Di Giuliana Gugliotti.
La visione di Pirandello rispecchia un relativismo estremo, che poggia su contrasti irriducibili a priori, insiti, potremmo dire, nella stessa natura umana: contrasti che si intravedono e si ritrovano nella vita stessa dello scrittore, apparentemente tranquilla ma in realtà animata da un tormento interiore.
Luigi Pirandello: l’identità “decadente” dell’uomo moderno
Si racconta che quando nel novembre 1934, a seguito di un telegramma in cui gli veniva comunicata l’assegnazione del Premio Nobel, i giornalisti invasero l’abitazione di Luigi Pirandello, costringendolo a posare curvo sulla macchina da scrivere in favore delle fotocamere, l’unica parola che gli venne di scrivere, ripetutamente, su quel foglio bianco, fu: “Pagliacciate!”.
Questo aneddoto sintetizza, probabilmente meglio di tutta la sua produzione letteraria, la natura, la psicologia, l’essenza stessa dell’uomo Pirandello: un personaggio schivo, racchiuso nella sua solitudine popolata di personaggi fantastici da cui traeva spunto per i suoi racconti, refrattario, anzi quasi sdegnato da tutto ciò che è convenzione, recalcitrante alla sua stessa fama. Nato nel Giugno 1867 in un borgo siciliano dal profetico nome di “Caos”, figlio di una famiglia dell’agiata borghesia che andava acquisendo peso e status sociale nella neonata Italia, Luigi Pirandello non fu mai attratto dalla notorietà, considerandola l’apice dell’inutilità di una vita che, secondo la sua filosofia, era semplice finzione, “una molto triste buffoneria” da cui, l’uomo che, elevandosi, ha scoperto l’inganno delle “maschere”, non può trarre più “né gusto né piacere”. E, paradossalmente, fu proprio l’amaro nocciolo di questa sua visione del mondo, che trasmigra, forse nel tentativo di trovare una soluzione alla disillusione della vita, in tutte le sue opere, a renderlo uno dei padri immortali della letteratura del Novecento, precursore e insieme esponente di spicco del Decadentismo Italiano.
La produzione letteraria di Pirandello spazia dalla saggistica, alla novellistica, alla narrativa: ma forse più di tutto è la drammaturgia a portargli il successo di cui ancora oggi gode, come secondo autore più rappresentato in teatro dopo Shakespeare. Forse perché è proprio nella scrittura teatrale, soprattutto quella meta-teatrale, che Pirandello riesce, meglio che altrove, a dare piena espressione alla sua contrastata visione del mondo: sulla scena teatrale i personaggi assumono vita propria – si pensi ai “Sei personaggi in cerca d’autore” – e, bucando la tradizionale quarta parete che li separa dal pubblico, acquistano una corposità tutta nuova che li contrappone alla consueta piattezza delle rappresentazioni bidimensionali, trasfigurandosi da personaggi di fantasia in esseri umani. Lo stesso fenomeno che avviene, seppur in maniera meno evidente, nella lettura dei romanzi pirandelliani: l’impressione, pur se privata, che il lettore ne ricava, è che protagonisti come “Il fu Mattia Pascal” o Vitangelo Moscarda di “Uno, nessuno e centomila” escano fuori dalla trama narrativa, senza tuttavia diventare “reali”, ma restando intrappolati nel limbo infernale della vana ricerca della propria identità perduta, mentre il lettore si trova catapultato all’interno dell’intreccio, smarrendo a sua volta la certezza della propria identità.
E l’identità è senza dubbio, insieme alla concettualizzazione dell’umorismo, uno dei temi centrali della poetica di Pirandello: affascinato dalla psicoanalisi freudiana e ossessionato dall’idea dell’incomunicabilità tra gli uomini, maturata probabilmente negli anni che visse a stretto contatto con la moglie Antonietta (la quale, stravolta dalla pazzia dopo che un disastroso crollo finanziario si era abbattuto sulla famiglia, lo accusava di tradimenti inesistenti pretendendo da lui un’ammissione di colpa), Pirandello dedicò buona parte della sua produzione letteraria a tentare di dar voce a quello che era un disagio vissuto nell’intimo della sua vita famigliare. L’identità, secondo Pirandello, non esiste se non come maschera che, più o meno consapevolmente, ciascun individuo sceglie di indossare; e quando l’immagine che ciascuno ha di se stesso non coincide con quella che gli altri hanno di lui, l’inganno cade, e l’esistenza umana si mostra in tutta la sua miseria, sospesa nell’inconciliabilità tra Vita e Forma, tra essere e divenire. Emerge così tutto il malessere dell’uomo moderno, per cui l’Altro non è che uno specchio deformante, che rimanda un’immagine distorta di sé; un uomo condannato alla solitudine e all’incomprensione con l’Altro, che non può trovare una definizione identitaria, se non rassegnandosi a essere “Uno, nessuno e centomila”, cercando di trarre beneficio dalla maschera che gli altri gli forgiano addosso (Rosario Chiàrchiaro, La patente), oppure rifiutando la propria identità socialmente connotata e avviandosi in solitudine verso l’inevitabile follia (Enrico IV).
La visione di Pirandello rispecchia dunque un relativismo estremo, che poggia su contrasti irriducibili a priori, insiti, potremmo dire, nella stessa natura umana: contrasti che si intravedono e si ritrovano nella vita stessa dello scrittore, apparentemente tranquilla ma in realtà animata da un tormento interiore. Un tormento che è sempre figlio dell’inconciliabilità tra due opposti, in cui l’uomo Pirandello era esso stesso imbrigliato: la sua vena letteraria ingabbiata nei doveri della modesta professione di insegnante; l’amore per la moglie svilito dall’improvvisa pazzia di lei, che Luigi sopportò come un fardello fino a quando fu costretto ad acconsentire al suo internamento (1919); la fede negli ideali del Risorgimento e dell’unificazione Italiana (il padre, Stefano, fu un garibaldino) sfociati storicamente nel Fascismo cui Pirandello si vide “costretto” in qualche modo ad aderire, figurando come uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, per salvaguardare i suoi ideali patriottici e la propria produzione artistica, pur seguitando ad affermare la propria apoliticità e subendo addirittura la “censura” da parte del Regime con l’accusa di disfattismo. Un disfattismo che, indubbiamente, emerge prepotentemente nella controversa opera pirandelliana, ma che va letto come frutto delle vicende personali dell’autore, oltre che come espressione di un periodo storico in cui l’uomo si ritrova improvvisamente a combattere, solo, contro il crollo di tutti i suoi valori e certezze; una solitudine e un senso di abbandono, “decadente”, appunto, di cui Pirandello resta sicuramente uno dei più sensibili, raffinati interpreti dell’epoca.
Giuliana Gugliotti
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