Il motivo della (e)migrazione nelle novelle di Pirandello

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Di Hanna Serkowska 

Il motivo dell’emigrazione oltreoceano appare in alcune novelle (L’altro figlio, Nell’albergo è morto un tale, Lontano)  apparentemente posto sullo sfondo della vicenda quotidiana del personaggio, tuttavia non è ridotto a intelaiatura, ma reso problematico e determinante per le peripezie di primo piano.

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Pirandello e la emigrazione
Giovanni Fattori (1825 – 1908), Tramonto sul mare, 1890

Il motivo della (e)migrazione
nelle novelle di Pirandello

Da Academia.edu

“… per mare si soffre o non si soffre?”:
alcune osservazioni a margine
dell’emigrazione nelle novelle pirandelliane

 

Oggi, al tempo in cui l’animata discussione sugli immigrati (e nella letteratura, nello specifico sugli scrittori-migranti, coloro che dovevano portare solo le braccia, invece si sono portati dietro intere famiglie, e qualcuno anche i libri, diventando scrittore) tende a soppiantare o a marginalizzare la memoria dell’emigrazione storica degli italiani, quella avvenuta a cavallo tra l’800 e il ‘900, alcune novelle di Luigi Pirandello tornano particolarmente pertinenti. Non solo perché portano con sé il fastidioso ricordo che, come osservarono già a suo tempo Antonio Gramsci e Giuseppe Antonio Borgese, e a cui oggi fa eco Fulvio Pezzarossa, [1] dal tempo dell’unità sino al tardo ‘900 fosse un problema rimosso, tutt’al più pseudonimizzato, circuito con varie metafore.

[1] “La costruzione dello stato italiano è frutto di una doppia interdizione, che è servita ad annebbiare le dirette attestazioni delle forme di una cittadinanza di seconda classe, così che la voce silenziata di individui e ceti trascinati nella amara storia del dipatrio è stata coperta dal linguaggio enfatico del potere, riflesso in un discorso letterario attento a marginalizzare la rappresentazione dei fenomeni in atto”. Fulvio Pezzarosa, Altri modi di leggere il mondo in Leggere il testo e il mondo. Vent’anni di scritture della migrazione in Italia, a c. di Fulvio Pezzarosa e Ilaria Rossini, CLUEB, Bologna, 2011, pp. XI-XII. Cfr. anche Sebastiano Martelli, Letteratura delle migrazioni, in Annali della Storia d’Italia, 24, Migrazioni, a cura di Paola Corti, Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 725-742, richiamato dall’autore. 

Sono pertinenti anche perché, curiosamente, sul finire del ‘900, con molto ritardo, ma anche anticipando la nuova diaspora dei giovani italiani senza occupazione, hanno cominciato ad apparire racconti su quell’odissea storica che interessò milioni di italiani dopo l’Unità (Novecento di Alessandro Baricco, Vita di Melania Gaia Mazzucco, Quando Dio ballava il tango di Laura Pariani). [2] 

[2] Al recente lavoro di Gianni Paoletti, Vite ritrovate. Emigrazione e letteratura italiana di Otto e Novecento (Foligno, Editoriale Umbra, 2011), dobbiamo un elenco di opere scritte negli ultimi due decenni in cui il tema dell’emigrazione è affrontato come mai in passato: Marcella Olschki, Giovanna Giordano, Silvana Grasso, Mariolina Venezia, Elena Gianini Belotti, Stefania Aphel Barzini, Livio Garzanti, Rodolfo Di Biasio, Sergio Campailla, Alessandro Baricco, Manlio Cancogni, Gaetano Cappelli, Giuseppe Lupo, Enrico Franceschini, Mimmo Gangemi.

Non pare minimamente superato il quadro che ci consegnò Pirandello, attento a non incardinare rigidamente le sue storie in un determinato cronotopo, rendendole perciò universalmente e perennemente umane. Rileggiamo dunque quelle vecchie-nuove storie per scongiurare un’altra rimozione – di quel che ognuno ha sotto gli occhi ma che preferirebbe non sapere (la nuova diaspora italiana), dirottando l’attenzione verso gli effetti di un’Italia del presunto benessere, quale deve sembrare una terra di approdo di masse di disperati dei “terzi mondi”’ in cerca di libertà, giustizia, pane. Tacendo sulle odierne morti per mare…

L’universalità perpetua dei racconti pirandelliani è dovuta tra l’altro al fatto che alla prospettiva storica o sociologica, che permette di cogliere gli effetti dell’emigrazione per la società italiana di allora e a lungo dopo, egli preferisca la disamina di una ricaduta degli sviluppi migratori sulla vita dei singoli (personaggi). E mentre scandaglia la psicologia dell’individuo, lascia che nella mente del lettore si componga un quadro d’insieme. A vivere il dramma, i molti drammi dell’esodo, dello sradicamento, della follia [3] e della morte che la vita senza patria necessariamente comporta (vi ritorneremo tra poco) è sempre e comunque un singolo posto in situazioni inusitate, bizzarre, perfino paradossali.

[3] Per Giovanni Verga e Maria Messina l’emigrazione era equivalente alla pazzia.

Il motivo dell’emigrazione oltreoceano appare in alcune novelle (L’altro figlio, Nell’albergo è morto un tale, Lontano) [4] apparentemente posto sullo sfondo della vicenda quotidiana del personaggio, tuttavia non è ridotto a intelaiatura, ma reso problematico e determinante per le peripezie di primo piano.

[4] Tutte le citazioni provengono dall’edizione mondadoriana di Opere, con prefazione di Corrado Alvaro, del 1956.Lontano e L’altro figlio provengono dal I volume, Nell’albergo è morto un tale, dal II delle Opere.

Il realismo psicologico di cui sono pervase le novelle le distingue nettamente dai quadri stilizzati e idealizzanti, perciò derealizzati, dell’esodo italiano, tipici ad esempio di un classico come Sull’oceano di Edmondo De Amicis (1889). La sofferenza e la vergogna legate all’esperienza dell’espatrio (rese magistralmente da una straziante sospensione del tempo) si affiancano in Pirandello al sentimento di alienazione e dimenticanza dell’emigrato vissute da coloro i quali egli si lascia alle spalle, insieme alla patria. Tale prospettiva, precipuamente italiana, di chi si rifiuta di ipotizzare la meta dell’esodo e la vita nella nuova terra – Pirandello non dà alcuna immagine dell’America (e non ne ha alcuna idea preconcetta) [5] e neanche del viaggio per mare (chi poteva raccontarlo è morto, come “un tale” nell’albergo del racconto omonimo) – viene poi genialmente illuminata da una novella che racconta una storia per alcuni versi opposta, in realtà complementare alle altre due: Lontano.

[5] Sappiamo che Pirandello, solo in fin di vita, fece numerosi viaggi, tra cui in Francia e negli Stati Uniti, e che quei viaggi furono delle forme di fuga o esilio volontario dato il difficile clima politico in Italia in quegli anni.

Se Nell’albergo è morto un tale e L’altro figlio raccontano le conseguenze dell’emigrazione non per chi parte ma per chi resta, Lontano fa vedere il rovescio dell’emigrazione, l’elemento mancante e ignoto a chi resta, per così dire. Ci consegna, infatti, un quadretto di vita di uno sciagurato immigrante non italiano (norvegese) che approda in Sicilia. Approda controvoglia (come controvoglia partivano milioni di italiani), perché moribondo, malato di tifo e abbandonato a Porto Empedocle dai suoi compagni marinai che lo davano per spacciato. Malauguratamente Lars Cleen sopravvive e finisce prigioniero a vita di quella comunità, di quel paese, di quell’isola.

Lontano, in luogo di un quadro di miseria, pregiudizio, umiliazione di cui era fatta la vita dei profughi italiani oltreoceano, fa vedere quel che i parenti degli emigrati non potevano conoscere, ma di cui, nei confronti di un immigrato approdato nella loro terra, si facevano artefici: ostilità, pregiudizio, crudeltà. La storia di Lars è uno specchio deformante, teso agli italiani – già vittime storiche dell’espatrio – a loro volta chiusi e insensibili alla morte per mare di nuovi aspiranti immigrati. Uno specchio utile oggi, al cospetto degli stessi pregiudizi e dello stesso razzismo, riversati sugli emigranti italiani tempo fa. [6]

[6] Cfr. Francesco De Nicola, Gli scrittori italiani e l’emigrazione (Formia, Ghenomena, 2008), e dal côté sociologico, il classico ormai L’orda – quando gli albanesi eravamo noi di Gian Antonio Stella (Milano, Rizzoli, 2003).

Gli ingredienti di quell’affresco del dramma legato all’emigrazione, che Pirandello con appena poche pennellate ritrae, sono pochi e semplici, a partire dagli incalzanti punti di domanda. Ne lumeggiamo solo alcuni dei motivi più salienti: il mare, la morte, la patria. Il mare diventa una metonimia di quello spostamento che l’emigrazione è sempre stata – un viaggio senza la certezza del ritorno, o anzi con l’agghiacciante certezza del non ritorno. Quel mare mette in ansia la “povera vecchia signora in gramaglie che vuol sapere da tutti se per mare si soffre o non si soffre. Deve andare in America, e non ha viaggiato mai. È arrivata jersera, cadente, sorretta di qua da un figliuolo, di là da una figliuola, anch’essi in gramaglie” (Nell’albergo è morto una tale, p. 723).

Per andare in America deve attraversare il mare che le pare minaccioso e oscuro, e al di là l’aspetta l’ignoto. Per arrivare di là occorre spogliarsi di ogni familiarità, spezzare ogni legame (con la terra d’origine, con i parenti). Il mare incide uno sradicamento a vita. Quando il piroscafo da Genova porta la gente che rimpatria dalle Americhe, nell’albergo sale un uomo anziano, solo, dalle scarpe logore che rendono ancor più smaniosa la signora in lutto (“Deve aver viaggiato molto, davvero, quell’uomo; devono aver fatto davvero tanto e tanto cammino quelle scarpe: son due povere scarpacce enormi, sformate, scalcagnate, con gli elastici, ai due lati, slabbrati, crepati: chi sa quanta fatica, quali stenti, quanta stanchezza, per quante vie…”, Ivi., p. 725), e le fa presentire che non le sarà dato di sapere come si attraversa il mare (“L’uomo che ha passato l’Oceano è morto, in un letto d’albergo, la prima notte che ha toccato terra”, Ivi., p. 727) senza fare quell’esperienza di persona: “Ma già, come si può vedere da terra, se il mare è tranquillo?” (Ivi., p. 725).

Il mare – luogo del pericolo estremo che esige l’abbandono del familiare (luogo, persona) e fa abbracciare l’ignoto – è legato con la morte che necessariamente comporta: “Solo la vecchia signora, che voleva sapere se per mare non si soffre, rimane lì, innanzi all’uscio, nonostante la violenza che le fanno i due figliuoli; rimane lì a piangere atterrita per quell’uomo che è morto dopo aver passato l’Oceano, che anch’ella or ora dovrà passare” (Ivi., p. 727). L’emigrazione, una fatica inutile, dunque, se mai realizzabile – dato che si può morire subito dopo aver varcato il mare, o in viaggio – oltre a determinare l’abbandono della terra madre senza le braccia “per lavorare le nostre terre” (L’altro figlio, p. 928), in chi rimane provoca disperazione e povertà: “Le madri, a far serve, e le spose vanno a male” (Ivi., 928).

Se dunque il viaggio fu da sempre una metafora della vita (si vive in itinere, ci spostiamo tutto il tempo, lasciamo il noto e andiamo verso l’ignoto), [7] l’emigrazione, associata con la morte, deve esserne il contrario.

[7] Premettiamo tuttavia che per Mario Praz, come nota Gaia De Pascale, i due termini viaggio/morte erano intercambiabili. Lo stesso viaggiare era come morire. La studiosa cita da Penisola pentagonale, p. 8: “Per me, per esempio, ogni viaggio è come un memento mori. L’incombente partenza, il sospetto che la prima volta che io vedo una nuova città sia insieme l’ultima, danno alle mie impressioni il senso definitivo delle cose postreme. Il partire è una sorta di morire, l’han detto i canzonieri italiani del Cinquecento, prima ancora dei romanzi francesi: partir c’est mourir un peu”. Gaia de Pascale, Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo, Bollati Boringhieri, Milano, 2001, p. 9.

Nessuna meraviglia perché la condizione di chi vive senza patria e senza i propri cari non è più vita. L’emigrazione è uno spostamento involontario, ben distinto dal viaggio che presuppone il ritorno. È eloquente la tranquillità con cui si spostano i semplici viaggiatori, a differenza degli “assenti da sé”, ovvero gli emigranti e i loro cari:

Ci sono i vecchi clienti che chiamano per nome i camerieri, con la soddisfazione di non esser per essi come tutti gli altri, il numero della stanza che occupano: gente senza casa propria, gente che viaggia tutto l’anno, con la valigia sempre in mano, gente che sta bene ovunque, pronta a tutte le evenienze e sicura di sé.

In quasi tutti gli altri è un’impazienza smaniosa o un’aria smarrita o una costernazione accigliata. Non sono assenti dal loro paese, dalla loro casa; sono anche assenti da sé. Fuori dalle proprie abitudini, lontani dagli aspetti e dagli oggetti consueti, in cui giornalmente vedono e toccano la realtà solita e meschina della propria esistenza, ora non si ritrovano più; quasi non si conoscono più perché tutto è come arrestato in loro, e sospeso in un vuoto che non sanno come riempire, nel quale ciascuno teme possano da un istante all’altro avvistarglisi aspetti di cose sconosciute o sorgergli pensieri, desideri nuovi, da un nonnulla; strane curiosità che gli facciano vedere e toccare una realtà diversa, misteriosa, non soltanto attorno a lui, ma anche in lui stesso”. (Nell’albergo è morto un tale, p. 722).

Chi parte non ha occhi che per la terra che lascia. Ergo, la morte può segnare l’attraversamento della prima frontiera che rappresenta l’oceano, come infatti è successo al padre della protagonista di Lontano (“Quella povera orfana lasciatagli dal fratello, anche lui così fortunato che appena sbarcato in America vi era morto di febbre gialla”, p. 802), della quale si deve prendere cura lo zio, in seguito sposa dell’immigrato norvegese.

Mentre l’emigrazione (associata con il mare e la morte) evoca il pericolo estremo, la dolce terra abbandonata (“ma la cara patria! la cara patria!” – è un’interiezione di Pietro Mìlio di Lontano, 801), la terra d’origine, la casa, i parenti e la lingua – no. È invece motivo di nostalgia e di un acuto senso di perdita. Il confronto tra la vita in patria e quella da espatriato è pregiudicato. Lo dimostra in modo perentorio l’insistenza della vecchia Maragrazia, protagonista di L’altro figlio, con la quale ella cerca di dettare e far recapitare lettere ai figli emigrati in America. Si fa aiutare da una sarta rurale, Ninfarosa che, facendo credere alla vecchia signora di scrivere davvero quanto l’altra le dettava, non ha mai scritto che sgorbi, scarabocchi e ghirigori.

Cari figli, la povera vecchia mamma vostra vi promette e giura… così, vi promette e giura davanti a Dio che, se voi ritornate a Farnia, vi cederà in vita il suo casalino.
Ninfarosa scoppiò a ridere:
– Pure il casalino? Ma che volete che se ne facciano, se già sono ricchi, di quei quattro muri di creta e canne che crollano a soffiarci su?
– E tu scrivi, – ripeté la vecchia, – Valgono più quattro pietruzze in patria, che tutto un regno fuorivia”. (L’altro figlio, p. 931)

Lontano, dei tre racconti, narra in modo più esacerbato l’esperienza di esilio, seppur dalla visuale di un immigrato, sempre controvoglia, in Italia. Il racconto è punteggiato come da un ritornello dai lamenti del giovane spaesato. Una ripetizione certo non casuale, né peregrina:

Ma lì, ora? possibile? Questo paesello di mare, in Sicilia, così lontano lontano, era dunque la meta segnata dalla sorte alla sua vita? (p. 817)
Poi riapriva gli occhi, e allora, non già quello che aveva veduto ricordando e fantasticando gli sembrava un sogno, ma quel mare lì, quel cielo, quel vaporetto, e la sua presente vita. (p. 824)
Ormai, era detto: lì, in quel borgo, lì, su quel guscio e per quel mare, tutta la vita. (p. 825)

Deciso a rimanere per non apparire ingrato verso chi gli aveva prestato cura e accolto moribondo a casa sua, ma certamente non innamorato della nipote del suo ospite, e del tutto estraneo al luogo in cui è capitato, si sente esiliato, anche molto tempo dopo l’approdo:

Provava un senso di opprimente angustia, lì, su quel guscio di noce, in quel mare chiuso, e anche… sì, anche la luna gli pareva più piccola, come se egli la guardasse dalla lontananza di quel suo esilio, mentr’ella appariva grande là, su l’oceano, di tra le sartie dell’Hammerfest donde qualcuno dei suoi compagni forse in quel punto la guardava. Lì egli con tutto il cuore era vicino. (p. 824)

Curiosamente il forestiero non si lamenta per essere oggetto di scherno volgare dei ragazzacci del paese. Al vedersi trattato e considerato quasi come uno stupido, teme di istupidirsi davvero; gli dispiace di non aver ancora imparato bene la loro lingua, motivo per cui viene canzonato. Si costringe tuttavia a sorridere dello stupido dileggio. Se lo prendevano in giro per come pronunciava le parole italiane, “Mah! Pazienza. L’avrebbero smesso, col tempo” (p. 825). Oltre a sentirsi solo (“I suoi nuovi compagni non lo amavano, non lo comprendevano, né volevano comprenderlo”, p. 824), lo assale una profonda tristezza e uno smanioso avvilimento. È la nostalgia di casa, della sua dolce patria, che più dell’esclusione dal luogo di arrivo, gli provoca strazio.

La moglie intanto, non appena mette al mondo il figlio, si disinteressa del marito, [8] e anche il piccolo assomiglia solo alla madre, potenziando nel padre il senso di estraneità ed esclusione:

Il Cleen baciò in fronte, commosso, la moglie; riaccostò gli scuri e uscì dalla camera in punta di piedi. Appena solo, si premette le mani sul volto e soffocò il pianto irrompente.
Che sperava? Un segno, almeno un segno in quell’esseruccio, nel colore degli occhi, nella prima peluria del capo, che lo palesasse suo, straniero anche lui, e che gli richiamasse il suo paese lontano. Che sperava? Quand’anche, quand’anche, non sarebbe forse cresciuto lì, come tutti gli altri ragazzi del paese, sotto quel sole cocente, con quelle abitudini di vita, alle quali egli si sentiva estraneo, allevato quasi soltanto dalla madre e perciò con gli stessi pensieri, con gli stessi sentimenti di lei? Che sperava? Straniero, straniero anche per suo figlio. (p. 836)

[8] “… aveva già trovato il suo posto nella vita: aveva la sua casetta, il marito; tra breve avrebbe avuto anche il figlio desiderato; e non pensava che lui, straniero, era sul principio di quella sua nuova esistenza e aspettava che ella gli tendesse la mano per guidarlo. Noncurante, o ignara, lei lo lasciava lì, alla soglia, escluso, smarrito” (p. 835).

Neanche la progenie (la seconda generazione, diremmo oggi) può aiutare l’espatriato a mettere radici, se l’insensibilità di chi gli sta intorno, della sposa, è incontrovertibile. Venerina ora gli preferirebbe un marito del luogo: “Un omaccione tanto, che se ne sta in casa come un ragazzino, Dio benedetto! Impara un po’ a vivere come i nostri uomini: più fuori che dentro. Non posso vederti così. Mi fai rabbia e pena” (p. 837). Lars, disperato, vorrebbe fuggire, “partire, fuggire coi suoi compagni, parlare di nuovo la sua lingua, sentirsi in patria, lì, sul suo piroscafo – eccolo! grande! bello! – fuggire da quell’esilio, da quella morte! (p. 841), ma quando di nuovo, mesi dopo, il piroscafo Hammerfest attracca nel porto, ed egli si butta nelle braccia del cognato, lo stringe quasi a soffocarlo e scoppia in un pianto dirotto. Ci vuole poco per ravvedersi. Ora è l’onta di tornare in patria a trattenerlo, inetto e con l’aria di sconfitto. Resta e vede il piroscafo allontanarsi nel mare sconfinato, “e allontanarsi con lui la sua patria, la sua anima, la sua vita” (p. 841). “Patria-anima-vita” dette tutte d’un fiato perché parte di un tutt’uno. Sinonimi.

I tre racconti offrono infatti una fusione di due tipi, in cui schematicamente si usa distinguere i racconti sull’espatrio, dividendo quelli sul tema dell’emigrazione, al cui centro ci sarebbe l’esperienza dell’abbandono della terra madre e di chi lasciamo alla spalle, da quelli sul tema dell’immigrazione con enfasi sull’insediamento, sullo stabilirsi e permanere in terra straniera. L’ultimo elemento è presente in Lontano, ma non porta all’effettivo inserimento e integrazione. Lars da emigrato non diventa immigrato. La patria resta sempre l’unico dolce pensiero di chi si sposta, il solo riferimento, poiché chi lascia la sua terra diventa come Enea.

Fuggiasco e ramingo perenne, infranto dalla nostalgia della terra abbandonata, un albero che non cresce. Anche se “lì ormai e per sempre la sorte lo aveva trapiantato”, avrà “scarse e non ben ferme le radici nella terra” (Lontano, 825).

Per mare si soffre o non si soffre, dunque? Pirandello ci dà una splendida lezione di patriottismo scevro dalle ipoteche storiche e non ancor appropriato dai politici. E un’altra – di auspicate ospitalità e apertura nei confronti di chi ha avuto in sorte (sic!) di capitare immigrante sulle nostre sponde.

Una parola per chiudere. Nelle sue strazianti storie lo scrittore ci invita poi a riflettere sulle cause del dramma umano che era (ed è) l’emigrazione, riconducendolo direttamente al ’48 e poi al ’60, ovvero i moti risorgimentali e l’unità. Ne è la conferma l’insofferenza del vecchio Pietro Mìlio verso la propria ingenuità da giovane: “Perché, sissignori, bestia non era soltanto da jeri – come egli stesso soleva dire – bestione era sempre stato: aveva combattuto per questa cara patria, e s’era rovinato” (Lontano, 801). E ancora, poco dopo, come se detto una volta sola non bastasse:

Una sola, veramente, era stata la bestialità di don Paranza: quella di aver avuto vent’anni, al Quarantotto. Se ne avesse avuti dieci o cinquanta, non si sarebbe rovinato. Colpa involontaria, dunque. Nel bel meglio degli affari, compromesso nelle congiure politiche, aveva dovuto esulare a Malta. La bestialità d’averne ancora trentadue al

Sessanta era stata, si sa! conseguenza naturale della prima. Già a Malta, a La Valletta, in quei dodici anni, s’era fatto un po’ di largo, ajutato dagli altri fuorusciti. Ma il Sessanta! Ci pensava e fremeva ancora. A Milazzo, una palla in petto: e di quel regalo d’un soldato borbonico misericordioso non aveva saputo approfittare: – era rimasto vivo! (p. 801)

Rovinato, perché oggi quel viceconsole della Scandinavia divide la misera casa con gli scarafaggi, ha solo tre slabbrate camice e per sopravvivere e dare da mangiare alla nipote va a pescare ogni giorno. Chi ha partecipato a quegli eventi storici da patriota pare quindi a se stesso, senza mezze parole, uno sciocco bestione. Anche ne L’altro figlio il legame tra l’emigrazione e l’immediato pregresso storico è messo in evidenza. Maragrazia, che come un re Lear abbandonato dai figli va in giro piangendo e mendicando, inizia a raccontare al giovane medico che deve scrivere una lettera che lei gli detterà, una storia che risale ai tempi dello sbarco dei Mille e di Garibaldi (il cui nome, storpiato, suona “Canebardo”), che diede ordine di aprire tutte le carceri di tutti i paesi, liberando “i peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena” (p. 941). Tra gli altri ce n’era uno, il più feroce, racconta la vecchia ancora inorridita, Cola Camizzi, capobrigante, che ammazzava chiunque per puro piacere. La scena del gioco a bocce con le teste umane, mozzate, nere, piene di terra, afferrate per i capelli (immortalata nel Kaos dei fratelli Taviani) completa il quadro. Una di quelle teste era del marito di Maragrazia. Di tanto orrore, il lettore capisce, la disgrazia presente (quella descritta da Pirandello: di emigrazione e abbandono) è il frutto nefasto.

Hanna Serkowska
University of Warsaw
Faculty Member

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