimangono sospesi da quei puntini a pausa per una ripresa che nega, ora, una arcadica pastorelleria.
Il “rivivere” si impone non tanto come viaggio tra “le vie deserte d’una grande città” di questo “mondo” che, “per uso”, festeggia ancora il Natale (mentre il festeggiato è escluso dalla festa) oppure come sosta “in una chiesa magnifica” in cui Gesù sarebbe pur contento di nascere “per la prima volta” — si avverta — “veramente” quella “notte”, bensì come ricerca di una casa — quale? — in cui albergare indefinitamente. È Gesù a parlare:
— Cerco un’anima in cui rivivere. Tu vedi ch’io son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare anche la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi di allettare il tuo stolto soffrire per il mondo… Cerco un’anima in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà.
Alle obiezioni di Pirandello — che dimostra di ben conoscere la teologia dell’‘oggi’ natalizio, ma che è ingombro, dentro, dell’amore di tante cose: e “casa” e “cari” e “sogni”, per cui non c’è spazio per Colui che bussa — c’è la risposta di Gesù: “Otterresti da me cento volte quel che perderai”: parafrasi di Mt. 19, 29:
Chiunque avrà lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.
Ma a Pirandello manca il coraggio di accettare questa ‘rinascita’ in sé:
— Ah! io non posso, Gesù… — feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona;
un rifiuto dettato dalla “fronte”:
È qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.
Pare la sintesi del Secretum: come Petrarca, Pirandello avverte — forse non ‘vede’ — , ma non osa fare il passo dell’uscio che dà sull’Oltre e, con tristezza, non lascia che l’Oltre passi l’uscio di casa sua. Vorrebbe che l’incarnazione di Cristo ripredichi vivo il regno divino quaggiù: ma il sogno è infranto dalla sua stessa dura realtà. Riconosce il suo io e chi è il Tutto sulle soglie, che, però, restano invalicate: ragione e fede rimangono due, sofferte.
La dolce malinconia dei ricordi si scioglie in fretta. Resta tuttavia — sempre nella memoria di un tempo da tempo passato — una di quelle sostanze che, comunque, hanno contribuito a costruire la propria esistenza, anche se relegata nel più buio angolo dell’anima, come è nell’Avemaria di Bobbio:
… lo studio della filosofia, a poco a poco, aveva avuto per conseguenza la perdita della fede, fervidissima un tempo, quando Bobbio era fanciullino e ogni mattina andava a messa con la mamma e ogni domenica si faceva la santa comunione nella chiesetta della Badiola al Carmine.
Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa. Bobbio anzi diceva che ciò che chiamiamo coscienza è paragonabile alla poca acqua che si vede nel collo d’un pozzo senza fondo. E intendeva forse significare con questo che, oltre i limiti della memoria, vi sono percezioni e azioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in altro tempo, con pensieri e affetti già da un lungo oblio oscurati in noi, cancellati, spenti; ma che al richiamo improvviso d’una sensazione, sia sapore, sia colore o suono, possono ancora dar prova di vita, mostrando ancor vivo in noi un altro essere insospettato.
Marco Saverio Bobbio, ben noto a Richieri non solo per la sua qualità di eccellente e scrupolosissimo notajo, ma anche e forse più per la gigantesca statura, che la tuba, tre menti e la pancia esorbitante rendevano spettacolosa; ormai senza fede e scettico, aveva tuttora dentro — e non lo sapeva — il fanciullo che ogni mattina andava a messa con la mamma e le due sorelline e ogni domenica si faceva la santa comunione nella chiesetta della Badiola al Carmine; e che forse tuttora, all’insaputa di lui, andando a letto con lui, per lui giungeva le manine e recitava le antiche preghiere, di cui Bobbio forse non ricordava più neanche le parole.
Sentimenti indefinibili che riportano al manzoniano “cuore umano”, indecifrabile proprio ancor più perché “guazzabuglio”. Solo che, mentre la filosofia non diventa preambolo alla maturazione dell’ingenuità fanciullesca della fede, questa si traveste di occasionale devozionalismo superstizioso a soccorso del mal di denti.
Il risorgere dell’avemaria, alla vista del “lanternino acceso, pendulo innanzi alla grata” del “tabernacolo della SS. Vergine delle Grazie”, a Bobbio fa “vergogna” per più motivi:
… riconoscere, prima di tutto, il fatto che lui, come una femminuccia, aveva potuto recitare l’avemaria, e che poi, veramente, dopo l’avemaria il mal di denti gli era passato, lo irritava e lo sconcertava; e poi il rimorso di riconoscere anche, nello stesso tempo, che si mostrava ingrato non credendo, non potendo credere, che si fosse liberato dal male per quella preghiera, ora che aveva ottenuto la grazia; e infine un segreto timore che, per questa ingratitudine, subito il male lo potesse riassalire:
“vergogna” di credere ciò che aveva creduto, senza che la filosofia lo soccorra a negare quel credere al di fuori di ogni intelligente ‘credo’.
Ma poi, in aggiunta, gli fa rabbia — e rabbia “feroce” — quel l’avemaria che, alla ripresa del mal di denti, gli esce “con invocazione non sua […], con voce non sua, con fervore non suo”. Di chi sono, allora? Erano state sue quelle parole. E ora, pur di non sentirle più, pur di non essere costretto a recitarle o istintivamente o ingenuamente, va a cacciarsi “furibondo” nello studio del dentista, pronto a farsi strappare tutti i denti. Come se possa, strappati i denti, cancellare ogni pretesto di recitare avemarie.
Ma non professava, Bobbio, che “niente […] poteva meglio disporre allo studio della filosofia, che il mal di denti” e che Schopenhauer ne doveva avere “più d’uno” guasto?
Al di là del grottesco, una domanda: la novella è parabola di ciò che si vorrebbe cancellare, e non si può?
Canta l’Epistola (è vezzo incollare un nomignolo, suggerito da un’occasione) perde la fede. Ma se
in generale, chi perde la fede è convinto, almeno nel primo momento, di aver fatto in cambio qualche guadagno; non foss’altro, quello della libertà di fare e dire certe cose che, prima, con la fede non riteneva compatibili;
e se quella rimossa non è per “violenza di appetiti terreni”,
>ma [per] sete d’anima che non riesca più a saziarsi nel calice dell’altare e nel fonte dell’acqua benedetta, difficilmente chi perde la fede è convinto d’aver guadagnato in cambio qualche cosa. Tutt’al più, lì per lì, non si lagna della perdita, in quanto riconosce d’aver perduto in fine una cosa che non aveva più per lui alcun valore.
Canta l’Epistola perde soltanto: si svuota persino della coscienza di sé: termina nella dimenticanza del proprio “essere”:
… non ricordarsi più neanche del proprio nome; vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante; senza più affetti, né desiderii. né memorie, né pensieri; senza più nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco: sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie di sole; udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un’infinita lontananza, la vanità d’ogni cosa e il tedio angoscioso della vita.
Nuvole e vento.
Retrocede: cerca la natura, trova il “filo d’erba”, in cui quasi si identifica con “blanda smemorata mestizia”: la fralezza di tutte le cose gli suscitano “una tenerissima pietà” per quel loro nascere e durare “alcun poco, senza sapere perché, in attesa del deperimento e della morte” (par di sentirvi l’eco della “vanità della vanità, tutto è vanità” di Qoelet 1, 2 o dell’erba germogliata al mattino e secca a sera del Salmo 89, 5-6; o anche di quel pensiero leopardiano sul giardino splendido e già con i segni del disfacimento).
Canta l’Epistola, chiuso in sé e agli altri, si schiude nelle cose, sperando ai scoprirvi un luogo d’amore per rispondere alla “sere d’anima”, che, invece, rimane inappagata (come in Di sera, un geranio).
— Uomo, — diceva Tommasino Unzio, lì sdrajato sull’erba, — lascia di volare. Perché vuoi volare? E quando hai volato?
Le domande sorgono dall’abbandono di una realtà trascendente, all’insù. La risposta in un orizzontalismo, alla fine è tragica. Il senza “nome” Canta l’Epistola, “stanco dell’inutile vita” ridotta alla sacralizzazione di un filo d’erba, accetta l’assurda “sfida” del tenente purché siano “gravissime” le condizioni del duello.
A che vivere se il cielo, vuoto, più nulla ha di metafisico e se la terra è uno “stupido” sciupìo che va verso la morte?
Umberto Colombo
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