Di Sergio Micheli .
La filmografia sull’opera di Pirandello appare subito abbastanza densa: sebbene (si deve dire) il passaggio dai testi già pronti al film, sia di teatro sia di narrativa, non abbia mai dato, in genere, risultati soddisfacenti.
Pirandello e la cinematograficità delle sue opere
da Archivio Siciliano del Cinema
Affrontare oggi un argomento non nuovo e nemmeno trascurato come quello sui rapporti tra Luigi Pirandello e il cinema, può sembrare, a prima vista, inutile in considerazione della copiosa letteratura in materia apparsa via via anche in questi ultimi anni. Chiunque si sia dedicato ad approfondire momenti di storia del cinema italiano non ha potuto non soffermarsi, sebbene incidentalmente, su quell’aspetto della produzione che riguarda la connessione con il teatro e con la narrativa in genere con conseguenti riferimenti all’opera di Pirandello.
Se si considerano poi gli atti dei convegni sull’argomento, gli interventi periodici per particolari ricorrenze, le citazioni occasionali, oltre a qualche stravagante contributo che capita di leggere ogni tanto perfino in corposi volumi o sulle pagine di giornali e riviste, ancora di più può apparire superfluo ogni ulteriore impegno che tenti di aggiungere, su questo terreno di indagine, qualcosa di nuovo e di originale.
In effetti, fino a che da questa grande e stimolante riserva di idee non riescono a generarsi, in trasposizioni per lo schermo, film che si facciano dignitosi se non ragguardevoli esempi di elaborazione autonome e specifiche, il discorso in merito a questo rapporto, appunto Pirandello-cinema, può anche momentaneamente e benevolmente sospendersi. Ma dopo che Paolo e Vittorio Taviani hanno realizzato un’opera meritevole di particolare e profonda attenzione come Kàos (1984) dove il Pirandello delle novelle contadine si ripresenta, in tutta la sua pregnante significazione e, fra l’altro, interpretato con la sensibilità strettamente connessa alle condizioni del presente.
È perciò sull’analisi di Kàos, quindi sul rapporto tra testo e film che si potranno formulare ulteriori considerazioni sulle attitudini che offre la matrice pirandelliana per farsi fonte di ispirazione e materia coinvolgente per l’arte di oggi.
Comunque, prima di affrontare il tema specifico, piuttosto che introdurre il cinema dei fratelli Taviani, pare più proficuo ritessere alcuni principi di fondo che riguardano non tanto gli incontri tra Pirandello e la settima arte quanto la capacità evocativa, insita nel testo, tendente a tradursi in immagini vive. Conviene allora ricollegare intanto quei nessi che riguardano l’argomento nella sua globalità.
La “cinematograficità”, quindi stile e struttura narrativa, nell’opera di Luigi Pirandello
La filmografia sull’opera di Pirandello appare subito abbastanza densa: sebbene (si deve dire) il passaggio dai testi già pronti al film, sia di teatro sia di narrativa, non abbia mai dato, in genere, risultati soddisfacenti. Se si considerano i contatti che lo scrittore e commediografo ebbe con il cinema e che vanno da alcuni suoi scritti critici relativi alla collaborazione per certe realizzazioni di film adattati da alcuni suoi lavori, fino alla stesura di vere e proprie sceneggiature originali, l’argomento non può non costituire, in questo ambito, motivo stimolante per essere quantomeno brevemente riordinato.
D’altra parte non appare nemmeno importante, nell’affrontare in tema del genere, addentrarci in un tipo di ricerca, per esempio filologico-storica, del resto già portata avanti da altri.
Pare invece più opportuno ricercare, per quanto possibile il peso e l’influenza che questa vasta miniera di idee riesce ancora ad esercitare nel cinema di oggi, se non altro come approccio più genericamente culturale. Verrebbe fatto, intanto, di porci una domanda: quale sia la forma letteraria più congeniale per essere trasposta in cinema: se il romanzo o il dramma.
Per avere una risposta plausibile potremmo affidarci semplicemente ad un procedimento deduttivo prendendo in considerazione quelle opere di Pirandello che, fino ad oggi, sono state adattate per lo schermo. L’indagine potrebbe basarsi, empiricamente, sugli esiti di una prassi di tipo funzionalistico classificando, mediante gli indici di «accoglibilità» e di «successo» (critica e pubblico), le varie edizioni cinematografiche pirandelliane, per poi tirare le somme.
L’adozione di questo metodo (tuttavia da applicare secondo canoni scientifici come esige, per esempio, la procedura per la rilevazione nell’ambito dell’approccio sociologico di tipo descrittivo) non può soddisfare pienamente proprio per rivelarsi pretestuosa e schematica in quanto dramma e romanzo, in tale caso, verrebbero assunti tout court come dati convenzionali e paradigmatici del tutto fuorvianti.
Un altro criterio di ricerca, anche questo tuttavia assai limitativo, potrebbe dirigersi verso un lavoro di analisi e di studio da eseguire sulle sceneggiature, ovvero sui testi letterari precipuamente appartenenti al cinema, scritti da Pirandello stesso. Se però ritenessimo categoricamente valida la tesi secondo cui solo da una sceneggiatura, come forma autonoma di scrittura, è possibile giungere alla realizzazione del film e, pertanto, se solamente essa, come stesura in forma visiva di un testo adattato o no da precedenti opere letterarie, dovesse ritenersi materiale di partenza per affrontare il rapporto esistente tra scrittore e cinema, nel caso di Pirandello il discorso risulterebbe indubbiamente parziale e, più che altro, mistificatorio.
Tutto sommato I’intenzione volta a determinare a quale forma letteraria attinga di più il cinema (se dal dramma o dal romanzo) implicherebbe una serie di considerazioni che ci porterebbero troppo lontano. Perciò non è questo che ci proponiamo. Tuttavia possiamo ritenere che se fino ad ora il romanzo si è adattato meglio, rispetto al dramma, alla nuova forma di approccio con il pubblico, ciò è senz’altro dovuto alle possibilità oggettive del prodotto filmico che, appena nato, ha preferito allinearsi subito ad una formula narrativa (quella, appunto del romanzo) ormai generalizzata ed acquisita dal lettore (che diventa spettatore): quella formula narrativa che, del resto, trovava nella libertà di movimento, tipica delle figure sullo schermo, una migliore e più immediata esemplificazione. (Il cosiddetto teatro fotografato, per esempio, mediante il quale furono messe in evidenza le prime meraviglie del cinema e che sottostava esclusivamente alle regole dell’investimento economico, ebbe, come si sa, brevissima vita).
Fatta questa premessa il discorso di Pirandello e il cinema si dovrà allora spostare necessariamente su un altro piano: appunto su quello che riguarderà la rilevazione di sintomi cinematografici presenti nella tessitura e nella struttura delle opere dello scrittore.
«Se nel 1599 fosse esistito il cinema – dichiarò Laurence Olivier a proposito del suo film Enrico V – Shakespeare sarebbe stato il più grande produttore di film del suo tempo: si può dire che egli scrivesse sceneggiature quando spezzettava l’azione in una serie di piccoli quadri, ed anticipava così la tecnica dello schermo, impaziente com’era, e come si dimostra in molti drammi, delle limitazioni paralizzanti del palcoscenico. Il coro che apre l’Enrico V quasi invita alla creazione del film: “non può questa stretta arena contenere i campi immensi di Francia…; con ali ai piedi nuovi Mercuri inglesi… vi porteranno sicuri di qua alla Francia; e di là, placato il mare con incanti, vi ricondurranno in patria”. Scenari vasti, velocità. fulmineo cambiar di scena: questo è I’invito al cinematografo». (Del resto la stessa intuizione avvertì Stanislavskij quando, guardando benevolmente al cinema, vedeva in esso la soluzione ai tanti problemi maturati durante I’esperienza teatrale).
Ma siamo già di fronte ad una questione di struttura del testo teatrale (quel tipo di struttura di carattere cinematografico alla quale abbiamo accennato) che diventa addirittura una costante nel dramma elisabettiano: dramma in cui ci si giova «essenzialmente di una massima libertà ed articolazione della vicenda cui nessuna programmatica rigidezza formale e preconcetta saprebbe far da freno».
Come sappiamo è opinione diffusa nell’ambito della critica e dell’estetica nel cinema che all’opera di Pirandello manchi questa tipicità, questa ambivalenza che possa stimolare e facilitare in qualche modo la versione da un genere all’altro: nella fattispecie dal teatro al cinema. «Il teatro di Pirandello generalmente e Vestire gli ignudi in particolare, ha scritto Umberto Barbaro, sono materia riluttante aspramente ad ogni trasposizione cinematografica. Non, come è stato scritto e ripetuto, perché i drammi dello scrittore siciliano puntualizzino in momenti salienti, di soluzione a dialogo, una serie di precedenti azioni (che è, da sempre, la tecnica classica del teatro), ma perché là, ove la costruzione è tutto, qualsiasi variazione e alterazione non può che far svanire I’unico valore. Così che, mentre una buona esecuzione teatrale giova enormemente ai drammi pirandelliani (in genere non troppo gradevoli alla lettura) una trasposizione cinematografica rischia costantemente di ridursi ad una contaminazione o sopraffazione».
Evidentemente Umberto Barbaro fonda la sua opinione sull’aspetto strutturale che rappresenterebbe, appunto, I’elemento sostanziale e termine di valore prioritario. Fra i testi pirandelliani per il teatro si porrebbe, tuttavia, come caso a parte il più maturo Sei personaggi dove appare chiara «un’aderenza alla realtà delle convenzioni teatrali e delle unità aristoteliche anzitutto, mentre si ispira a moltiplicare le azioni, i luoghi, i tempi; non solo, ma ad uomini vivi in carne ed ossa si contrappongono personaggi abbozzati, fantomatici, che molto guadagnerebbero ad essere ombre».
Pare perciò evidente, parafrasando sempre Barbaro, quanto Pirandello aspirasse alla riduzione del suo capolavoro per il quale aveva persino in animo di interpretare la parte dell’autore. È quindi attraverso una dimensione nuova del personaggio filtrata attraverso la visuale cinematografica di esso che sembra si delinei una concezione più avanzata della poetica pirandelliana.
Un discorso questo che ci riporta, più legittimamente di prima a Stanislavskij ed alla sua scuola; vale a dire al problema della recitazione dell’attore su cui Vsevolod Pudovkin ebbe ad affermare: «Quanto più ci si accosta al semplice comportamento reale dell’uomo nella vita, tanto più ci si avvicina alle esigenze filmiche, tanto più si fonde l’assoluta realtà dell’ambiente in cui l’attore cinematografico parla e agisce (…). Beninteso, anche nel cinema, come nel teatro e in ogni altra arte, la rappresentazione superficiale e naturalistica della vita è assolutamente inadeguata (…). In altri termini, l’artista deve spesso presentare un fenomeno reale in modo più espressivo di quanto appaia nella vita concreta. L’artista non’ può trascurare in nessun caso questa espressività accentuata e il cinema possiede in questo ambito particolari caratteristiche che lo differenziano dal teatro». Cosicché, «se molti aspetti dell’esperienza teatrale, essendo collegati con le esigenze tecniche della scena, sono risultati inapplicabili nel cinema, che ha le proprie convenzioni specificamente filmiche, esiste tuttavia un settore che si può dire comune sia al teatro che al cinema. Intendo riferirmi al lavoro dell’attore».
Sarà perciò importante, tenendo presente la modernità (per esempio rispetto alle teorie crociane) della concezione dell’arte pirandelliana in cui prevale una natura che punta su orditure di carattere psicologico e riflessivo, proseguire l’indagine, oltre che nei confronti dell’ambiente nel suo divenire, proprio in un lavoro di individuazione del personaggio. Quel personaggio, dopotutto con risvolti tipicamente umoristici (non a caso contemporaneo ad altri, assai famosi e popolari, del cinema comico) il quale, protagonista ed emblema di una precisa condizione, avanza e suggerisce sommessamente, al di fuori di ogni enunciazione precipuamente filosofica, l’idea di una nuova concezione del mondo.
L’umorismo pirandelliano riflesso nel personaggio. Analogie con il cinema comico.
In un momento in cui il verismo, che del resto aveva avuto «meno ammiratori di quanti ne conti oggi» (Procacci: Storia degli italiani, Laterza, 1972 pag. 426), cedeva il passo di fronte alla chiassosa avanzata dei romanzi e del teatro dannunziani, più vicini ai gusti e alle esigenze intellettualistiche della borghesia di allora, si può dire, a buona ragione, che il genere umoristico introdotto da Pirandello nel teatro (e anche nei romanzi: v. Il fu Mattia Pascal) determinò un passo avanti nell’ambito della poetica verista. È chiaro che la predisposizione umoristica del moralismo pirandelliano nata, come riferisce il Lugnani, dalla ribellione a dalla volontà di dire il disgusto di quella società corrotta (l’ambiente della sua infanzia siciliana), vecchia nelle sue strutture e decadente anche nelle forze giovani, non va oltre i confini dell’ideologia borghese anche se tenta una forma di opposizione a certi schemi senza però svincolarsene.
Ma è pur vero, d’altra parte, (senza voler approfondire il significato di umorismo) che, così come suona l’affermazione di Marx (riferita alla lettura di Luciano di Samosata), secondo cui «ridendo l’umanità si distacca dal proprio passato», si possa dedurre, a proposito dell’umorismo in Pirandello, che sussista una tendenza diretta a rivelare e a stabilire una dicotomia consistente in una connotazione al passato e in un’altra, apposta ad essa, proiettata verso il futuro.
Se poi, almeno sul piano teorico, si tiene presente quel documento di poetica pirandelliana che è il Saggio sull’umorismo e che secondo il Flora rappresenta «un preludio ricco di momenti logici e di una sensibilità acutissimo»; quindi se si considera la polemica aperta con Benedetto Croce nonché la dissertazione sulla giustificazione di un’arte intellettiva piuttosto che intuitiva: tutto ciò ci consente di affrontare il discorso in merito all’umorismo pirandelliano su presupposti stimolanti non privi di interesse e di fermento.
Così, nonostante il fatto che Pirandello riesca a superare la concezione crociana opponendo, nella fase di riflessione sul riso (una volta esaurito il comico), il momento psicologico al momento lirico e fantastico, tuttavia egli finisce per trovarsi su posizioni arretrate rispetto, ad esempio, a molto di quel cinema che faceva ridere la gente: quel cinema che, come riporta Glauco Viazzi, non provocava quel riso «che distrae dalla vita per pochi minuti, ma un riso diverso, capace, secondo la precisa espressione di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, di illuminare la realtà». Il riferimento riguarda Charlie Chaplin, il più grande poeta dello schermo il quale scriveva nel ’30 in un articolo intitolato «Come far ridere la gente», che in verità voleva «essere non tanto un comico quanto un grande tragico».
In effetti la struttura mediante la quale si articola la comedie humaine pirandelliana (caratterizzata da un primo momento che appare tipicamente comico, o momento inferiore, all’umorismo vero e proprio, che si configura come momento tragico), quindi il meccanismo che determina il passaggio dalla fase psicologica a quella riflessiva; tutto ciò ha qualcosa in comune con l’arte di Charlot. La cui «tristezza illuminatrice» non si identifica nella condizione senza speranza tipica del personaggio pirandelliano che critica senza agire, ma piuttosto si manifesta per «smascherare il mondo circostante e la sua commedia e sentire quanto poco luminosa sia la realtà del capitalismo che schiaccia l’omino».
Sotto questo aspetto il discorso rimane più lontano dalla poetica di Pirandello i cui personaggi, con il perdurare di una precisa realtà esterna, si trovano nella condizione di essere soli, «incompresi, rifiutati perennemente e tutti senza autore, alienati in una dimensione umana che la piccola umanità degli altri non può abbracciare». Evidentemente il mondo dei personaggi di Pirandello, stretto in una morsa ciclica, pare delinearsi, fatalmente, in un ambito chiuso, isolato; quello di Charlot è, invece, aperto alla speranza.
Sergio Micheli
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