Pirandello e il Piemonte

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Di Silvio Montiferrari

Pirandello aveva avuto rapporti con Torino sin dall’adolescenza, se ricordiamo che il suo primo scritto narrativo pubblicato fu l’elzevìro “La capannetta” che comparve sulla “Gazzetta del Popolo della domenica” del 1° giugno 1884. 

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Pirandello e il Piemonte
Il motto Ognuno a suo modo riportato sul campanile della chiesa di Coazze

Pirandello e il Piemonte

da I luoghi e la memoria (non più attivo)

… ah, ricordo un tramonto, a Torino, nei primi mesi di quella mia nuova vita, sul Lungo Po, presso il ponte che ritiene per una pescaia l’impeto delle acque che vi fremono irose: l’aria era di una trasparenza meravigliosa ; tutte le cose in ombra parevano smaltate in quella limpidezza; ed io,guardando, mi sentii così ebro della mia libertà , che temetti quasi d’impazzire, di non potervi resistere a lungo …[1]

 [1] Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, nella collana “Tutti i romanzi” ed. Mondadori 1957, pag.342

Nell’estate del 2001 è stato celebrato il centenario della villeggiatura di Luigi Pirandello a Coazze, paese della Val Sangone in provincia di Torino. Per la ricorrenza è uscita una pubblicazione (Album di Coazze, ed. Enterprise 2001), segnalata dalla nostra rivista, alla quale rimandiamo per una scrupolosa ricostruzione di questa villeggiatura fino allora misconosciuta nella biografia pirandelliana. In estrema sintesi Pirandello, giovane professore trentaquattrenne, venne a Coazze in villeggiatura con moglie e bambini nella tarda estate del 1901 (dal 23 agosto ai primi di ottobre) per raggiungere la famiglia della sorella Lina, allora risiedente a Torino, che come molte altre famiglie della borghesia torinese trascorreva le vacanze estive in questa apprezzata località montana. Fu un soggiorno sereno per Pirandello ed anche letterariamente fecondo perché ci ha lasciato il cosiddetto Taccuino di Coazze, quadernetto di note e appunti che servirono poi al nostro autore per varie opere ispirate a questa sua esperienza in terra piemontese. Ricordiamo, in ordine cronologico, le novelle Gioventù e La Messa di quest’anno, il romanzo Suo marito, dove Coazze compare con lo pseudonimo di Cargiore.

In questa sede ci proponiamo di allargare l’orizzonte per conoscere il contesto culturale piemontese del periodo “coazzese” di Pirandello , ovvero l’ambiente con il quale venne in contatto in quegli anni tra Ottocento e Novecento, all’inizio potremmo dire della sua carriera di scrittore, ed in prospettiva il rapporto che continuò ad avere col mondo culturale torinese nel corso della sua attività letteraria e teatrale, fino al Premio Nobel (1934) e alla sua morte (1936). Già abbiamo detto che Pirandello venne a Coazze perché la sorella Lina che viveva dal 1897 a Torino (e vi resterà fino al 1902 quando il marito, ingegnere minerario dello Stato, sarà trasferito a Massa Carrara), veniva a Coazze in villeggiatura, e tutti sappiamo la differenza tra un “tour” qualsiasi ed un viaggio che abbia per meta un luogo dove trovi una casa e persone amiche. Egli avrebbe già voluto venire a Torino presso la sorella per l’Esposizione Internazionale del 1898, ma non gli era poi stato possibile.

Torino, tra le due Esposizioni Internazionali, quella del 1898 per il cinquantenario dello Statuto, e l’Esposizione del 1911 per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, stava risollevandosi dalla crisi post-risorgimentale secondo il principio del rinnovar conservando, passando dal ruolo di prima capitale del Regno a quello di moderna metropoli industriale. Dal punto di vista urbanistico sono moltissime le opere che si costruiscono in quegli anni, passando dallo stile eclettico tardo ottocentesco ad un originalissimo “stile floreale” che fa di Torino, insieme a Palermo all’altro capo del paese, la città più “liberty” d’Italia: un carattere destinato a rimanere.

Ma Pirandello aveva avuto rapporti con Torino sin dall’adolescenza, se ricordiamo che il suo primo scritto narrativo pubblicato fu l’elzevìro La capannetta che comparve sulla “Gazzetta del Popolo della domenica” del 1° giugno 1884, e se ricordiamo che considerava, come modello per la sua poesia, Arturo Graf, docente dell’Università di Torino sin dal 1876, al quale, “come a Maestro”, aveva inviato la sua prima raccolta poetica Mal giocondo, pubblicata a Palermo nel 1889.

Nel 1895 compaiono due novelle di Pirandello sulla “Gazzetta letteraria”, rivista settimanale fondata da Vittorio Bersezio a Torino nel 1880 e trasferita a Milano solo l’anno prima, ovvero nel 1894. La “Gazzetta letteraria” non è una rivista provinciale: pubblica e recensisce le opere di Verga e Capuana, mentre è molto critica con la letteratura decadente dei Sommaruga e D’Annunzio; forse è attraverso l’amico Capuana che Pirandello arriva alla “Gazzetta letteraria”.
Le novelle pirandelliane che compaiono sulla “Gazzetta letteraria”sono: Ravanà (poi pubblicata nelle “Novelle per un anno” col titolo In corpore vili) che esce sul numero del 15 giugno 1895, eIl “no” di Anna che conta diciotto pagine e viene pubblicata in cinque puntate dal 7 settembre al 5 ottobre del medesimo anno, opera di narrativa verista ma già ricca di umorismo.

Ritornando ad Arturo Graf, scrive Giovanni Tesio che “il magistero di Arturo Graf è uno dei fatti salienti della cultura torinese a cavallo dei due secoli: momento esemplare le celebri “sabatine”, pubblica accademia aperta su persone e argomenti”. [2]

 [2] Si veda il saggio di Giovanni Tesio Le lettere nel volume Torino città viva, da capitale a metropoli,1880-1980. Cento anni di vita cittadina, edito a cura del Centro Studi Piemontesi, Torino, 1980.

  E’ possibile che Pirandello, in occasione di qualche sua sosta a Torino (compresi i pochi giorni in cui si trattenne presso la sorella dopo la villeggiatura a Coazze) abbia partecipato a queste riunioni del sabato presso l’Università, delle quali Arturo Graf era l’accorto moderatore.

Parlando della “prima generazione grafiana”, ricordiamo tra gli allievi Pastonchi, Enrico Thovez, Giovanni Cena, Giovanni Camerana, ma anche Massimo Bontempelli e questo fatto ci interessa molto perché Massimo Bontempelli fu forse l’unico amico intimo di Pirandello, che non fosse meridionale, e certamente fu suo stretto amico per tutta la vita.

Bontempelli era nato a Como nel 1878, era quindi di quindici anni più giovane di Pirandello, e si laureò, appunto, in lettere all’Università di Torino, poi in filosofia. Era venuto studente universitario a Torino perché anche lui grande estimatore di Arturo Graf come Pirandello? E Pirandello conobbe forse Bontempelli proprio a Torino? La prima collana di novelle di Pirandello, Amori senza amore, fu pubblicata a Roma nel 1894 presso lo “Stabilimento Bontempelli Editore”, ma non sappiamo se questa casa editrice appartenesse alla famiglia di Massimo Bontempelli (nato, ricordiamo, a Como), oppure se si trattava di un puro caso di omonimia. Massimo Bontempelli dopo la laurea fece l’insegnante fino al 1910, in seguito la sua attività professionale fu quella di giornalista e si svolse a Roma. Nel 1904 pubblica il suo primo libro di poesie Egloghe a Torino, non sappiamo se anche lui presso Streglio, l’editore di Pirandello.

Prima di arrivare al successo con Il fu Mattia Pascal, Pirandello pubblicò i suoi lavori in case editrici d’ogni parte d’Italia e, come si è detto, il suo editore torinese fu Renzo Streglio presso il quale pubblicò due collane di novelle: Quand’ero matto nel 1902 (che comprende la novella Lumìe di Sicilia), e nel 1904 Bianche e nere.

Renzo Streglio era un editore minore militante. “Dalla sua casa editrice – scrive Enzo Bottasso [3], uscirono, insieme a libri importanti per tener desta la nostra tradizione letteraria, come la monografia del Rinieri su Silvio Pellico o la ristampa dei Miei tempi di Angelo Brofferio, novità di Giovanni Cena, Enrico Thovez, Corrado Corradini, Edmondo De Amicis, Francesco Pastonchi e Luigi Pirandello” appunto.

 [3] Si veda Enzo Bottasso in La editoria da Torino città viva, da capitale a metropoli, op.cit.

Nel 1907 pubblicò La via del rifugio di Guido Gozzano ed ancor prima, per tutto il 1905, fu l’editore del settimanale letterario “Il Campo”, “quasi travolto dalla tragica fine scelta per sé da Giovanni Camerana” (di cui pubblicherà postumi, nel 1907, i Versi). E’ proprio su “Il Campo” del 2 aprile 1905 che si dà notizia, per la prima volta, d’un romanzo “umoristico” di Luigi Pirandello, intitolato Suo marito.

Renzo Streglio disponeva anche di una propria tipografia , impiantata prima a Ciriè e poi a Venarìa sotto la direzione del fratello Anselmo. Pubblicava anche una serie di guide turistiche: recentemente, nel 1998, è stata pubblicata la ristampa anastatica di una sua edizione del 1907, assai interessante, sulla Sacra di San Michele.

Scrive ancora Enzo Bottasso “Streglio aprì negozio agli albori del secolo in un altro dei luoghi deputati della libreria torinese, all’angolo fra le vie Santa Teresa e XX Settembre”. Abbiamo rintracciato il luogo: si tratta precisamente di via Santa Teresa n.6, a due passi da piazza San Carlo; è un grande locale d’angolo al pianterreno di un prestigioso palazzo. Ora vi si trova un negozio di “lingerie” di lusso, ma, su una vetrata, si vede ancora stampata in bel corsivo la scritta Treves, l’editore di Pirandello quando arriverà al successo. Evidentemente, in questo “luogo deputato della libreria torinese” all’editore Streglio subentrò la Libreria Internazionale F.lli Treves, che vi resterà per quasi un secolo.
Quando nel negozio c’era Streglio, la libreria gestiva anche una “Gran Biblioteca Circolante”, così come ho potuto apprendere dalla pubblicità stampata sulla carta della casa editrice in una lettera dell’editore a Luigi Pirandello, a proposito della pubblicazione della collana di novelle Bianche e nere, esposta alla Mostra Pirandelliana allestita a Coazze nell’estate dell’anno centenario dalla Biblioteca- Museo “Luigi Pirandello” di Agrigento (il negozio era in via Santa Teresa n.6, ma la lettera arriva dagli uffici che si trovavano nella vicina Galleria Subalpina). Tuttavia, malgrado l’intensa e benemerita attività, gli affari non dovevano andare molto bene a Torino, poiché lo Streglio prima aprì una succursale a Genova nel 1904, e poi nel 1907 trasferì ogni attività editoriale in quella città.

Un altro importante editore torinese con cui Pirandello ebbe a che fare in quegli anni, è Onorato Roux che, con Favale, nel 1895 aveva fondato La Stampa di Torino. Il Roux resterà poi nella direzione della Stampa anche con Alfredo Frassati. Ma Onorato Roux era attivo pure a Roma dove dirigeva La Tribuna. Nel lavoro citato della Marsili Antonetti (“Luigi Pirandello intimo”), troviamo un curioso fitto carteggio dell’anno 1900 di Pirandello, da Roma, con il cognato Calogero a Torino (pp.174-176) dove Luigi prega Calogero di andare alla redazione della Stampa per riprendere il manoscritto del suo romanzo L’Esclusa che il Roux non aveva neppure letto: Ho veduto oggi Roux – scrive Luigi da Roma – Mi ha confessato che non ha avuto tempo di leggere l’Esclusa…anche lui mi chiude la porta in faccia senza aver prima letto l’opera mia…Tu, carissimo Calogero, fra due giorni recati alla “Stampa” a ritirare il manoscritto…”. Ma la vicenda ha un lieto fine: il Roux, che non gli aveva pubblicato L’Esclusa sulla Stampa, l’anno dopo gliela pubblica in appendice sulla Tribuna nei mesi di giugno-agosto (vedi Gaspare Giudice, Pirandello, ed. UTET 11000, pag.157).

Abbiamo visto che tra gli scrittori pubblicati da Renzo Streglio c’era anche Giovanni Cena che forse Pirandello conobbe proprio in quei primi anni del Novecento. Il Cena, nato da umile famiglia a Montanaro Canavese nel 1870, era pertanto quasi coetaneo di Pirandello. Non è questa la sede per parlare direttamente di questa bellissima figura, così rappresentativa, di apostolo laico del proletariato, ma vogliamo dire dei rapporti quanto mai significativi e nutriti da profonda umana simpatia, intercorsi tra Luigi Pirandello e Giovanni Cena fino alla morte precoce di quest’ultimo.
Giovanni Cena, come detto, era di umile e poverissima famiglia. Fece il precettore ed il correttore di bozze per vivere, ma il suo talento fu presto riconosciuto ed incoraggiato da intelligenze sensibili dell’ambiente letterario torinese, come Arturo Graf e Edmondo De Amicis.
Così nel 1902 era già redattore-capo della rivista romana Nuova Antologia e da quando questa rivista fu diretta da Giovanni Cena, Pirandello, che probabilmente lo aveva conosciuto ai tempi dello Streglio, cominciò a collaborarvi, e fu proprio Giovanni Cena che pubblicò sulla rivista il capolavoro che a Pirandello diede il successo. Infatti nel 1904, all’indomani della “prova terribile” del 1903 con il fallimento dell’azienda paterna dove Pirandello aveva investito il capitale suo e la dote della moglie, la quale, per lo shock, cadde in gravissima malattia, Giovanni Cena chiese al nostro autore un romanzo da pubblicare a puntate sulla rivista, offrendogli subito un anticipo di mille lire (circa sei milioni e mezzo attuali): così nacque Il fu Mattia Pascal.

Maria Luisa Aguirre d’Amico, nipote di Pirandello perché figlia della figlia Lietta, nel suo libro di memorie (Album di Pirandello, pag.71), parlando dei letterati frequentati da Pirandello a Roma, tra “quelli che durarono nel tempo, e nel ricordo dei familiari”, cita Giovanni Cena “socialista umanitario e redattore-capo della Nuova Antologia”, [4] per cui possiamo pensare che tra i due, malgrado la differente personalità, fosse nata una vera e propria amicizia durata fino alla morte di Cena.

 [4] Collaborerà anche in altri modi alla rivista, con qualche novella e recensioni su libri di A.S.Novaro, Francesco Pastonchi, Luigi Capuana, Giuseppe Giacosa, Giovanni Papini e altri ancora.

Anche Giovanni Cena scrisse un romanzo nel 1904, Gli ammonitori, di ispirazione sociale, forse pubblicato ancora presso l’editore Streglio; poi un libro di versi, Homo, nel 1907. Ma in seguito obbedì all’impulso di passare all’azione in una forma di laico apostolato sociale, fondando con Sibilla Aleramo, pure lei piemontese, [5] con il medico Angelo Celli e la moglie, ed altri ancora, le “scuole dell’Agro Romano” per l’alfabetizzazione del proletariato contadino.

 [5] Sibilla Aleramo, pseudonimo di Adele Faccio, nata ad Alessandria, morta a Roma nel 1960.

Morirà dieci anni più tardi nel 1917, di polmonite, a soli quarantasette anni.

Pochi mesi dopo, sul Messaggero della Domenica del 31 maggio 1918, compare una commossa commemorazione di Giovanni Cena da parte di Pirandello, che costituisce non solo una bella pagina di asciutta eloquenza, ma un documento di profonda simpatia umana, che ci fa capire come Pirandello, nella scelta dell’amico, vedesse la conseguenza estrema della sua idea che “la vita la si vive o la si scrive”. In altre parole, identificandosi nell’amico, Pirandello, con capacità ermeneutica, ne mette in luce il valore essenziale. ”Volle concludere in bontà. A un certo punto non scrisse più, ma visse la sua poesia”, così inizia la breve, intensa, commemorazione, “…non gli restava più, oramai, che ritornare con le parole che aveva dette a coloro dai quali era uscito: ai contadini, per insegnar loro a scriverle e anche a viverle…”. Infine, ricordando il suo ultimo libro, Homo, composto di cento sonetti “che han l’aria di cento iscrizioni lapidarie su cose e sentimenti eterni”, conclude: “Parecchi di essi attingono una bellezza assoluta e imperitura”.

Nella preziosa Mostra Pirandelliana allestita dalla Biblioteca-Museo “Luigi Pirandello” di Agrigento a Coazze, tra i cimeli riguardanti i rapporti del Nostro con il Piemonte, abbiamo anche potuto leggere una lettera autografa di Arturo Graf a Pirandello del 24 novembre 1906. Siamo ancora agli inizi del secolo e sono passati pochi anni da quando Pirandello con deferenza inviava ad Arturo Graf le sue raccolte di poesie, ma nel frattempo per Pirandello è esploso il successo con la pubblicazione del “Fu Mattia Pascal”. Pirandello era diventato famoso perché aveva trovato, in Giovanni Cena, un editore di “intelligente operosità” che si era accorto del valore di lui, così come aveva pronosticato Luigi Capuana pochi anni prima, nel 1901, l’anno del soggiorno coazzese. Ed ora i rapporti tra Arturo Graf e Luigi Pirandello sembrano quasi capovolti, pur mantenendosi sulla base di una sincera reciproca stima. Questa volta è Arturo Graf che scrive a Pirandello, “Caro Professore”, per ringraziarlo caldamente di una recensione favorevole della sua ultima raccolta di versi “Rime della Selva”, da lui scritta sulla Nuova Antologia (diretta, ricordiamo, da Giovanni Cena). “Spero di leggere presto – conclude nella lettera Arturo Graf – qualche nuovo frutto del suo acuto e singolare umorismo”. La chiusura è ossequiosa, ma il giudizio dell’anziano poeta e critico è esatto.

Andando oltre gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, l’interesse per il nostro Autore ci spinge a lanciare un’occhiata al suo rapporto con Torino negli anni che verranno, dedicati precipuamente all’attività teatrale, lasciando aperta la porta per un’analisi ben più completa quale l’argomento meriterebbe. A prescindere da ragioni di carattere affettivo, entrando in questa nuova fase di attività i rapporti di Pirandello con Torino sono destinati ad intensificarsi perché Torino era sede di due importanti teatri di livello nazionale, che sono il Carignano e l’Alfieri, a cui si aggiungerà poi un terzo, il “Teatro di Torino”, fondato dal prestigioso uomo d’affari e mecenate Riccardo Gualino.

Culturalmente, questo rapporto si può incentrare sulla figura di due importanti critici teatrali, che si pongono ai poli opposti: Antonio Gramsci critico teatrale del giornale L’Avanti!, e, non contemporaneamente ma pochi anni più tardi, Domenico Lanza, critico teatrale della Gazzetta del Popolo.
La prima rappresentazione della commedia Il piacere dell’onestà avvenne al teatro Carignano il 25 novembre 1917 con la Compagnia Ruggero Ruggeri e Vera Vergani, riscuotendo un notevole successo.

Tra i testimoni di quella serata c’era Gramsci che scrisse la recensione dello spettacolo per l’edizione torinese dell’ “Avanti!”, di cui trascrivo il primo brano: “Luigi Pirandello è un “ardito” del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensieri. Pirandello ha il merito grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione”. Un Pirandello dunque apprezzato perché culturalmente “innovatore” e per la sua originalità irripetibile di artista.

Ma già nell’aprile di quell’anno Gramsci aveva preso una posizione chiara e netta sul teatro di Pirandello dopo la rappresentazione contrastata di Liolà al teatro Alfieri: “Liolà è il prodotto migliore dell’energia letteraria di Luigi Pirandello”.
Liolà fu ritirato momentaneamente dal repertorio di Angelo Musco dopo le rumorose proteste in teatro alla fine del terzo atto di giovani cattolici del giornale Il Momento, che avevano accusato l’autore di oscenità, e Gramsci commenta: “Liolà non finisce secondo gli schemi tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio, e perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non poteva finire che così com’è, e pertanto finirà con l’imporsi”.

Aveva scritto Pirandello al figlio Stefano, prigioniero di guerra in Austria: “Liolà è venuto proprio bene…è stata la mia villeggiatura…è così gioconda che non pare opera mia… questa è opera che vivrà a lungo”. Liolà è una “commedia campestre”, ed anche se l’atmosfera è del tutto diversa, quella parola “villeggiatura” non può non farci ritornare col pensiero da dove siamo partiti, alla villeggiatura a Coazze nel 1901, a quel mese di lietissima pace (come si espresse Pirandello stesso, scrivendo alla sorella per il Natale di quell’anno) di una vacanza intesa come serena evasione in seno alla natura, come ritorno alla vita “ingenua” della campagna.
“...Liolà è così gioconda che non pare opera mia”: io penso che l’artista riesce a vivere attraverso i suoi personaggi come vorrebbe, libero dai condizionamenti esistenziali e sociali.

Liolà “non poteva finire che così com’è”: Gramsci considera Liolà opera artisticamente riuscita a ragione della sua intima coerenza, e a noi sembra che l’analisi di Gramsci mantenga ancora tutta la sua validità anche perché ben inquadrata dal punto di vista storico e sociologico: Liolà è una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell’arte figurativa vascolare del mondo ellenistico (Come non pensare a quel vaso greco del V secolo a.C., a figure rosse su fondo nero, che fu tanto caro a Pirandello in vita, e che poi contenne per decenni le sue ceneri finché non furono tumulate sotto il pino della Casa del Caos nella campagna di Agrigento?). “C’è da pensare – prosegue Antonio Gramsci in quella recensione del 4 aprile 1917 sull’edizione torinese dell’ “Avanti!”- che l’arte dialettale così come è espressa in questi tre atti del Pirandello, si riallacci con l’antica tradizione artistica popolare della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei campi piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia odierna, là dove questa tradizione si è conservata più viva e più sincera. E’ una vita ingenua, rudemente sincera, in cui pare palpitino ancora i cortici delle querce e le acque delle fontane: è una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un’opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la vita organica” (allora l’interprete ideale di Liolà fu Angelo Musco, poi mi sembra fu interpretato da Domenico Modugno, oggi l’interprete potrebbe essere Roberto Benigni?…)

Abbiamo ancora altre recensioni torinesi di Gramsci: una recensione del 27 febbraio 1918 del Berretto a sonagli, rappresentato al teatro Alfieri nella versione originaria in dialetto da Angelo Musco. Gramsci giudica la commedia “un prodotto autentico del temperamento personalissimo dell’autore”, ma non la considera esteticamente riuscita poiché “la dimostrazione soverchia l’azione”. Arriviamo così alla critica molto dura di Gramsci al “verbalismo pseudofilosofico” di Pirandello nella recensione del Giuoco delle parti sull’edizione torinese dell’”Avanti!” del 6 febbraio 1919. La commedia era andata in scena per la “prima” nel dicembre 1918 sempre nel repertorio di Ruggero Ruggeri e Vera Vergani, che aveva compreso, come abbiamo visto, anche Il piacere dell’onestà. Insomma l’apprezzamento di Gramsci è soprattutto di carattere ideologico per il Pirandello “operatore di cultura” in quanto innovatore, mentre per l’arte di Pirandello manifesta riserve frutto di una formazione estetica fondamentalmente crociana.

L’altra figura dell’ambiente culturale torinese a cui avevamo fatto cenno, è quella di Domenico Lanza, critico teatrale della “Gazzetta del Popolo”, con il quale Pirandello ebbe un clamoroso scontro che vale la pena di ricordare perché fu un episodio, a dire il vero, esilarante ed insieme significativo di un certo clima dell’epoca. [6]

 [6] Traggo le notizie circa questo episodio da Gaspare Giudice, Luigi Pirandello, op.cit. cap.VI il paragrafo “Ciascuno a suo modo”, pp.380-386.

Siamo nel 1924, Pirandello ormai aveva conquistato il pubblico ed ogni sua prima rappresentazione era un evento. E’ di quell’anno la commedia Ciascuno a suo modo, che ricorda nel titolo il motto del campanile di Coazze, Ognuno a suo modo, che aveva tanto colpito Pirandello quando era venuto nel paese in villeggiatura. Preannunciando la commedia in un’intervista sul “Giornale di Sicilia” del 10 aprile 1924, Pirandello, mettendo le mani avanti e mostrando di divertirsi allo scandalo, aveva detto: “In Ciascuno a suo modo avvengono cose da pazzi”, facendo il verso, evidentemente, ai suoi detrattori.

Bemporad, nuovo editore di Pirandello dopo Treves, pubblicò il libretto della commedia pochi giorni prima del debutto. Domenico Lanza, che in quegli anni insieme a Renato Simoni e Marco Praga di Milano, e Adriano Tilgher di Roma, era tra i critici teatrali più autorevoli, notoriamente non favorevole alle opere di Pirandello, si buttò sul libretto e ne stilò una lunghissima recensione demolitrice sulla “Gazzetta del Popolo”, zeppa di giudizi spregiativi: “…la nuova commedia di Luigi Pirandello non esce dai confini d’una creazione non solo comune e banale, ma travagliata dagli sforzi d’un barocchismo insignificante e inane, e in parecchi momenti di assai discutibile buon gusto, e di ancor più discutibile forza di idee e abilità di forme… manca la guida della misura e dell’equilibrio mentale…”; i personaggi sono “un’accolta di morbosi cerebrali, pazzi o semipazzi, decadenti della volontà , tormentatori di sé e degli altri, svuotati d’ogni persuasiva umanità e congegnati artificialmente come puri macchinismi dialettici…”ecc. ecc.

Domenico Lanza, un “torinese di stampo antico, – come scriveva Lorenzo Gigli, critico letterario suo collega alla “Gazzetta del Popolo” di intransigente dirittura, di alto e coraggioso sentire”, evidentemente non poteva sopportare Pirandello, forse per una vera e propria incompatibilità di carattere, e neppure temeva di andare contro la moda.

Pirandello prontamente volle vendicarsi con una ”lettera al direttore” del Corriere della Sera tre giorni prima della rappresentazione in Milano, che è tutta una spassosa presa in giro del suo avversario, ed anzi ne approfittò per creare ancora una volta un magistrale gioco degli specchi tra finzione e realtà.

…il signor Domenico Lanza, mio feroce e riveritissimo nemico, – scrive Pirandello – senza aspettare che la mia nuova commedia fosse rappresentata, non dico a Torino (dove pur sarà tra una ventina di giorni) ma neppure a Milano, le rovescia addosso sulla “Gazzetta del Popolo” quattro colonne di vituperi. Dio mi guardi dal volergliene male, ché anzi, gliene sono gratissimo. Ed ecco perché. Nel primo degli intermezzi corali della commedia sono introdotti anche i critici drammatici a dare il loro parere sul primo atto di essa… Ora, per osservare fino allo scrupolo questa obiettività che mi sono proposta, mi par lecito approfittare, come d’una fortunata congiuntura, del giudizio preventivo che il sig. Domenico Lanza ha voluto fare della mia commedia, e farò ripetere questo suo giudizio in buon piemontese da uno di quei critici drammatici … E il signor Domenico Lanza , di qua a venti giorni, allorché la commedia sarà rappresentata a Torino, potrà risparmiarsi di scriverne ancora sulla “Gazzetta del Popolo”…”.

Ciò che più colpisce, al di là del duello verbale tra i due personaggi, sono le reazioni che seguirono alla polemica. La lettera di Pirandello sul “Corriere della sera” provocò il risentimento dell’Associazione della Stampa Subalpina, che fece pubblicare un ordine del giorno del suo Consiglio direttivo dove prendeva le difese di Domenico Lanza, autore di un giudizio severo sì, ma, secondo loro, “espresso in forma piena di dignità e di rispetto”, stigmatizzando invece “la risposta acre e sarcastica” di Luigi Pirandello; e deplorava “il fatto nuovo” che il “grande giornale milanese” avesse ospitato, contro “il buon costume giornalistico”, “le espressioni evidentemente inopportune ed esorbitanti in banali quanto ingiuste offese per la gente subalpina”, (e pensare che il bel titolo della sua commedia, Ciascuno a suo modo, Pirandello l’aveva preso proprio dal motto sul campanile della chiesa d’un paesello montano piemontese come Coazze, vicino a Torino, dove aveva passato una felice vacanza!).

Che, in effetti, Pirandello fosse riuscito a mettere alla berlina l’autorevole critico torinese è vero, ma non si capisce perché ciò avesse recato offesa a “tutta la gente piemontese”! Evidentemente l’ironico richiamo del Pirandello (dottore in filologia romanza e non alieno da compiaciute citazioni dialettali in romanzi come Suo marito e Il fu Mattia Pascal) al “buon piemontese” in cui avrebbe fatto esprimere l’illustre critico torinese nella sua commedia, [7] e dall’altra parte il richiamo sussiegoso dell’Associazione Subalpina al “grande giornale milanese” (con tutto questo susseguirsi di aggettivi…geografici), manifestava il serpeggiare di un clima di rivalità regionalistica tra la vecchia capitale sabauda e Milano, città moderna per eccellenza.

 [7] Fu un certo Cataneo, l’attore che contraffece la figura di Domenico Lanza, pare abilmente (da G. Giudice op. cit. pag. 382 n.)

Sta di fatto che in questo caso, non diciamo tra Torino e Milano, ma tra Domenico Lanza e Pirandello, il secondo ebbe la meglio, perché al Teatro dei Filodrammatici, quella sera del 22 maggio 1924, il pubblico milanese affluì in modo straordinario come rispondendo ad una sfida, e Ciascuno a suo modo, rappresentata dalla Compagnia Niccodemi, con Vera Vergani e Luigi Cimara, riscosse un successo trionfale. Anche la recensione di Renato Simoni, con qualche riserva, fu favorevole.

Tuttavia, nonostante il successo, dopo questa prima tournée la commedia, mentre fu in vita Pirandello, non fu più rappresentata in Italia, forse, come ipotizza Giudice, per difficoltà tecniche in quanto la rappresentazione richiedeva una cinquantina di attori in scena.

La mia impressione è che Pirandello non abbia goduto, per un lungo periodo, di molta attenzione e simpatia da parte della stampa torinese in una città piuttosto tradizionale, eccezion fatta per il Gramsci dell’edizione torinese dell’Avanti!.

Se ci ricordiamo quanto raccontato poche pagine sopra, Onorato Roux, malgrado le pressanti richieste di Pirandello, non pubblicò il romanzo L’Esclusa sulla Stampa di Torino nel 1900, per poi pubblicarlo sulla Tribuna di Roma l’anno dopo; il che forse va messo in rapporto con un eventuale parere negativo di Dino Mantovani (1862- 913), critico letterario della Stampa fin dalla fondazione del giornale, ammiratore entusiasta di Gabriele D’Annunzio, che nella sua abbondante bibliografia praticamente ignorò Luigi Pirandello. [8]

 [8] Dino Mantovani, Pagine d’arte e di vita, con allegato saggio bibliografico, Torino ed. STEN,1915.

“Il Momento”, giornale cattolico, fece addirittura una crociata contro la commedia Liolà, ottenendo la sospensione delle recite (aprile 1917). Lorenzo Gigli, collega di Domenico Lanza alla Gazzetta del Popolo come critico letterario per un lunghissimo periodo che arriverà fino alla sua morte negli anni sessanta, nella sua attività solo di sfuggita toccherà l’argomento “Luigi Pirandello”. [9]

 [9] Il Pirandello stesso, invece, aveva scritto sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino, il 17 gennaio 1909, una recensione (elogiativa) del romanzo La Camminante di Giustino Ferri.

Come abbiamo prima accennato, in Torino al Carignano e all’Alfieri, teatri di livello nazionale, si aggiunse più tardi il “Teatro di Torino”, creazione di Riccardo Gualino, che ebbe però una vita breve seppur brillante, come tante altre creazioni di questo mitico personaggio, [10] la sua attività essendo durata dal 1925 al 1931: era uno fra i pochi teatri esistenti nel mondo dedicati sia all’arte lirica che all’arte drammatica, e alle danze, alla musica sinfonica e da camera .

 [10] Riccardo Gualino, Frammenti di vita e pagine inedite, con allegato l’elenco completo di tutte le manifestazioni del Teatro di Torino (1925-1930), Roma, ed. Famija Piemonteisa 1966.

Oggi, in Via Montebello all’angolo con Via Verdi, a pochi passi dalla Mole Antonelliana, si può ancora vedere, ai margini di un’area devastata da un bombardamento dell’ultima guerra, l’architrave di un probabile ingresso con la scritta in rilievo “TEATRO DI TORINO”: quasi un reperto archeologico.

Questo teatro, creato non a scopo commerciale ma per rinnovare il gusto italiano con spirito moderno e respiro internazionale, volle e poté godere di un repertorio selezionatissimo e di alta qualità; ebbe senz’altro la sua importanza nella storia della cultura torinese, ma per altro verso restò un’ iniziativa d’élite che non conquistò il pubblico torinese, secondo le stesse sincere ammissioni di Gualino (vedi “Il teatro di Torino” da op.cit. pp.97-104).
Proprio per i suoi intenti innovatori il Teatro di Torino diede ampio spazio all’opera e alle opere di Pirandello. Così, per la sezione “commedie e drammi”, il teatro si apre con la Compagnia del Teatro d’Arte di Roma diretta da Luigi Pirandello, con un programma che copre i mesi di dicembre 1925 e gennaio 1926, e la prima opera rappresentata fu Sei personaggi in cerca d’autore con Marta Abba, e, fra gli altri, Gino Cervi. Seguono Vestire gli ignudi, poi Nostra Deadell’amico Massimo Bontempelli; Così è se vi pare; Enrico IV; Il piacere dell’onestà.
Nel febbraio del ’26 abbiamo le rappresentazioni del “Teatro Pitoeff” in lingua francese, con la mitica coppia di Georges e Ludmilla Pitoeff. Tra queste rappresentazioni l’Enrico IV e i Sei personaggi in cerca d’autore, in francese.
Il 14 novembre 1929 fu rappresentato, in prima assoluta, il dramma O di uno o di nessuno con la Compagnia Almirante-Rissone-Tòfano. Nel dicembre dello stesso anno arriva al Teatro la Compagnia di Marta Abba con la prima rappresentazione italiana di Lazzaro, (il dramma era stato rappresentato la prima volta in Inghilterra, tradotto, il 9 luglio dello stesso anno).

Sempre la Compagnia di Marta Abba, in quella tournée, rappresenta, insieme ad opere di altri autori, anche Come prima meglio di prima.

Nel gennaio 1930, con la Compagnia di Ruggero Ruggeri vengono rappresentate Il piacere dell’onestà, Enrico IV, Tutto per bene.
Il 14 aprile 1930, abbiamo nuovamente la prima rappresentazione italiana di un’opera già rappresentata in tedesco, a Koenigsberg, il 25 gennaio di quell’anno: si tratta del dramma Questa sera si recita a soggetto, terza ed ultima opera della trilogia del “teatro nel teatro”. Per l’occasione era stata costituita appositamente una compagnia diretta da Guido Salvini. [11]

 [11] Nella sezione “Balletti e Danze” del citato elenco delle manifestazioni, in data 6 e 7 marzo 1928 troviamo due rappresentazioni del “Teatro della Pantomima Futurista” diretto da Enrico Trampolini, direttore d’orchestra Franco Cascola, e tra i vari quadri anche La Salamandra, con sceneggiatura di Pirandello e musica di Massimo Bontempelli.

Come si vede, ci troviamo di fronte al fatto che nuove creazioni di Pirandello hanno la loro prima rappresentazione all’estero e in traduzione: è l’epoca di lunghi soggiorni di Pirandello in Francia e ancor più – quasi due anni – in Germania, una specie di esilio perché era stanco dell’Italia e più apprezzato all’estero. Mi sembra non sia un caso che questa volta, in un ambiente ben diverso dalle esperienze passate, egli ritorni in Italia con le sue opere attraverso Torino.
E’ la Torino di grandi promotori della cultura come Riccardo Gualino, appunto, e Lionello Venturi, suo consigliere artistico ed amico, ed Edoardo Persico, che nel campo della pittura, con il suo intervento nel 1928, diede vita al Gruppo dei Sei.

E’ proprio Torino, questa volta, che rispetto a Milano è in posizione più eccentrica nel contesto nazionale per ragioni geografiche, sociali e politiche, ad assumere il ruolo di città moderna, di città all’avanguardia, che guarda oltre i confini.

Torino, come si sa, si trova ad uguale distanza da Roma e da Parigi (e Gualino aveva persino ventilato l’idea di fondare a Parigi un grande istituto per giovani artisti italiani). Torino, “la città meno fascistizzata d’Italia” [12], che Mussolini detestava, era la città dov’era nata la classe operaia, la città di Gramsci e Gobetti, ed il regime fascista non approvò mai totalmente una così dichiarata manifestazione di internazionalismo culturale; fra l’altro Lionello Venturi, il grande consigliere ed amico di Riccardo Gualino, fu uno dei solo undici professori universitari che non prestarono giuramento al regime fascista (R. De Felice, op.cit., pag.109.)

 [12] Renzo De Felice, Mussolini il duce, gli anni del consenso (1919-1936), Torino, ed. Einaudi 1974, pag.81.

Ritornando al periodo storico del soggiorno di Luigi Pirandello a Coazze, riguardo la sua attività letteraria vogliamo almeno notare che gli anni tra ottocento e novecento sono quelli in cui Pirandello si dedica soprattutto alla narrativa. Le prime opere teatrali andranno in scena una decina di anni dopo; ma quel che ci preme sottolineare è la continuità dell’arte pirandelliana per due ragioni uguali ed opposte: da una parte il valore artistico delle sue novelle e dall’altra il fatto che, generi a parte, tutta l’arte pirandelliana è arte drammatica nella sua essenza, perché è movimento, dialettica, e con un linguaggio parlato esprime un sentimento che chiede di essere rappresentato.
Così quasi tutte le sue opere teatrali nascono da una precedente novella, ed il passaggio dalla narrativa all’arte drammatica è avvenuto in buona parte per un fattore contingente: il teatro attirava più pubblico e rendeva di più ad un uomo che scriveva anche per vivere. Le novelle di Pirandello non sono “arte minore”, anzi in certi casi, specialmente nelle prime prove teatrali, la novella da cui nasce la commedia è un lavoro più riuscito e più convincente della commedia stessa. Secondo me, questo è il caso della novella Il nido del 1895, esclusa poi dalle “Novelle per un anno”, dalla quale Pirandello trasse La ragione degli altri, sua prima commedia in tre atti. La novella ottocentesca si può leggere ancor oggi con interesse e partecipazione, non si presenta facile impresa, invece, la rappresentazione della commedia, tanto che Massimo Castri nel maggio del 2001, per l’inaugurazione del nostro anno pirandelliano, ce ne ha offerto qui al Teatro Gobetti, una edizione scarnificata che si sosteneva più sul virtuosismo del regista e degli attori che sul testo dell’autore.

Un elemento fondamentale dell’arte pirandelliana è l’umorismo, che l’Autore stesso teorizzò nel saggio omonimo, L’umorismo, del 1908. A mio parere l’umorismo scatta nell’opera pirandelliana come reazione, e difesa, alla perdita di fede nell’assoluto, ma quello che mi preme notare è che l’umorismo in Pirandello non è sarcasmo (se mai ironia) cioè non implica un atteggiamento impietoso, bensì esprime una profonda e spesso indulgente simpatia umana. Il romanzo “coazzese” Suo marito ne è un eloquente esempio.

All’inizio di questo lavoro abbiamo posto una citazione dal Fu Mattia Pascal, che è una veduta assai familiare per chiunque conosca Torino, ed esempio di natura vista come stato d’animo. Si tratta del “ponte della Gran Madre”, con quella “rapida” d’acque, subito dopo il ponte, tuttora esistente. Pirandello mette in rilievo con straordinaria intensità la limpidezza del cielo del Piemonte, così come aveva fatto per lo stesso luogo il Bellotto nella veduta “L’antico ponte sul Po a Torino” che si trova alla Pinacoteca Sabauda e non è affatto improbabile che Pirandello ivi l’avesse vista; la stessa limpidezza resa dai paesaggi della Val Sangone del pittore Marco Calderini intorno agli anni della villeggiatura coazzese di Luigi Pirandello.

Silvio Montiferrari – 2003

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