Quella volta che il fascismo rovinò la fama di Pirandello a New York

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Di Carmelo Fucarino

Furono tre lunghi mesi di delirio, una lunghissima ed estenuante via Crucis, in attesa di una chiamata, che confermasse e consolidasse la sua arte, un solo invito a realizzare sullo schermo la sua genialità. Da una porta all’altra, senza nessun esito concreto.

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Pirandello e il fascismo
Immagine dal Web.

Quella volta che il fascismo rovinò la fama di Pirandello a New York

da La voce di New York

Fu il 20 luglio 1935 che Luigi Pirandello sbarcò al faro di Ambrose a New York dal transatlantico Conte di Savoia, varato appena quattro anni prima, il 1931, per mano di Maria José. Il piroscafo non ottenne mai il nastro azzurro dell’Atlantico (Blue Riband), come il maestoso Rex (traversata 4 giorni, 12 ore e 53 minuti alla media di 29 nodi), ma in compenso lo superò per lusso e raffinatezza, con il suo salone Colonna che riprendeva in stile classico la galleria dell’omonimo palazzo.

Già nel dicembre del 1923 Pirandello si era imbarcato sul Duilio ed era approdato a New York, invitato e sponsorizzato da Henry Ford. G.B. Shaw, dopo avere assistito a Londra ad una replica, aveva fatto da intermediario con un impresario americano per la messinscena di I sei personaggi in cerca d’autore. La tournée era stata accolta con un qualche consenso di pubblico e di critica. Così scrisse a Marta Abba: “Allo scalo ho trovato…una rappresentanza della Società Italo-Americana, di cui sono ospite… associazioni d’Italiani emigrati… e all’uscita, una folla infinita, di migliaia e migliaia di persone, che mi hanno accolto come un sovrano con grida di evviva e applausi strepitosi. Non mi sarei mai aspettato tanto”.

Ma il viaggio principe delle eccelse e prospere speranze era stato propiziato nel 1935, quando un anno prima, il 1934, il commediografo impresario era già stato coronato con il Nobel. Era allora il drammaturgo osannato e riconosciuto in tutto il mondo, all’apice della sua intensa e costante attività teatrale. Da questo viaggio si aspettava una ulteriore affermazione nella nuova arte, la nuova Musa del Cinematografo, che aveva i suoi santuari negli States. Surclassando le glorie dei palcoscenici la nuova Musa prometteva successi planetari e folle immense di spettatori.

Furono tre lunghi mesi di delirio, una lunghissima ed estenuante via Crucis, in attesa di una chiamata, che confermasse e consolidasse la sua arte, un solo invito a realizzare sullo schermo la sua genialità. Da una porta all’altra, senza nessun esito concreto. Non se ne stette con le mani in mano. Ancora urgeva nella sua mente e nel suo cuore un mondo, tanti personaggi che ardevano di realizzarsi. Ebbe il tempo di scrivere la raccolta di novelle Una giornata e iniziò il romanzo, rimasto incompiuto, Informazioni su un involontario soggiorno sulla terra, progettò il romanzo Adamo ed Eva, la storia avveniristica e fantascientifica di due fanciulli che restano soli sulla terra per un cataclisma.

Non si trattava solo dell’invito della diva dell’epoca, Marlene Dietrich, che sperava di avere una parte in una riduzione cinematografica dalla commedia Trovarsi, il dramma dell’attrice scissa tra la realtà della scena e quella della vira, scritta per Marta Abba e da lei magistralmente interpretata al teatro dei Fiorentini di Napoli il novembre del 1932.

Lo eccitavano i contatti con le potenti major del cinema la Goldwyn Mayer, la Paramount, la Fox e l’Universal. Si riprometteva un progetto ciclopico, una lettura in chiave cinematografica delle sue Maschere nude. Eppure già dall’attracco non trovò quella folla delirante che lo aveva accolto la prima volta. Non si era reso conto che la tecnica e le prospettive del cinema erano assai diverse dal teatro in genere e in particolare dal suo teatro. Il cinema aveva uno sviluppo narrativo diverso, si avvaleva di altri strumenti tecnologici, di sequenze e letture della realtà che non trovavano rispondenze nella fissità di prospettive del palcoscenico. L’immagine e l’azione cinematografica seguivano altri processi narrativi, in cui tutto era visibile e reale, rispetto allo spazio concesso alla fantasia e all’intuizione del teatro. Nonostante la fama e l’apice della carriera fu la più cocente delle delusioni tanto da scrivere al figlio Stefano: «La nausea di cui m’ha riempito fino alla gola il contatto continuo di tre mesi con questa gente che s’occupa di spettacoli, che vive di spettacoli, offendendo brutalmente l’arte e quanto essa ha di più intimo e segreto».

Non si era forse reso neppure conto del contesto storico in cui si presentava a New York ad incassare i risultati del successo, sanzionato dal Nobel. L’atmosfera socio-politica era radicalmente mutata dal 1923, quando il fascismo era solo alle prime prove forzate, quando tutte le potenze lo ritenevano un’ubriacatura transitoria e passeggera. Erano passati sulla sua pelle gli anni dell’affermazione del fascismo, la sua “collateralità” negli anni in cui il movimento si era trasformato in regime. Erano noti i suoi trascorsi e le sue plateali collusioni. Era stato ricevuto a Palazzo Chigi da Mussolini al primo anniversario della marcia su Roma il 28 ottobre 1924, l’anno successivo era avvenuta la sua pubblica adesione con il telegramma al Duce, reso pubblico, in cui si dichiarava il “più umile e obbediente gregario”. Poi erano proseguiti i rapporti con Bottai presso il Min.Cul.Pop.

Dilaniante e malaccorta era stata la conferenza stampa in cui gli era stato rinfacciato il colonialismo etiopico, quando già tutte le Nazioni europee, civili e democratiche, avevano trovato il loro posto al sole, prima incontrastata e insuperata per metodi ed estensioni la Gran Bretagna, fino alla Germania con le sue guerre per il Marocco. La difesa di un diritto riconosciuto a tutte le nazioni europee e osteggiato all’Italia fascista come atto di barbarie era stato certamente troppo aspro per una Nazione che ha da sempre nascosto la polvere del colonialismo e neo-colonialismo sotto il tappeto.

Pirandello ribatté con una provocazione feroce: «Anche l’America era un tempo abitata dagli Indios e voi l’avete occupata. Se era diritto il vostro, lo è anche il nostro». Si possono immaginare le reazioni di un establishment che faceva le sue prove di colonialismo ferreo nell’America latina, a partire da quella dottrina Monroe del Congresso 2 dicembre 1823, isolazionista, ma perentoria nello slogan: «L’America agli americani».

Non meno sconvolgente e controverso dovette essere a Princeton il colloquio, di cui non sappiamo nulla, con Einstein nel campus dell’Institute for Advanced Study ove insegnava fisica, profugo ed emigrato alle leggi razziali della sua patria, la Germania. Qui si erano incontrati diverse volte durante questa inconsistente tournée e diffusa è la leggenda che il fisico tedesco avesse esclamato “Noi siamo parenti”. Le diagnosi e le analisi epistemologiche degli intellettuali azzardarono addirittura un parallelo tra il relativismo pirandelliano e la Teoria della relatività, mentre era evidente l’antitesi tra il singolare relativismo psicologico, su base irrazionale ed idealistico di Pirandello, siciliano e pur tuttavia universale, ed il relativismo positivista e scientista del fisico. Ne era consapevole lo stesso Pirandello, che in un intervista del 1922 per “Epoca”, rispose: «Ebbene, quei problemi erano unicamente miei, erano sorti spontanei nel mio spirito, si erano naturalmente imposti al mio pensiero. Solo dopo, quando i miei primi lavori apparvero, mi fu detto che quelli erano i problemi del tempo, che altri, come me, in quello stesso periodo si consumavano su di essi».

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