Di Luisella Battaglia.
Pirandello nella sua opera ha saputo affrontare non solo i temi esistenziali innescati dal rapporto problematico tra scienza ed etica, ma ha precorso i dilemmi morali posti oggi alla nostra coscienza dalle sfide delle scienze della vita: la medicina, la biologia, l’ecologia, l’etologia.
Pirandello e la bioetica
Etica e narrazione sembrano, a prima vista, due termini antitetici: l’una evoca il rigore del ragionamento, l’altra la libertà dell’invenzione, talora la fantasia priva di regole. In realtà, l’antinomia apparente ha bisogno di essere ripensata. Quando parliamo di etica dovremmo presupporre almeno due modelli: il primo guarda all’etica come a una scienza ‘more geometrico demonstrata’, secondo la grande tradizione che si ispira al progetto cartesiano di una razionalità dispiegata nel campo pratico, capace di dimostrare la ‘verità’ di principi universali; il secondo guarda all’etica come a un campo argomentativo fondato sulla ‘ragionevolezza – da intendersi come ragione non inferiore o più debole, ma più fine e flessibile – capace di trovare buone ragioni in grado di giustificare la ‘validità’ di determinate scelte.
Per questo secondo modello la narrazione è importante, anzi fondamentale.
“Il racconto mai eticamente neutro – ci ricorda Paul Ricoeur – è il primo laboratorio del giudizio morale”. [1]
[1] P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 231
Solo una storia può rivelare il genuino significato di un’azione: conoscere l’intera vicenda, la trama complessiva, ci consente di allargare la nostra prospettiva, di evitare semplificazioni e fraintendimenti. In effetti, quando formuliamo un giudizio morale ci occupiamo di azioni il cui significato può essere compreso solo entro un contesto. Ogni azione è, a suo modo, un testo da leggere e da interpretare; per intenderne il senso occorre considerare i molti elementi che la compongono: l’oggetto che la costituisce, le intenzioni che la animano, le circostanze in cui si svolge, i fini cui tende. Calare un gesto dentro una storia ci porta a interrogarci non solo sulle motivazioni consapevoli e intenzionali di un certo modo di agire ma anche, e soprattutto, sulle componenti emotive, sulle dinamiche affettive, sui conflitti di valori, sui rapporti sociali in cui si inscrive.
La narrazione consente di accostarsi alla vita di un altro con un interesse non superficiale ma attivando la comprensione e la partecipazione: ci insegna a considerarlo come un soggetto simile a noi, dotato dei sentimenti che anche noi proviamo, rendendo tuttavia al tempo stesso visibili i limiti che si incontrano per accedere alla conoscenza del suo mondo.
Il romanzo ci appare – secondo una suggestione di Milan Kundera – come “un territorio in cui nessuno possiede la verità, né Anna né Karenin, ma in cui tutti hanno diritto di essere capiti, Karenin non meno di Anna”. [2]
[2] M. Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 1986 p. 220
Attraverso la narrazione siamo in grado di penetrare in mondi interiori diversi dal nostro, di seguire una vita in tutte le sue vicissitudini, di interessarci all’altrui destino ‘come se’ fosse il nostro.
Per acquisire tale sensibilità è fondamentale l’immaginazione, quella capacità che ci consente di immedesimarci in un altro, di capire la sua storia, di intendere le sue emozioni, i suoi desideri, le sue speranze, sollevandoci di fatto dalle circostanze in cui siamo immersi e che limitano il nostro orizzonte – il che non comporta tuttavia in alcun modo una mancanza di senso critico.
L’immaginazione narrativa – Martha Nussbaum ha scritto pagine assai penetranti al riguardo – è uno strumento necessario per riflettere su realtà differenti e abituarci a guardare l’altro in maniera empatica, per avvicinarci a lui cercando di comprendere il suo mondo interiore pur restando noi stessi, anzi costruendo meglio la nostra identità.
Viene così alimentata quella che i classici chiamavano la ‘curiositas’, grazie alla quale ogni esperienza, ogni persona, ogni stagione della vita divengono una possibile fonte di apprendimento. Nello stesso tempo si accresce la capacità di interpretare il pluralismo della società in cui viviamo e di entrare in sintonia colle idee altrui, con costumi, pratiche, abitudini differenti dai nostri. [3]
[3] M. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo e l’educazione contemporanea, Carocci, Roma 1999. V. il cap.3, L’immaginazione narrativa
La valorizzazione dell’arte narrativa si spiega con un esplicito richiamo all’insegnamento aristotelico che la considera un’attività teoretica più elevata rispetto alla storia la quale ci mostra gli eventi realmente accaduti – il ‘vero’ -, mentre l’opera narrativa ci mostra quali fatti possano avvenire – il ‘verosimile’. Mentre dunque la storia descrive ciò che è avvenuto, la letteratura mette in scena il possibile, sollecitando chi legge a interrogarsi su se stesso, a mettersi nei panni dei diversi personaggi, a riflettere sulle loro vicende. In tal modo si innesca una fervida attività immaginativa che riveste grande importanza per il pensiero etico.
L’immaginazione e l’arte di narrare adempiono – è la tesi della Nussbaum – ad una duplice funzione: da un lato, possono aiutarci a ritrovare i segni comuni di un’umanità condivisa, contrastando la nostra tendenza a negare le somiglianze; dall’altro, manifestano l’estrema complessità del nostro essere ‘persone’, uniche e irripetibili, rendendoci più consapevoli delle differenze qualitative che esistono da soggetto a soggetto. In particolare, ci consentono di comprendere la ‘forza delle circostanze’, di scoprire come esse modellino e orientino la vita di ciascuno, dando forma non solo alle sue possibilità di azione, ma anche alle sue aspirazioni, speranze e paure. La capacità di immaginare in maniera simpatetica consente pertanto di ridurre la lontananza e l’estraneità, di capire le scelte compiute dagli altri e il fatto che essi, pur nella loro irriducibile diversità, condividano i nostri stessi problemi e siano dotati delle stesse potenzialità.
Per questo la letteratura, sviluppando tali capacità, stimola la nostra attitudine alla comprensione e favorisce l’immedesimazione e il coinvolgimento empatico per l’altrui destino – inclinazioni, queste, che appaiono estremamente importanti non solo sul piano della crescita e dell’arricchimento personale, ma anche su quello morale, civile e politico. Viene favorito infatti un approccio che è sì contestuale – attento cioè alla situazione del soggetto, alle sue concrete determinazioni storiche, esistenziali, sociali – ma non ‘relativistico’, nel senso che riconosce tratti, caratteri, istanze che trascendono i confini temporali, spaziali, etnici e acquistano un significato universale.
Se la narrazione ha tale funzione esplorativa e filosofica, accende nuova luce sugli enigmi dell’esistenza, crea universi di senso in cui sorgono inattese rappresentazioni di sé e del mondo.
“Approdiamo alla filosofia – ha scritto Nozick ne La vita pensata – perché vogliamo riflettere sulle cose e la filosofia è solo un modo per farlo; non è detto che debba escludere le vie seguite dai saggisti, dai poeti, dai romanzieri o dai creatori di altre costruzioni simboliche, vie che aspirano alla verità in maniera diversa, e ad altre cose che alla verità”. [4]
[4] R. Nozick, La vita pensata. Meditazioni filosofiche, Rizzoli, Milano 2004, p. 12
In questo quadro appare complessivamente di grande rilievo per la bioetica la via tracciata da Luigi Pirandello che nella sua opera ha saputo affrontare non solo i temi esistenziali innescati dal rapporto problematico tra scienza ed etica, ma ha precorso i dilemmi morali posti oggi alla nostra coscienza dalle sfide delle scienze della vita: la medicina, la biologia, l’ecologia, l’etologia.
Negli ultimi decenni, tali scienze hanno compiuto progressi grandiosi e le possibilità da esse aperte hanno sollevato quesiti senza precedenti, relativi non solo alla pratica medica, alla genetica, alla sperimentazione clinica, ma anche alla vita dell’ecosistema e ai problemi di gestione e tutela delle altre specie. Gli studi di etica applicata hanno dato un decisivo impulso al confronto critico tra scienziati e filosofi, contribuendo sia a rimuovere le barriere che separavano settori specialistici della conoscenza, sia a mostrare la pertinenza della riflessione filosofica in ambiti ad essa apparentemente estranei.
L’esigenza di rivisitare e di ridefinire taluni concetti centrale dell’etica ( vita, morte, esistenza, persona ) ha preso forma all’interno di un processo che ha visto la filosofia morale impegnata a promuovere una riflessione multidisciplinare sulle implicazioni concettuali e normative delle scienze biologiche. [5]
[5] Rinvio per un approfondimento al mio Le dimensioni della bioetica. La filosofia morale dinanzi alla sfida delle scienze della vita, Name,, Genova 1999.
Il contributo di Pirandello – è bene sottolinearlo – riguarda non una bioetica ‘edificante’ – quella che, impegnata a risolvere i problemi fornendo regole e principi validi per tutti, finisce per approdare ad una sorta di ‘filosofia delle ricette’ – ma una bioetica ‘critica’ che è perennemente alla ricerca dei problemi, per riconoscerli e sviscerarli, assumendo pienamente la complessità dell’esistenza. La lettura delle sue opere costituisce in tal senso un efficace antidoto contro una tradizionale impostazione teorica universalizzante, impersonale, esteriormente prescrittiva.
Pirandello ci invita infatti ad un’etica di prima persona, considerata cioè dal punto di vista del soggetto che è autore e attore della sua vita, anziché dal punto di vista esterno proprio di un osservatore imparziale che è proprio dell’etica della terza persona.
“Si nasce alla vita in tanti modi, caro signore – si legge ne La tragedia di un personaggio – e lei sa bene che la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé questa attività creatrice che ha sede nello spirito dell’uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo di una donna.” [6]
[6] L. Pirandello, La tragedia di un personaggio nella raccolta L’uomo solo in Novelle per un anno. Introduzione di N. Borsellino. Prefazione e note di L. Sedita, Garzanti, Milano 1993, pag.330.
Qualsiasi psicologia morale è incompleta se lascia da parte i modi in cui l’immaginazione entra negli atti, nei pensieri e nei discorsi e ci aiuta a comprenderli. Pirandello ci insegna appunto a decifrare emozioni e desideri, ad ascoltarli e ad interpretarli, a discernere il senso degli affetti che ci muovono, specie in quelle svolte della vita, in quei momenti di crisi in cui l’uomo incontra se stesso.
Quelli che vengono tracciati – penso in particolare alle Novelle per un anno – sono dunque percorsi di grandissimo interesse per cogliere momenti di illuminante chiarezza in relazione a questioni cruciali che la trattatistica bioetica rende assai spesso fredde e distanti. Temi di forte respiro etico – la nascita, la malattia, la morte -, dilemmi di grande portata che lacerano la medicina e inquietano angosciosamente la nostra coscienza: moltissimi sono i soggetti leggibili in chiave bioetica.
Ne La morte addosso l’anonimo avventore di un caffè notturno, condannato da un male incurabile, guarda alle cose e alla vita degli altri con un’attenzione estraniata. Grazie all’immaginazione può attaccarsi alla vita altrui, come un rampicante intorno alle sbarre di una cancellata, senza piacere, anzi per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, cosicché non debba importare a nessuno di finirla. Cosa prova chi sa di dover morire? Può forse starsene tranquillo nella sua casa, come pretende la moglie, ansiosa di curarlo? Una pretesa assurda.
”Le domando – così si rivolge al suo interlocutore – se crede possibile che le case di Avezzano, le case di Messina, sapendo del terremoto che di lì a poco le avrebbe squassate, avrebbero potuto starsene lì tranquille sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della Commissione edilizia municipale?” Ma che cosa è la morte? Come si presenta? [7]
[7] L. Pirandello, La morte addosso nella raccolta Il silenzio in Novelle per un anno cit. p.55
“La morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso…un passante per via potrebbe avvertirla, prenderle l’insetto, buttarlo via…Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e allegri forse ce l’hanno addosso, nessuno la vede; ed essi pensano tranquilli a ciò che faranno domani e doman l’altro…”La morte si presenta col nome di un fiore dolcissimo, epitelioma “la morte è passata… mi ha ficcato questo fiore in bocca e mi ha detto: ”Tientelo caro: ripasserò fra 8 o 10 mesi”. Ora mi dica lei se, con questo fiore in bocca, io me ne possa stare tranquillo”. [8]
[8]Ibidem
Una ‘situazione limite’ come la malattia rappresenta un’esperienza emotiva in cui il soggetto viene mosso e sollecitato affettivamente per riconoscere le voci che abitano la sua coscienza. La società ha trasferito ai medici il diritto esclusivo di stabilire che cosa è la malattia, attuando così un processo di espropriazione dell’individuo. Lo sguardo medico conosce solo la disgiunzione del normale e del patologico, riflette sulla malattia come un’entità clinica che ha un ‘decorso’, un ‘esito’, mai un ‘senso’.
Con la crisi del modello positivistico è emersa la necessità di ripensare lo stesso vocabolario medico relativo alla malattia. Abbiamo un vocabolario colpevolmente povero per ‘dire’ la sofferenza: dobbiamo moltiplicare le nostre parole, elaborare concetti per nominare in modo più attendibile l’universo così multiforme, variegato, plurimo del dolore.
Paradossalmente, il paziente non è, rispetto a ciò che soffre, che un fatto esteriore. Ma la malattia mortale, che irrompe in un momento qualunque di una vita normale, è presente nel corpo vissuto e viene percepita come un mutamento radicale del mondo della vita, anzi, come la sua distruzione. Per questo occorre recuperare lo spazio della soggettività – e cioè dei modi irripetibili e imprevedibili in cui ciascuno fa esperienza della ‘sua‘ malattia – ,considerando colla massima attenzione tutte quelle autorappresentazioni, cariche di significati simbolici, secondo cui il soggetto vive il suo dolore. Per il malato, infatti, la malattia non è semplicemente il guasto di un ingranaggio: è, innanzitutto, una questione di senso. Il corpo diventa improvvisamente estraneo, se non nemico; si scatenano emozioni profonde, angosce, paure.
Invisibile, indicibile, il dolore fisico è radicato profondamente in chi lo prova e spesso non è comprensibile agli altri, rende estranei sulla terra, separa dagli altri e dal mondo del ‘per lo più’. La sofferenza traccia un solco profondo di divisione, di estraneità e di separazione intorno a chi soffre che vive in un ‘mondo differente’ e anche in un ‘tempo differente’: si guarda al futuro non come spazio di possibilità ma come contrazione delle possibilità. La prospettiva della vita quotidiana – costituita da oggetti, abitudini, azioni che diamo per scontati – viene sovvertita: ci si trova in un territorio sconosciuto, ambiguo, nemico.
La malattia – per riprendere un’espressione di Susan Sontag – è la nostra seconda cittadinanza e con essa si diventa cittadini di una terra che non si vorrebbe mai abitare: “l’altro paese”, in cui la persona si trova a chiedere ospitalità in una lingua straniera. La stessa metamorfosi da essa indotta si rivela così profonda che il “pensar da sano” appare del tutto incongruente rispetto alla situazione nuova e imprevedibile che si sta vivendo. [9]
[9] S. Sontag, La malattia come metafora, Einaudi, Torino 1992.
Ne La toccatina – termine che indica il passare della morte che “tocca” l’ uomo e ne fissa la maschera, in attesa di un nuovo e definitivo ritocco che lo renda immobile del tutto e per sempre – Cristoforo Golisch incontra un vecchio compagno di tante avventure, Beniamino Lenzi, colpito da un ictus, “toccato dalla morte, quasi morto per metà, e cangiato”. Ne è costernato: non riesce a rassegnarsi dinanzi all’amico il quale, invece, pare non rendersi affatto conto della sua condizione:
”Strascinandosi per via, non vedeva nessuno, non pensava a niente; mentre la vita gli turbinava intorno, agitata da tante passioni, premuta da tante cure, egli tendeva con tutte le forze che gli erano rimaste a quel lampione, prima; poi ,più giù, alla vetrina di un bazar, che segnava la sua seconda tappa…”. [10] Golisch non riesce a capacitarsi di come l’amico non si ammazzi e, parlando tra sé e sé, così si rivolge al destino:
[10] L. Pirandello, La toccatina nella raccolta La vita nuda in Novelle per un anno, p.237
”No, ah, no perdio! Io non mi riduco in quello stato! (…) Mi passeggi accanto e ti diverti a vedere come mi hai conciato? (…) Questo spasso io non te lo do! Mi sparo, m’ammazzo com’è vero Dio!”. Circa un mese dopo, capita anche a lui una “toccatina”: perde lì per lì la parola e l’uso di metà del corpo. Successivamente gli capita uno strano fenomeno: non parla più in italiano, ma tedesco (Golisch era nato in Italia da genitori tedeschi). Gli amici hanno un saggio pietoso di quella nuova lingua ma egli “non aveva punto coscienza della curiosissima impressione che faceva, parlando a quel modo.
Pareva un naufrago che si arrabattasse disperatamente per tenersi a galla, dopo essere stato tuffato e sommerso per un attimo eterno nella vita oscura, a lui ignota, della sua gente. E da quel tuffo, ecco, era balzato fuori un altro; ridivenuto bambino, a quarant’otto anni, e straniero. E contentissimo era. Sì, perché proprio in quel giorno aveva cominciato a poter muovere appena appena il braccio e la mano.” [11]
[11] Ivi, p. 242
Gli altri continuano a pensare che sarebbe stato meglio morire piuttosto che restar così “malvivo”. Ma non lui: ”Si sentiva rinato. Aveva di nuovo tutte le meraviglie di un bambino e anche le lagrime facili, come le hanno i bambini, per un nonnulla.”. Ed ecco, i due amici si rincontrano. Ogni giorno si ritrovano per via, facendo le stesse tappe, fino a che decidono di andare a trovare una comune amica dei tempi passati, Nadina, da cui ricevono, felici, baci e carezze.
Una novella per molti aspetti straordinaria col suo scompaginare, in modo tenero e spietato, le nostre sicurezze, a partire da quella di presumere di sapere cosa decideremmo una volta che ci capitasse la “toccatina”. Ma noi – avverte Pirandello – pensiamo “da sani”, convinti che la nostra identità permanga intatta, che il nostro ‘io’ sia fissato nella forma che ci è nota. Al di là dei pensieri rassicuranti, dei propositi e delle intenzioni espresse, resta il segreto che noi siamo, irriducibile a qualsiasi discorso. Potremmo dunque, ad esempio,’ dichiarare anticipatamente’, ora per allora, le nostre volontà future? La questione in campo bioetico è – e deve restare – drammaticamente aperta: è comunque assai salutare il dubbio che la novella insinua in noi, nel suo spingerci ad una riflessione senza orpelli sulla nostra vulnerabilità, dato costitutivo della condizione umana. Siamo tutti esposti al rischio di essere feriti.
Se la malattia provoca quella che Elaine Scarry ha definito “la distruzione del mondo”, la narrazione dell’esperienza vissuta dal soggetto può configurarsi come una via percorribile per ricostruire quel mondo distrutto. [12]
[12] E. Scarry, La sofferenza del corpo, Il Mulino, Bologna 1990
Per una medicina intenzionata a passare dalla misurazione dei sintomi alla narrazione del vissuto – un tema su cui la bioetica è oggi fortemente impegnata – il contributo pirandelliano è complessivamente incommensurabile. Penso in particolare ad una novella Visitare gli infermi, straordinario affresco corale dello spettacolo della morte.
“In meno di un’ora per tutto il paese si sparse la notizia che Gaspare Naldi era stato colpito d’apoplessia…” L’attenzione di Pirandello si concentra su coloro che compiono questa ‘opera di misericordia’: i primi visitatori, amici e conoscenti, colla loro ansia di notizie (“Non è ancor morto?”), la frotta di curiosi assiepati nelle stanze, i parenti del moribondo in preda all’angoscia, ma anche su coloro – i medici curanti – che sono chiamati professionalmente a ‘prendersi cura’ degli infermi.
Si intrecciano i discorsi, ci si interroga sul termine ‘embolia’, sgomenti tutti dall’oscura minaccia di quel male: ”Un piccolo grumo! Si stacca…gira…e poi…embolé, interponimento… Da che dipende la vita d’un uomo! Può accadere a tutti un caso simile. E ciascuno pensò di nuovo a sé, guardando con crudeltà quelli tra gli astanti che si sapevano di salute cagionevole.” [13]
[13] L. Pirandello, Visitare gli infermi nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit., p. 114
V’è chi parla della fatalità (“ si ha un bel guardarsi di tutto e aver cura della propria salute: arriva il giorno destinato, e addio.”), chi narra, intercalandola da aneddoti personali, la vita del Naldi negli ultimi tempi, nel tentativo di scoprire la causa segreta del suo male, chi consulta l’orologio (“Era l’ora della cena, pei più; ma nessuno avrebbe voluto andar via. La catastrofe poteva essere imminente”.) Infine appaiono sulla scena i medici curanti, nel silenzio sgomento degli astanti, come in attesa d’un responso inappellabile. Tra di essi v’è un medico giovane, il dottor Bax, all’inizio della carriera, e quindi costretto a ossequiare i medici più affermati, (“tutti – s’intende – asini per lui”), il quale si ritiene comunque fortunato d’essere stato chiamato in quell’occasione “al letto d’uno in vista come Naldi”. Tale incarico – che gli è stato affidato dai colleghi unicamente perché lo ritengono resistentissimo al sonno – potrà far aumentare la sua considerazione sociale, il che lo sollecita ad assistere col massimo zelo il moribondo. I tre medici curanti, cui il giovane dottore riferisce lo stato dell’infermo durante la loro assenza, oltre a non prestargli ascolto, lo zittiscono bruscamente: solo a loro spetta l’osservazione del morente, l’accertamento della sua sensibilità residua e quindi le decisioni relative alla terapia da seguire: rapido consulto, a seguito di veloci confabulazioni, e quindi prescrizioni per la notte . Alla domanda affannosa dello zio canonico, che vorrebbe lasciar fare a Dio :”Perché prolungar così lo strazio di questa agonia? “si oppone una risposta secca e definitiva: ”E’ nostro dovere, reverendo”. I tre medici curanti si allontanano ma, nel frattempo, continua la lotta disperata di Naldi colla morte: “quel corpo gigantesco a cui la morte teneva adunghiato il cervello, si contorceva orribilmente nella lotta incosciente, tremenda, delle ultime forze..”
Solo il dottor Bax sembra essere per un attimo compreso dal mistero della morte, contemplando, dal balcone, gli astri “impalliditi dal chiaror lunare. Ma nessuna relazione, veramente, agli occhi suoi, tra quel cielo e quell’anima che agonizzava crudelmente dentro la stanza. Favole! Il Naldi sarebbe finito tutto laggiù… E cercò con gli occhi, in un punto noto della vallata, la macchia fosca dei cipressi del camposanto. Laggiù…laggiù…tutto e per sempre. E, nella sincerità ancora illusa della sua giovinezza, immaginò, attraverso gli stenti superati per procacciarsi quella professione di medico, il suo compito in mezzo agli uomini: alleviare le sofferenze, allontanare la morte, l’orrenda fine, laggiù.”. Il momento della verità è respinto anche per lui nella rassicurante retorica della sua vocazione professionale.
Frattanto la visita dell’onorevole Delfante, amico e compagno di scuola del moribondo, la sua esclamazione: “Che siamo!”, dinanzi allo strazio dell’agonia, inorgoglisce i presenti, beati della sua degnazione e della fortuna di averlo lì con loro. Comincia una conversazione a bassa voce, che finirà poi, più animatamente, per avviarsi verso “l’agitato mare della politica, dietro la sconquassata nave ministeriale”…
A sera inoltrata si ritrovano nella casa del moribondo i visitatori del giorno. “ e chi sa, forse avrebbero assistito anche loro alla morte, che pareva dovesse avvenire da un momento all’altro. Del resto, fuori, in città, non si sarebbe trovato modo di passar la serata.”. Alcuni si interrogano su certi strani fenomeni spiritici, altri sulle ragioni della paura che incutono i morti, fino a che, richiamati dalle litanie del prete, si accostano al letto di Naldi. “Tutti tenevano gli occhi fissi sul moribondo. Ecco come si muore! Domani, entro una cassa, e poi sotterra, per sempre!”. Nel silenzio della casa scoppia il pianto disperato della moglie, non consolato dalle parole del prete che si appella alla volontà imperscrutabile di Dio. Giungono nella stanza anche i piccoli figli che, pallidi ancora di sonno, guardano il padre “con occhi sbarrati dal pauroso stupore”, e cominciano anch’essi a piangere, dinanzi al dolore della madre.
Lo spettacolo è finito. Pian piano i visitatori se la svignano, impegnati chi ad annunciare la notizia della morte, chi a descriverla vividamente a coloro che manifestano la loro delusione per non avervi potuto assistere. La vita riprende. “Alcuni ritornarono a casa per rimettersi a dormire; altri vollero trar profitto dell’essersi levati così per tempo, facendosi una bella passeggiata per il viale all’uscita del paese, prima che il sole s’infocasse”. [14]
[14] Ivi, p. 132
Pirandello ci offre, nella misura del racconto breve, una rappresentazione spietata del nostro distogliere gli occhi dalla morte, quella paura primordiale che ci assale e che viene annegata nella chiacchiera, nella vacuità della vita che continua come se niente fosse. Nella demistificazione della miseria che si cela dietro le ‘opere di misericordia’ – le curiosità pettegole, le ambizioni mediocri, le piccole rivalità – campeggia nella sua tragicità la solitudine assoluta di chi è impegnato nel ‘corpo a corpo’ colla morte.
Il paternalismo medico vi celebra i suoi trionfi con le domande cui non dà risposta, la totale assenza di dialogo, l’arroganza compiaciuta di sé, i rapporti sotterranei di potere tra i professionisti della salute. Tutti si sottraggono all’interrogativo ineludibile sul significato del morire, sul mistero che avvolge il nostro esistere, prigionieri inconsapevoli dell’angoscia del non senso.
La riflessione bioetica – lo si è detto – può trovare un terreno straordinariamente fecondo nella narrazione: la complessità dei meccanismi espressivi, la stessa concentrazione cronologica dei racconti invitano a una presa di posizione personale, stimolano chi legge ad elaborare le ragioni – non aprioristiche – di un proprio giudizio morale.
Quello di Pirandello è appunto un metodo induttivo e maieutico che favorisce l’esercizio dell’intuizione e lo stimolo alla critica, al coraggioso approfondimento. Il potere evocativo delle sue immagini ci fa accedere alla dimensione del ‘perturbante’ – il contrario di ciò che è confortevole, familiare, abituale, tranquillo – svelandoci sempre qualcosa di ignoto e di misterioso: il ‘perturbante’ infatti rompe equilibri, scardina certezze, apre squarci sulle nostre dimenticanze – o rimozioni -, dà scacco ai trucchi della mente.
La logica rivela tutta la sua insufficienza: non ovviamente la logica – in cui Pirandello è maestro – che smaschera le razionalizzazioni dell’esistenza e le false verità, ma quella che pretende di risolvere e appianare i conflitti, di fornire risposte rassicuranti e definitive ai nostri dubbi.
Nel saggio L’umorismo viene spiegato il congegno della logica – definita nella novella La disdetta di Pitagora – “quella complicatissima macchinetta scacciapensieri” .“Lo chiamano logica i signori filosofi. Il cervello pompa con essa i sentimenti dal cuore e ne cava le idee(…) Un povero sentimento…pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta diviene un’idea astratta generale.” [15]
[15] L. Pirandello, La disdetta di Pitagora nella raccolta Il vecchio Dio in Novelle per un anno cit. p.173
Il ruolo della filosofia è, per lui, di porre problemi, non di risolverli. Diffidente nei confronti del positivismo–le ‘certezze’ delle scienze – ma anche dello spiritualismo – le ‘certezze’ della religione – si riconosce in un problematicismo che rifiuta ogni sicurezza dogmatica per assumere pienamente la dimensione del mistero. [16]
[16] Si veda in particolare la novella Il vecchio Dio nella raccolta omonima, cit. pp.141-147
La ‘ragione’ si rivela come la punta di un iceberg che cela la parte sommersa che non si vede ma che conta di più: il mondo della vita. Ci si rende allora conto che è necessario un cuore umano, oltre che una ragione umana, per capire la morale e il cuore risponde a persone particolari, non a principi universali di giudizio astratto.
Ciò vale in particolare per le questioni eminentemente controverse che si collocano ai confini della vita, non solo – per riprendere il tipico linguaggio della bioetica scolastica – alla sua ‘uscita’, ma anche alla sua ‘entrata’. Le nuove tecnologie riproduttive, nella loro grande diversità, appaiono tutte accomunate da un elemento: la manipolazione del vivente, l’intervento umano nel processo della procreazione, un processo che sfugge per la prime volta alla sola natura. La sfida all’ordine naturale allarga il campo della nostra libertà e, conseguentemente, quello della nostra responsabilità. L’ambivalenza dei progressi biomedici mette in gioco le nostre convinzioni più profonde: le interpretazioni, nel dibattito contemporaneo, oscillano tra speranza e paura: speranza di una liberazione da pesanti fardelli, paura di una violenza fatta alla nostra umanità.
La riflessione pirandelliana – che anche sui temi della nascita è sorprendente per la sua audacia e profondità – trova in una commedia poco nota e ancor meno rappresentata, L’innesto, uno dei suoi momenti più alti. Questa, in estrema sintesi, la trama. Sposata a un uomo sterile, cui è unita da un forte amore, Laura Banti è violentata in un parco da un bruto che la rende gravida. Il marito, sconvolto dalla vicenda, vorrebbe che abortisse, ma la donna riesce a convincerlo ad accettare quel figlio come suo. Decisiva sarà per lei – nell’approfondimento del dramma che ha vissuto e poi nella sofferta maturazione della decisione – una conversazione del tutto occasionale sull’arte dell’innesto con un vecchio giardiniere. Ecco la sue parole:
“Eh, ma l’arte ci vuole! Se non ci hai l’arte, signora, tu vai per dar vita a una pianta, e la pianta ti muore (…).Qua c’è una pianta. Tu la guardi: è bella, sì; te la godi, ma per vista soltanto: frutto non te ne dà! Vengo io, villano, con le mie manacce; ed ecco, vedi? Pare che in un momento t’abbia distrutto la pianta: ho strappato; ora taglio, ecco; taglio – taglio – e ora incido – aspetta un poco – e senza che tu ne sappia niente, ti faccio dare il frutto”. Laura, immersa nel suo dolore, prosegue stancamente la conversazione finché, ad una sua domanda: – “Ma la pianta?”- il giardiniere risponde: “bisogna che sia in succhio, signora! Questo, sempre. Ché se non è in succhio, l’innesto non lega!”. Alle sue richieste di spiegazioni su cosa significhi “in succhio”, la risposta è che “vuol dire…in amore”. Una frase, questa, che fa scattare in lei un vivissimo interesse e la spinge a porre ulteriori domande: ”L’amore di farlo suo, questo frutto? Del suo amore?” cui segue la risposta ‘tecnica’ del giardiniere:
”Delle sue radici che debbono nutrirlo; dei suoi rami che debbono portarlo”. che lei così ritraduce nei termini del suo vissuto:” Del suo amore, del suo amore! Senza saper più nulla, senza più nessun ricordo donde quella gemma sia venuta, la fa sua, la fa del suo amore?” E il giardiniere conferma: “Ecco, così! Così!” [17]
[17] L. Pirandello, L’innesto. Atto II in L‘innesto, La patente, L’uomo, la bestia e la virtù, a cura di R. Alonge, Mondadori, Milano 1992, p.27
Ancora una volta è decisiva l’immaginazione nella riflessione morale. La metafora della pianta – su cui il contadino opera l’innesto e che deve trovarsi ‘in succhio’ per produrre il frutto – fornisce a Laura Banti la chiave che le consentirà di riscattare la vicenda di assoluta violenza di cui è stata vittima. Come la pianta, anche lei avrà il suo frutto, perché ‘in amore’. E’ infatti la passione dell’amante – Pirandello lo sottolinea esplicitamente – a far sì che Laura ‘voglia’ quel figlio:” si tratta di salvare l’amore, si tratta di rendere accettabili per mezzo di una follia d’amore una sventura brutale e le conseguenze di essa: riscattare con un sacrificio d’amore, amando fino a morirne, l’odiosità di un frutto violento, facendo in modo che esso diventi come frutto d’innesto, perché innestato all’amore”. [18]
[18] L. Pirandello in Introduzione a L’innesto, cit. p. X
Laura è un personaggio di grande forza interiore e di notevole complessità psicologica, tale da poterci forse offrire oggi – in un contesto certo assai diverso da quello della commedia – alcune indicazioni utili per interpretare talune scelte che le nuove tecnologie riproduttive rendono possibili Penso, ad esempio, alla fecondazione eterologa – una tecnica che, per porre rimedio alla sterilità maschile, prevede l’intervento di un terzo, il donatore di seme, estraneo alla coppia e ad essa sconosciuto e che è spesso oggetto di una condanna senza appello, in quanto si ritiene lesiva di quell’inscindibilità tra atto unitivo e procreativo in cui la ‘naturalità’ della riproduzione dovrebbe consistere.
Ne L’innesto , come nel complesso della visione pirandelliana, mi sembra assuma un’importanza decisiva il significato che noi conferiamo ai nostri gesti, agli eventi in cui siamo coinvolti, quindi la nostra capacità di trasfigurarli. E’ l’amore ,infatti, a motivare la scelta di Laura: ”Io l’amore volevo salvare!(…) Perché tu vedessi tutta me stessa tua, nel figlio tuo: tuo perché di tutto il mio amore per te.” , lo stesso sentimento o, se si vuole, la stessa volontà che – presumo – animi coloro che, in modo concorde, avvalendosi delle tecniche oggi disponibili, cercano un figlio. Dovremmo demonizzare tale sentimento? Deprecare tale volontà per il timore che il figlio diventi – come qualcuno ha affermato – una sorta di ‘prodotto ingegneristico’, risultato di un ‘narcisismo genitoriale e biotecnologico’?
Il contesto – lo ripeto – è del tutto differente -: ne L’innesto siamo dinanzi alla violenza dello stupro che la protagonista ‘eroicamente’ riesce a sublimare – ;oggi è la tecnologia, l’artificiale, ad essere guardata con sospetto, vissuta talora come una forma di violenza e accusata di ‘reificare’ l’umano. E tuttavia è in qualche modo misteriosamente all’opera, in entrambi i casi, quella che si potrebbe definire la rivincita del simbolico sul biologico: che il figlio sia un ‘prodotto’- un oggetto o un soggetto -non dipende – ci ricorda Pirandello – né dalle vicende che hanno accompagnato la sua nascita (né dalle metodologie impiegate), ma dall’amore con cui è accolto e di cui è testimonianza.
Se il ‘mistero dell’uomo’ è quello di una creatura scissa, di un io diviso in parti in perenne conflitto tra loro, il ‘mistero dell’universo’ è quello di un cosmo incomprensibile colle nostre categorie “umane, troppo umane”.
La grande arte rimette in gioco il senso del mondo: Pirandello ci aiuta a liberarci dalla prigionia del ‘qui’ e dell’’ora’, a considerare il presente, il vicino, il familiare sotto l’angolo visuale del lontano, dell’inconsueto, del diverso. Il suo potrebbe definirsi un copernicanesimo: qui, noi, non è assoluto, non è tutto. Qui vale come là, noi come loro, la nostra verità come la loro.
”L’astronomo Jacopo Maraventano, assistendo con la fantasia alla prodigiosa attività della materia eterna, alla preparazione e alla formazione di nuovi soli, al germogliare dei mondi dall’etere infinito, dinanzi ai grandi pianeti che sembrano “pallottoline”, si chiede: “che cosa diventava per lui questa molecola solare, chiamata Terra, addirittura invisibile fuori del sistema planetario, cioè questo punto microscopico dello spazio cosmico? Che cosa diventavano questi pulviscoli infinitesimali chiamati uomini; che cosa le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le miserie particolari, le generali calamità?”. [19]
[19] L. Pirandello, Pallottoline! nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit.,pp.491-2
A sua volta, nella novella La tragedia di un personaggio , il dottor Fileno elabora “la filosofia del lontano” avvalendosi del procedimento del ‘cannocchiale rivoltato’: ”Lo apriva, ma non per mettersi a guardare verso l’avvenire, dove sapeva che non avrebbe veduto niente; persuadeva l’anima a esser contenta di mettersi a guardare dalla lente più grande, attraverso la piccola, appuntata al presente, per modo che tutte le cose le apparissero piccole e lontane.” [20]
[20] L. Pirandello, La tragedia di un personaggio nella raccolta L’uomo solo in Novelle per un anno cit. p.328
Quando parliamo di bioetica abitualmente pensiamo all’uomo ma la bioetica si occupa del bios, dell’intero mondo vivente, della natura, degli animali. Anche in questo campo Pirandello è un precursore. Nelle sue pagine possiamo trovare i lineamenti di un’etica che non solo non spezza i legami tra uomo e mondo ma riconosce la parentela tra noi e le altre creature, anche le più umili. Non si tratta tuttavia in alcun modo di un’etica ‘naturalistica’, se con tale espressione si intende una morale che trova nella natura la sua guida o il suo modello. La natura non è in lui in alcun modo una maestra di moralità: è natura, e basta; e quindi, innocente, impassibile, indifferente, come appunto deve essere.
Nella novella Il gatto, un cardellino e le stelle alla ‘tragedia’ vissuta da due vecchi nonni – il cardellino, ricordo della nipotina morta, divorato da un gatto entrato di soppiatto nella loro casa – fa riscontro la tranquillità dell’animale ( “mica se lo ricordava, un momento dopo, che s’era mangiato il cardellino, un qualunque cardellino… se ne stava tranquillo, così tutto bianco sul tetto nero a guardare le stelle..”) e l’olimpica serenità degli astri “che dalla cupa profondità della notte interlunare – si può essere certissimi – non vedevano affatto i poveri tetti di quel paesello tra i monti…”. [21]
[21] L. Pirandello, Il gatto, un cardellino e le stelle nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit., pp.58-9
Eppure è così forte per l’uomo l’impulso di attribuire agli animali i propri stessi sentimenti, rispecchiarvisi, ‘antropomorfizzare’ il non umano.”La vecchia nonna era certa certissima che con quei gorgheggi il cardellino chiamava ancora la sua padroncina (…) non sapendo darsi pace di non trovarla più”. Altrettanto insopprimibile è la nostra tendenza ad umanizzare la natura: ”Una pietra. Un’altra pietra. L’uomo passa e le vede accanto. Ma che sa questa pietra della pietra accanto? E della zana, l’acqua che vi scorre dentro? L’uomo vede l’acqua e la zana; vi sente scorrer l’acqua e arriva finanche a immaginare che quell’acqua confidi, passando, chissà quali segreti alla zana. Ah che notte di stelle sui tetti di questo povero paesello tra i monti! A guardare il cielo da questi tetti si potrebbe giurare che le stelle questa notte non vedano altro, così vivamente vi sfavillano sopra. E le stelle ignorano anche la terra. Quei monti? E’ mai possibile non sappiano che sono di questo paesello che sta in mezzo a loro da quasi mill’anni?” [22]
[22] Ivi, p. 53
Pirandello ricerca quei momenti di silenzio interiore in cui l’anima si spoglia delle sue finzioni abituali e i nostri occhi si fanno più acuti, fino a cogliere la vita nella sua nudità. Ecco ancora il ‘perturbante’.
Nella novella Da sé Matteo Sinagra scopre che la vita tutt’a un tratto si è vuotata di senso: ”Si era trovato d’improvviso con un altro se stesso, ch’egli non conosceva affatto, in un altro mondo che gli si scopriva adesso per la prima volta attorno: duro, ottuso, opaco, inerte.” Decide d’andarsene da sé al cimitero per uccidersi, risparmiando le esequie ma, da questa prospettiva di estraniazione dalla realtà, guarda con occhi nuovi le cose, gli alberi, i monti, le nuvole, il mare, l’aria:
“Gli alberi…oh guarda! Erano così gli alberi? Erano questi? E quei monti laggiù…perché? Quei monti azzurri con quella nuvola bianca sopra… Le nuvole…che cose strane!”. [23]
[23] L. Pirandello, Da sé nella raccolta Il viaggio in Novelle per un anno cit., p.257
Nasce la meraviglia, lo stupore dell’uomo di fronte al mondo: stato d’animo raro e prezioso, sola espressione ,forse, della nostra libertà.
“E un sapore nuovo ha l’aria che gli entra nei polmoni, una soavità di refrigerio su le labbra, nelle narici…Che delizia! La respira…ah, la beve ora, come non l’ha mai bevuta di là, nella vita”.
Uscire dalla vita dei vivi significa entrare in un’altra realtà, trovarsi nell’eternità, in un’”infinita, avvolgente delizia”, “un’ebbrezza divina, ignota ai vivi”, riscoprire, da morto, se stesso.
Meravigliarsi che le cose stiano in un certo modo, guardare al mondo con gli occhi dei Greci – come Pirandello ci invita a fare – è la strada della conoscenza, quella che può consentirci di penetrare nel mistero del cosmo.
La natura si rivela nel suo intatto splendore a Gosto Bombici, anche lui determinato a togliersi la vita: l’alba – così ha deciso – sarà il suo ultimo spettacolo. Uscito dalla città, (e quindi dal mondo del buon senso, dalla realtà convenzionale…Come per Thoreau, occorre allontanarsi, sia pure temporaneamente, dal consorzio umano per essere aperti alla rivelazione…) guarda il cielo “ampio, libero, fervido di stelle”; gli alberi gli appaiono “fantasmi dai gesti pieni di mistero …Per la prima volta li vedeva così e ne sentiva una pena indefinibile”. La ‘pena’ è legata alla scoperta di un legame: gli alberi non sono più ‘cose’, ma presenze misteriose: da qui l’indefinibilità di quel sentimento, solitamente riservato agli uomini, che il protagonista del racconto comincia ad estendere anche ad altri esseri, in una vicinanza fraterna.
I sensi si fanno più acuti: “percepì allora anche il fruscio vago delle ultime foglie, il brulichio confuso della vasta campagna nella notte, e provò un’ansia strana, una costernazione angosciosa di tutto quell’ignoto indistinto che formicolava nel silenzio”. [24]
[24] L. Pirandello, La levata del sole nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit.,p.292
I rumori divengono voci, la natura riacquista la sua vita, la terra ritrova la sua anima: ”Vecchia, vecchia Terra! La sentiva ancora!…l’accarezzò, come si accarezza una femmina, passandole una mano su i capelli”. Rinasce l’immagine mitica, femminile e materna, sepolta dalle concezioni meccanicistiche della scienza: la Terra ritorna ad essere organismo vivente, donna capace di ricambiare le carezze con i profumi delle sue erbe: “Addio, cara – disse, riconoscente, come se quella femmina con quella fragranza lo avesse compensato della carezza che le aveva fatto” [25]
[25] Ivi, p.295
Il sonno profondo e riparatore – e non più la morte – sancirà la riconciliazione con la natura e con se stesso. E tuttavia, essere aperto al mondo, sentirsi in sintonia con ogni vivente può significare, per gli altri, “essere matto”.
“Quando ero matto – racconta Fausto Bandini – non mi sentivo in me stesso; che è come dire: non stavo di casa in me. Ero infatti divenuto un albergo aperto a tutti. (…) Mi concepivo insomma in società di mutuo soccorso con l’universo.” Ridiventato savio, dopo aver vissuto quella follia, ecco come spiega la ritrovata saggezza : “Pensare a me! – questa la mia nuova divisa. Ce n’è voluto per persuadermi a intestarne tutti gli atti di questa mia nuova vita, chiamiamola così.” [26]
[26] L. Pirandello, Quand’ero matto… nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit.,p.180
Contrariamente a quanto ritengono le etiche di stampo razionalistico, è necessario per un agente morale interpretare i desideri che lo sorprendono e lo attraggono, per comprendere chi egli realmente sia, che cosa veramente voglia e quale sia l’azione che meglio gli corrisponda.
“Agire da matto”, per riprendere le parole del protagonista, significava “ agire verso gli altri (…) con eguale coscienza di sé e degli altri, perché sono coscienze come la nostra. Chi facesse veramente così e alle altre coscienze attribuisse l’identica realtà che alla propria, avrebbe per necessità l’idea di una realtà comune a tutti, d’una verità e anche di un’esistenza che ci sorpassa: Dio. Ma non per la gente savia, ripeto.”
L’approdo è ad un’etica veramente cosmica: “Mi pareva che l’aria tra me e le cose intorno divenisse a mano a mano più intima; e che io vedessi oltre la vista naturale. L’anima, intenta e affascinata da quella sacra intimità con le cose, discendeva al limitare dei sensi e percepiva ogni più lieve rumore. E un gran silenzio attonito era dentro di me, sicché un frullo d’ali vicino mi faceva sussultare e un trillo lontano mi dava quasi un singulto di gioia, perché mi sentivo felice per gli uccelletti che in questa stagione non pativano il freddo e trovavano per la campagna da cibarsi in abbondanza; felice, come se il mio alito li scaldasse e io li cibassi di me.” [27]
[27] Ivi, p. 184
In questa visione, che potrebbe quasi definirsi panteistica, Pirandello anticipa in modo sorprendente alcuni temi della contemporanea etica ambientale, specie dell’ecologia profonda che celebra, nella perdita mistica di ogni confine tra sé e le cose, la ritrovata fraternità dell’uomo colla natura.
“Penetravo anche nella vita delle piante e, man mano, dal sassolino, dal fil d’erba assorgevo, accogliendo e sentendo in me la vita di ogni cosa, finché mi pareva di divenir quasi il mondo, che gli alberi fossero mie membra, la terra fosse il mio corpo, e i fiumi le mie vene, e l’aria la mia anima; e andavo d’un tratto così, estatico e compenetrato in questa divina visione.”
Corpo e mondo trapassano l’uno nell’altro, formano un’unica realtà, in una comunione panica che sembra rinnovare l’antico animismo.
E’ quanto esprime oggi il filosofo norvegese Arne Naess :”Il nostro io ecologico non è limitato dai confini della nostra pelle.” [28]
[28] A. Naess, Dall’ecologia all’ecosofia, dalla scienza alla saggezza in Physis. Abitare la terra a cura di M. Ceruti e E. Laszlo, Feltrinelli, Milano 1988, p. 461
Ma l’etica cosmica, dal punto di vista della morale comune, è “follia”. E’ la stessa etica di Tommasino Unzio, soprannominato “Canta l’epistola”, che avverte la vanità e la transitorietà delle gioie e dei dolori degli uomini, “quasi vicende di nuvole,” dinanzi all’eternità della natura. Da qui la sua “ tenerissima pietà per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco, senza sapere perché, in attesa del deperimento e della morte.” [29]
[29] L. Pirandello, Canta l’epistola nella raccolta La rallegrata in Novelle per un anno cit.,p.17
E’ ancora la ‘meraviglia ‘ad affiorare dinanzi a tutte le forme di vita, specie le più labili e inconsistenti, ai modi in cui esse nascono, senza sapere perché, per una volta sola e ‘solo’ in quella, talora per un giorno e in un piccolissimo spazio nell’ignoto, enorme mondo. “Formichetta, si nasceva, e moscerino, e filo d’erba.(…) Il filo d’erba nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e via per sempre; mai più, quello; mai più!”
Dalla meraviglia nasce la ‘cura’, anche per un filo d’erba, seguito da Tommasino quasi con tenerezza materna nel suo crescere: “Lo carezzava, lo lisciava con due dita delicatissime, quasi lo custodiva con l’anima e col fiato; e, nel lasciarlo, la sera, lo affidava alle prime stelle…”
Ma un giorno proprio quel filo d’erba è strappato distrattamente da una gitante ignara, la signorina Olga Fanelli. La situazione precipita: Tommasino, che “s’era sentito strappar l’anima”, la insulta; e di conseguenza il fidanzato lo sfida a duello . Colpito a morte, “Canta l’epistola” , dinanzi alle domande pressanti sul perché, risponde semplicemente :”Per un filo d’erba…” lasciando tutti nella convinzione della sua follia. [30]
[30] Ivi, pp.19-20
“Follia agli occhi del mondo, sapienza agli occhi di Dio”, per ripetere le parole dell’apostolo. Tommasino Unzio, come Fausto Bandini, si comportano in modo incomprensibile ma il loro agire reca il sigillo di una morale di specie più elevata: un’etica che – il pensiero corre alla rensiana ‘morale come pazzia’- appare irrazionale agli occhi dei più perché ha contro di sé tutti gli istinti dell’uomo medio, è svantaggiosa, si oppone alla morale dei benpensanti, alla ragione prudenziale.
Una morale, dunque, non solo destinata al fallimento ma che anzi – potremmo dire – si qualifica per l’insuccesso, recando in sé la propria autenticazione. In tal modo vengono scompaginati i calcoli rassicuranti di ogni etica che voglia far coincidere il bene con l’utile (ovvero con la felicità del maggior numero). E’ la dimensione creativa dell’agire etico, quella che contravviene alle norme consuetudinarie e tende a rompere il cerchio chiuso del piccolo gruppo per espandersi all’intero mondo vivente. Ma, perché ciò avvenga, occorre lasciare lo spazio intimo e familiare ove si è a casa propria per penetrare in un orizzonte differente, in uno spazio estraneo, incognito, ove si rischia – confrontati con ciò che è altro – di scoprirsi senza “luogo proprio”. E’ quel che può accadere quando si decide di attraversare le frontiere, soprattutto le più stabili e definite, come quella tra umano e non umano. I confini possono essere sia ponti che barriere: osservandoli possiamo accorgerci di ciò che includono e di ciò che escludono.
Come “de-finire”, dunque, la categoria ‘animalità’? Di rado essa è interrogata in maniera esplicita, pur essendo fonte di perplessità più abissali della domanda relativa all’umanità stessa.
Da sempre – lo sappiamo – il rapporto dell’uomo col mondo non umano è mediato da stereotipi, rappresentazioni irrealistiche, distorte, largamente immaginarie, che rispondono ben più ai nostri bisogni che non alla realtà del mondo animale. E’ all’opera il meccanismo ben noto della proiettività che consiste nell’attribuire agli altri- e chi è più ‘altro’ dell’animale ? – caratteristiche, atteggiamenti, intenzioni che nel profondo ci appartengono, ma la cui presenza in noi viene ignorata o accuratamente rimossa.
Quali i motivi? Vogliamo conservare un’immagine assolutamente positiva di noi stessi, allontanando le componenti inaccettabili della nostra personalità, scaricando sull’altro (i diversi, appunto) tutto ciò che di negativo ci appartiene. E chi è più diverso dell’animale? Entra in gioco, in tal modo, una componente di aggressività che fa sì che nell’altro, l’animale, non si ritrovi solo il volto negativo (“il lato bestiale”) ma anche il fantasma di una negatività più inquietante e minacciosa. Che cosa può significare allora dire “che bestia! “ad un animale? E ad un uomo? Valgono gli stessi metri di giudizio?
Nella novella Al valor civile, il protagonista, Bruno Celesia, teme che, col dire agli uomini, per ingiuriarli,” tigri, iene, lupi, serpi, scimmie o conigli..”, in realtà si rechi agli animali un’ingiuria non meritata, dal momento che ciascuno si conforma obbediente alla propria natura. Non così l’uomo… [31]
[31] L. Pirandello, Al valor civile nella raccolta Il vecchio Dio in Novelle per un anno cit. p.159
Viene colpita in breccia da Pirandello la mentalità antropocentrica che ci fa vedere gli animali come in uno ‘specchio oscuro’, attraverso le lenti deformanti delle nostre angosce e paure..
Allo stesso modo, in Paura d’esser felice, Fabio Feroni, dinanzi agli sforzi ripetuti di una vecchia tartaruga per salire alcuni gradini e poi ricadere riversa a terra, cerca di aiutarla ma invano: l’animale vuol riprendere da sé l’eterna fatica. “Che bestia !”- esclama, accorgendosi poi di “aver detto bestia ad una bestia, come si dice bestia a un uomo”, e cioè per rimproverarla di aver rifiutato stupidamente il suo aiuto.
Ma in tal modo, così riflette, “dicendo in questo senso bestia ad un uomo, si viene a fare alle bestie una grandissima ingiuria, perché si viene a scambiare per stupidità quella che invece è probità in loro o prudenza istintiva. Bestia, si dice a un uomo che non accetta l’aiuto, perché non è lecito pregiare in un uomo quello che nelle bestie è probità” [32]
[32] L. Pirandello, Paura d’esser felice nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit.,p.99
La bestialità è l’animalità qualificata in senso peggiorativo e sfavorevole, in riferimento a norme morali umane, ma è anche, più profondamente, la condizione in cui ricade l’individuo quando perde la sua ‘umanità’, nel senso normativo del termine, è lo scacco per cui l’uomo non riesce a conformarsi al suo modello specifico. L’animale ridiventa uno ‘specchio oscuro’dell’umano, un essere di cui si avverte l’inquietante e, insieme, familiare estraneità, la memoria angosciosa di una ferinità perennemente in agguato.
E’ ancora possibile, dunque, riconoscere gli animali come animali, guardarli come realmente sono: creature dotate di sensibilità e di consapevolezza, capaci di una vita ricca e complessa? Uno dei percorsi è probabilmente quello della pietà…
Saper trattare con il diverso, con quello che è radicalmente ‘altro’ da noi: in ciò consiste la pietà, forse la virtù più alta, il sentimento originario più ampio e profondo , “quasi la patria di tutti gli altri” – per riprendere l’espressione di Maria Zambrano . [33]
[33] M. Zambrano, Per una storia della pietà, ‘Aut-Aut’, n. 279, maggio-giugno 1997
Ne Il cavallo nella luna una giovanissima sposa il giorno stesso delle nozze, durante una passeggiata in campagna, scopre un cavallo abbandonato, ormai scheletrico, lasciato agonizzare dai contadini. Mossa dalla compassione e dall’orrore per un animale portato a morire, perché è vecchio e non serve più, (”Ah, povera bestia! Che infamia! Che infamia! Ma che cuore hanno codesti villani?”) si china ad accarezzare la testa del cavallo “che s’era tirato su a stento da terra, ginocchioni su le due zampe davanti, mostrando pur nell’avvilimento di quella sua miseria infinita un ultimo resto, nel collo e nell’aria del capo, della sua nobile bellezza.” [34]
[34] L. Pirandello, Il cavallo nella luna nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit.,p. 89
Pirandello ha vivissimo il senso immaginativo della diversità della vita animale: noi siamo misteriosamente come loro e siamo misteriosamente differenti da loro. Cos’è ,ad esempio, per un cavallo la libertà? Può pensare d’essere libero? Gli è forse dato di farsene un’idea quando l’abbia davvero?
“Quando gliela levano, dapprima per istinto si ribella; poi, addomesticato, si rassegna e adatta. Forse quello, nato in qualche stalla, libero non è stato mai. Sì, da giovane in campagna probabilmente, lasciato a pascolare sui prati. Ma libertà per modo di dire, prati chiusi da staccionate. Se pure c’è stato, che ricordo può averne?”. [35]
[35] L. Pirandello, Fortuna di esser cavallo nella raccolta Una giornata in Novelle per un anno cit.,p. 530
Messo fuori dalla sua stalla, libero ormai da ogni finimento, lasciato solo perché non serve più a nulla, un vecchio cavallo, abbandonato da tutti, se ne va per le strade del paese, accompagnato dal codazzo dei monelli, e poi , fuori dall’abitato, respira nel vento l’odore dell’erba, assaporandola con gli occhi socchiusi – quegli occhi “d’una vita sempre in ansia” che, a differenza di quelli del cane “che chiedono scusa o pietà”, nessuno comprende.
Pirandello si avvede assai bene che la nostra comprensione empatica è ben limitata. Il cavallo, a differenza del cane, non è un animale ‘familiare ‘e pertanto nei suoi confronti non scatta quel sentimento di ‘cura’ riservato solo a chi partecipa pienamente della nostra vita: sfortunato animale di confine, dunque, il cui statuto oscilla tra quelli ‘buoni da pensare’ e quelli ‘buoni da mangiare’.
La sua ‘fortuna’tuttavia – secondo Pirandello – è di non sapere: né di essere libero, né di dove o come andrà a finire. “Ora, per il momento, mangia l’erba della proda. La sera è mite. Il cielo è stellato. Domani sarà quel che sarà. Non ci pensa.” [36]
[36] Ivi, p. 534
Il peso della coscienza di vivere e di dover morire è risparmiata agli animali che, a differenza degli uomini, vivono sulla soglia dell’attimo, non soffrono – come già Nietzsche aveva intuito- della “malattia storica” che ci affligge.. Ma il loro non sapere non ci solleva dalla responsabilità della loro sofferenza, non ci assolve dalla crudeltà dell’abbandono.
Nessuno vuole il cavallo, nemmeno in regalo, perché non vale più la spesa del fieno, così vecchio e malandato; “tanti, per levarselo, ricorrono al mezzo sbrigativo di ucciderlo Una palla di fucile costa poco. Ma non tutti hanno il cuore di farlo. Resta però da vedere – nota Pirandello – se non è più crudele abbandonarlo così”.
“Gli animali sono creature di Dio”: con queste parole, nella novella Fuoco alla paglia, il vagabondo Nazzaro, un’altra incarnazione della ‘morale come follia’, ( “due soldi di pane e due soldi di frutta. Non aveva bisogno d’altro.”) riesce a convincere Simone Lampo a liberare le centinaia di uccellini che tiene prigionieri in un gabbione per mangiarseli: un’azione da lui giudicata ‘peccato mortale’. [37]
[37] L. Pirandello, Fuoco alla paglia nella raccolta Scialle nero in Novelle per un anno cit.,p. 314
“Gli uccelli, da più mesi imprigionati, in quel subitaneo scompiglio, sgomenti, sospesi sul fremito delle ali, non seppero in prima spiccare il volo: bisognò che alcuni, più animosi, si avventassero via, come frecce, con una strido di giubilo e di paura insieme; seguirono gli altri, cacciati, a stormi a stormi, in gran confusione, e si sparpagliarono dapprima, come per rimettersi un po’ dallo stordimento, sugli scrimoli dei tetti, su le torrette dei camini, su i davanzali delle finestre, su le ringhiere dei balconi del vicinato, suscitando giù, nella strada, un gran clamore di meraviglia, a cui Nazzaro, piangente dalla commozione, e Simone Lampo rispondevano seguitando a gridare per le stanze ormai vuote:-Sciò! Sciò! Libertà! Libertà”. [38]
[38] Ivi, p. 319
La liberazione degli animali sarà insieme riconquista, per Simone Lampo, contagiato dalla “fiducia serena” nella vita di quel ‘matto’ di Nazzaro, della libertà. Nei personaggi pirandelliani la morale nasce dalla pietas, da intendersi in senso latino, come rispetto sacro per le cose, da cui deriva una universale compassione nei confronti di tutti i viventi.
E’ così che il vecchio Marabito ne Il vitalizio sente pena per il suo podere che ha deciso, suo malgrado, di lasciare:
”Conosceva gli alberi uno per uno; li aveva allevati come sue creature (…). Pena per il podere e pena anche per le bestie che tant’anni lo avevano aiutato: le due belle mule che non s’erano mai avvilite a tirar l’aratro per giornate sane; l’asinella che valeva più delle mule, e Riro il giovenco biondo come l’oro, che tirava da sé senza benda né guida l’acqua del pozzo, pian piano, com’egli l’aveva ammaestrato.” [39]
[39] L. Pirandello, Il vitalizio nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit.,p. 237
Marabito sa che lasciare la sua terra è come morire ma ‘deve’ farlo perché non si sente più buono per lavorarla, come il suo cuore vorrebbe. Il suo rincrescimento aumenta quando scopre che il nuovo padrone abbatte gli alberi e maltratta gli animali ( “Le bestie, figlio mio, guardale bene negli occhi: t’accorgerai che la fatica la capiscono; la gioia, no.”); poco gli importa – gli si obietta – che è suo diritto farlo. “Domandava di quel tal mandorlo, di quel tale olivo e della vigna e dell’agrumeto, e non gli importava che la terra non fosse più sua, purché facesse il suo dovere e, lasciando contento il nuovo padrone, si facesse amare da lui.” [40]
[40] Ivi, p. 257
Le cose andranno diversamente da come Marabito aveva previsto; dopo varie vicissitudini, il podere ritornerà a lui che si ritroverà – centenario – a curare con amore la sua terra: un amore doloroso, nutrito di tenerezza per le cose periture, minacciate dalla violenza. Ancora una volta – come in altre novelle – ai disegni degli uomini si sostituirà un ‘disegno’ del tutto imprevedibile che la vita ha misteriosamente tracciato. Un disegno visibile solo a posteriori, come nel racconto di Karen Blixen dell’uomo che, affacciandosi al mattino dalla finestra, vede con sorpresa che le orme dei suoi passi nella notte hanno composto l’unità di una figura. [41]
[41] K. Blixen, La mia Africa, Feltrinelli, Milano 1959
***
Al termine di questo percorso potrà forse farsi più chiaro il rapporto che si è cercato all’inizio di delineare tra immaginazione ed etica..
E’ quasi impossibile – a mio avviso – leggere un racconto, interessarsi alle vicende dei personaggi, appassionarsi per la loro sorte, senza che sorgano riflessioni morali. Se si segue una storia con attenzione e partecipazione, rispondendo alle sue sollecitazioni e lasciando che i suoi protagonisti suscitino in noi delle emozioni, pressoché inevitabilmente si giungerà a formulare valutazioni ispirate dalla nostra personale concezione del bene. Per questo la narrazione stimola il pensiero etico: l’atto di leggere e di valutare ciò che si legge è costruito infatti in maniera tale da richiedere l’astrazione, l’analisi e la discussione critica, basate sul confronto tra le proprie esperienze e le ragioni e gli argomenti altrui.
L’immaginazione non comporta pertanto né una mancanza di senso critico né una perdita della distanza tra noi e gli altri: la nostra identità, anzi, si consolida. E’ sempre infatti dalla ‘nostra’ prospettiva che guardiamo, e quindi valutiamo, eventi e persone, applicando una teoria morale, elaborando una concezione di carattere generale, di ampiezza e valore universale.
Non si tratta dunque in alcun modo di sostituire l’immaginazione narrativa al ragionamento morale – che è governato da regole, ispirato a principi, sostenuto da argomentazioni -quanto di valorizzarla per esplorare la trama complessa che compone la nostra visione, cogliendo ciò che rende vivi i legami, gli affetti, gli stupori che appartengono alla nostra capacità di interessarci del mondo. In questo esercizio di risveglio delle fonti della vita morale, l’immaginazione potrà allora rivelarsi come componente essenziale di un’etica in cui si manifesti, per ciascuno, il segreto della sua esistenza.
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