Di Gianfranco Bogliari.
Pirandello non ebbe certo un comportamento da gentiluomo, avendo sfogato in «Suo marito» un qualche malumore dovuto a invidia familiare o professionale (o forse entrambe).
Scintille tra Nobel: Luigi Pirandello
e lo strano caso del marito di Grazia Deledda
Prima parte
Se di “strano caso” si tratta, per di più tra due personalità così importanti nella nostra storia letteraria del primo Novecento, allora è necessario indagare su come sia nato, si sia svolto e (forse) concluso.
La “scena” si apre nel 1908, con una lettera di Pirandello non presago ancora degli eventi che sarebbero seguiti, ma in trepida attesa per l’uscita dei suoi più recenti parti letterari:
[…] Il nuovo volume di novelle, già consegnato al Treves, ha per titolo ‘ La vita nuda’. Son quattordici novelle. Manderò pure al Treves, spero in aprile, il romanzo ‘Suo marito’. Son partito dal marito di Grazia Deledda. Lo conosci? Un capolavoro, Ugo mio, dico il marito di Grazia Deledda – intendiamoci… […]. [1]
[1] Lettera a Ugo Ojetti da Roma, 18 dicembre 1908, in L. Pirandello, Carteggi inediti, a cura di S. Zappulla Muscarà (“Quaderni dell’Istituto di Studi Pirandelliani”), Bulzoni Editore, Roma, 1980, p. 28. Anche l’ editore Treves annuncia, sulla “Nuova Antologia” del 16 gennaio 1908, «la pubblicazione di Suo marito per l’anno in corso» (ivi).
La scrittrice sarda aveva sposato Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze a Cagliari – ma originario di Cicognara di Viadana, Mantova –, nel gennaio 1900. Dopo il matrimonio la coppia si trasferisce immediatamente a Roma, dove Palmiro si dedica anima e corpo a seguire e sostenere l’attività letteraria della moglie, già avviata con successo in Sardegna.
Fin dai primi tempi del loro soggiorno i coniugi Deledda-Madesani si inseriscono a pieno titolo nella vita culturale romana, come racconta Maurice Muret sul “Journal des débats politiques et littéraires” del 21 agosto 1936 (pochi giorno dopo la morte di Grazia), rievocando gli incontri e le gite fuori porta di un’allegra brigata di letterati nei primi anni del secolo:
C’era allora a Roma una bottega, non direi di begli spiriti, ma di buoni spiriti, dove si riuniva alla fine della giornata tutto ciò che si chiamava l’intelligenza nei tempi in cui era onorata in Europa. Questa simpatica officina si trovava nel Corso e serviva da ufficio di redazione alla celebre rivista “Nuova Antologia”. Il buon poeta Giovanni Cena vi faceva gli onori . È stato lui a presentarmi Grazia Deledda, nel suo piccolo ufficio, dove si trovavano ancora, quel giorno là, Pirandello e il professor Barzellotti. Il marito di Grazia Deledda venne a raggiungerci poco dopo e s’improvvisò, seduta stante, un picnic all’Acqua Acetosa. Ci si strinse in una carrozza o due, non mi ricordo. Il marito della romanziera, che qualcuno chiamava Grazio Deleddo, aveva preso posto sul sedile e il suo vestito, gonfio di due bottiglie d’eccellente vino del suo paese, infastidiva molto il nostro ‘vetturino’. [2]
[2] R. Dedola, Grazia Deledda. I luoghi, gli amori, le opere, Avagliano Editore, Roma, 2016, p. 231.
Sicuramente Pirandello quel giorno (e non solo) avrà osservato con interesse, professionale e personale, la scrittrice e il consorte; fonti certe ci dicono inoltre che non era estraneo all’invenzione e diffusione di quel nome declinato al maschile. [3]
Nella scena successiva un doppio salto, temporale e spaziale, ci porta in una stanza del Grand Hotel di Stoccolma nel dicembre 1927 [4]:
[3] Siamo agli inizi del secolo e già (dal 1905 almeno, subito dopo Il fu Mattia Pascal ) Pirandello lavorava al romanzo: «Intanto scrivo un altro romanzo umoristico: Suo marito. Il marito di una grandonna [sic], marito contabile e segretario. Figuratevi!» (Lettera a Luigi Villari da Roma, 10 marzo 1905, in R. Dedola, Grazia Deledda, cit., p. 232).
[4] Ricordiamo che Grazia Deledda vinse il premio Nobel per il 1926, ma lo ritirò il 10 dicembre 1927.
Una stanza da letto molto spaziosa e sobria […]. Grazia è seduta sul letto di tre quarti rispetto al pubblico. Porta gli occhiali. Sta leggendo un quotidiano. Entra Palmiro […]:
Palmiro: – Ancora leggi quella roba lì?
Grazia: – Così, giusto per non dimenticarmi da dove vengo.
Palmiro: – Che dicono stavolta?
Grazia: – Mah, le solite cose… I detrattori hanno di buono che spesso peccano di fantasia.
Palmiro: – Pirandello?
Grazia: – Anche, certo, non l’ha proprio buttata giù […]. C’è un’accusa nei miei confronti che ho persino imparato a capire…
Palmiro: – Un’accusa?
Grazia: – Certo, e ti dirò di più: è l’origine di tutto. (Cerca le parole adatte) Essermi rifiutata di mediare… Di offrire una possibile consolazione. Si sono abituati a confondere lo scrittore col cerimoniere. E invece lo scrittore è uno specchio. Riflette e ti mette davanti a quello che sei, senza sconti. Sennò non è uno scrittore. Vedi il buon Enrico Costa: quanta bellissima scrittura buttata via, quanto talento sprecato pur di farsi amare…
Palmiro: -E Pirandello…
Grazia: – No, Pirandello no, Palmiro: Pirandello è grandissimo, grandissimo.
Palmiro: – Non posso perdonarlo… Ti ha fatto una cosa troppo brutta.
Grazia: – Che cosa, quel romanzo dove tutti avrebbero dovuto riconoscere me e te? (Fa di spalle) Cosa ha ottenuto? Un pessimo romanzo…
Palmiro: – E ancora dici che è grandissimo?
Grazia: – Solo i grandissimi possono fallire così miseramente. Ma quel Mattia Pascal che meraviglia! È bellissimo, è moderno, ti dirò che gliel’ho persino invidiato…
Palmiro: – E ora tocca a lui… [5]
[5] M. Fois, Quasi Grazia, Einaudi, Torino, 2016, pp. 45-51: «Un perfetto “romanzo in forma di teatro”», come recita la presentazione dell’editore.
Un passo indietro, e siamo al 1911 per continuare a seguire il percorso editoriale di Suo marito, il «pessimo romanzo» cui alludeva Grazia nel testo di Fois. Percorso ancora tranquillo, se Pirandello scrive ad Alberto Albertini, capo redattore del “Corriere della Sera” e fratello del direttore Luigi, per scusarsi del mancato invio di novelle in quanto «– stretto da un impegno col Treves –» deve «assolutamente consegnare il manoscritto del romanzo Suo marito alla fine del mese venturo». [6]
[6] Lettera ad Alberto Albertini da Roma, 6 febbraio 1911, in L. Pirandello, Carteggi inediti, cit., p. 161. Lo scrittore collaborava al «principe dei nostri giornali quotidiani» dal 1909.
E qui, a movimentare l’azione, entra in scena per un momento, ma da protagonista non privo di una certa arguzia, Emilio Treves in persona che nel settembre 1911 scrive a Pirandello, giustificando, con una curiosa lettera, di non poter stampare il romanzo ‘Suo marito’ […]. Finge di aver rifiutato un romanzo «bello, interessante» che aveva per titolo ‘Sua moglie’ dove si alludeva «in modo evidente alla moglie di Lei, caro signor Pirandello», «mettendola in ridicolo in modo tale che non si può fare a meno di riconoscerla». Pubblicando ‘Sua moglie’, già accettato e poi respinto, avrebbe mancato «ad ogni delicatezza» e avrebbe dato a un suo autore, lui: Pirandello, «un grave dispiacere a vedersi messo in burletta». Così, conclude: «Ella ha capito la parabola, e non ha bisogno di altre parole per spiegare l’impossibilità morale in cui mi trovo di pubblicare ‘Suo marito’». È un tratto di grande sensibilità, accresciuto dalla richiesta di non serbargli «rancore» e di inviargli «un altro suo romanzo con qualche novella per “L’Illustrazione” e per il “Secolo XX”». [7]
[7] M. Grillandi, Emilio Treves, Utet, Torino, 1980, pp. 590-591.
La situazione familiare di Pirandello si era fatta sempre più drammatica, con la moglie Antonietta Portulano affetta da «una forma irrimediabile di paranoja» [8], che aggravandosi anno dopo anno porterà la donna al definitivo ricovero in una clinica per malattie mentali nel 1919. Il peso della famiglia (ci sono anche tre figli) grava da tempo tutto sulle spalle dello scrittore.
[8] Vedi lettera a Ugo Ojetti da Roma del 10 aprile 1914, in L. Pirandello, Carteggi inediti, cit. , p. 78.
Pirandello, che pure era stato molto esplicito riferendosi a Palmiro Madesani nella lettera a Ojetti del 1908, non sembra toccato dalla ‘delicatezza’ di Treves; e scrivendo ancora all’amico si mostra sorpreso e risentito per la decisione dell’editore:
Mio caro Ugo, mi capita un bel caso! Mando finalmente al Treves il ms del romanzo ‘Suo marito’ che – come sai – è dedicato a te e – come non sai – mi è riuscito veramente bene e tale che potrà avere – se gli saran candidi i fati – una grande fortuna. Ed ecco che cosa mi risponde il Treves! Evidentemente la D.dda, la quale ha saputo dell’invio da un giornale di Roma che mi ha “intervistato” è corsa al riparo dal Treves […]. Ti assicuro, mio caro Ugo, che è una persecuzione ingiustissima! Io non ho preso dalla realtà che un semplice spunto, il che è perfettamente legittimo; poi ho lavorato liberamente con la fantasia, ho inventato personaggi azioni e tutto. Non posso, pe’ brutti occhi della signora D. buttar via un’opera d’arte. Potrei forse costringere legalmente il Treves, che aveva accettato il romanzo ‘per contratto’, a stamparlo, ma non mi conviene, tu lo capisci. […] [9]
[9] Lettera a Ugo Ojetti da Roma, 30 luglio 1911, in L. Pirandello, Carteggi inediti, cit., p. 60.
E qualche giorno dopo, sempre a Ojetti:
[…] il Treves aveva già mandato in tipografia il manoscritto, che mi è tornato con le prime cartelle sporche di stampa […] Che povertà di spirito, che angustia mentale in quella Deledda! Non capire che, facendo così, stuzzica peggio la curiosità morbosa di questo sporco e meschino cortile di pettegolezzi che è il nostro odierno mondo letterario! E me ne duole! Perché ai lettori, che si preparano a una lettura pepata, il mio romanzo, che è schietta e pura opera d’arte, rischierà forse di parere insipido. Ma già, no! Ti assicuro che insipido non sembrerà… Basta. Accetto con gratitudine, mio caro Ugo, la tua seconda proposta: quella del Quattrini. […]. [10]
[10] Lettera a Ugo Ojetti da Roma, 3 agosto 1911, in L. Pirandello, Carteggi inediti, cit., p. 62.
Il romanzo sarà alla fine pubblicato nel 1911 dalla Casa Editrice Italiana di Attilio Quattrini, Firenze, nome altisonante, ma casa editrice di secondo piano; mentre Pirandello teneva molto all’editore Treves [11], questo sì di primo piano potendo vantare in catalogo autori come Verga, D’Annunzio, De Amicis e, dal 1905, Grazia Deledda. [12]
[11] Treves aveva pubblicato nel 1908 L’esclusa, primo romanzo dell’agrigentino e nel 1910 Il fu Mattia Pascal, uscito nel 1904 prima a puntate nella “Nuova Antologia”, poi in volume per le edizioni della rivista stessa.
[12] In quell’anno la scrittrice sarda pubblica da Treves la raccolta di novelle I giuochi della vita. Poi, dal 1910 fino al 1936, Treves sarà il suo editore esclusivo (vedi A. Dolfi, Grazia Deledda, Mursia, Milano, 1979, pp. 171-172).
Suo marito non è certo il più popolare fra i sette romanzi che Pirandello ci ha lasciato, da L’esclusa del 1901 a Uno, nessuno e centomila del 1926; è interessante però ancora oggi per il quadro dell’ambiente letterario romano che delinea [13], e soprattutto perché ha come protagonista uno scrittore, qui la scrittrice Silvia Roncella.
[13] Per approfondire, vedi: I cenacoli letterari nella Roma di inizio Novecento nel romanzo “Suo marito”, in Illusione e affabulazione in Pirandello e nel modernismo europeo (éd. B. Van des Bossche, M. Jansen et N. Dupré), Cesati, Firenze, 2013, p. 109-118.
Nei precedenti romanzi Marta Ajala (L’esclusa) scriveva, ma lettere, che saranno motivo della sua disgrazia; don Diego Alcozèr (Il turno) si limitava alle citazioni da Orazio e da Catullo, mostrandosi senza tanta fatica più colto dei suoi compaesani; Mattia Pascal era circondato dai libri in quanto bibliotecario, ma il primo (e unico, immaginiamo) che scrive è quello che stiamo leggendo e dove racconta in prima persona la sua vicenda.
Scrittrice di successo, Silvia Roncella si è trasferita a Roma da Taranto con il marito Giustino Boggiòlo che, fedelmente rispecchiando lo sbeffeggiato “Grazio Deleddo” Palmiro Madesani, le fa da contabile-segretario-agente letterario. È facile capire che se irritato è Pirandello per i tanti ostacoli frapposti dalla Deledda alla pubblicazione di Suo marito, altrettanto, se non più, è irritata la scrittrice per un romanzo che molti avrebbero letto con pettegola malizia, piuttosto che con interesse letterario. [14]
[14] Esaurita la prima edizione di Suo marito, Pirandello non ne permise più la ristampa (secondo la testimonianza del figlio Stefano ciò accadde per delicatezza verso la Deledda; o, forse, fu per timore di controversie legali, come ha immaginato qualche critico); ma intorno al 1934 ritorna sul testo del romanzo apportandovi notevoli cambiamenti. Questa seconda stesura rimase però incompiuta, arrestandosi all’inizio del quinto capitolo a causa della morte dello scrittore. Qual era il titolo scelto per la nuova edizione? Giustino Roncella nato Boggiòlo: quel primo soprannome, inventato malignamente per il marito della scrittrice sarda, Pirandello non lo avrebbe mai dimenticato.
Pirandello non ebbe certo un comportamento da gentiluomo, avendo sfogato in Suo marito un qualche malumore dovuto a invidia familiare o professionale (o forse entrambe). Ma se entriamo nel merito dei contenuti del romanzo ha sostanzialmente ragione: lo spunto narrativo ripreso dalla vicenda privata della scrittrice sarda, infatti, rimarrà davvero nulla più che uno spunto.
La questione però non si risolve qui, perché l’ostilità fra i due futuri premi Nobel durerà ancora a lungo: secondo Pirandello «la Deledda, che ottiene il riconoscimento nel 1926 – in quell’occasione egli muove commenti amari e sprezzanti su di lei nella corrispondenza con il figlio Stefano –, avrebbe ostacolato in ogni modo (ma invano) la candidatura dello scrittore siciliano per il 1934. Non risulta che ci sia mai stato alcun chiarimento tra i due, che peraltro si spengono a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: la Deledda muore il 16 agosto 1936, Pirandello il 10 dicembre successivo». [15]
[15] F. Danelon, Appunti per “Suo marito” di Luigi Pirandello, in Gli scrittori d’Italia. Il patrimonio e la memoria della tradizione letteraria come risorsa primaria, Atti dell’XI Congresso dell’ADI, Napoli, 26-29 settembre 2007, Graduus, Grottammare, 2008. Nel presente testo lo si cita dal sito: https://www.pirandelloweb.com/appunti-per-suo-marito-di-luigi-pirandello/. Saggio che, oltre a essere stato molto utile alla nostra ricerca, si consiglia per approfondire cronologia e contesto storico dell’ambientazione di suo marito.
A questo punto lo “strano caso” si chiude senza vere definitive risposte, senza un confronto fra le due parti in causa, senza altre prove da addurre agli atti. Nemmeno il rifacimento di Suo marito – il Giustino Roncella nato Boggiòlo, ultimo atto incompiuto di questa vicenda – introduce elementi nuovi a modificare il dissidio fra i due scrittori.
Concludendo la prima parte di questa ricerca non resta che prendere atto – con qualche malinconia di noi lettori – dell’ “appuntamento mancato” fra due grandi della nostra letteratura.
Che percorsero il loro cammino parallelamente senza mai incontrarsi, nonostante fossero tutti e due isolani di temperamento aspro e forte: ed alle rispettive patrie ancorati, succhiandone umori, introiettandone codici, patendone vincoli profondi. Tutti e due partiti dalla periferia estrema con un che di venturoso e di vago nel cuore, di confuse speranze, per fame di vita e di mondo, vagheggiando orizzonti vasti, ma poi, da quella periferia, slontanandosene nell’immaginazione. Tutti e due di tenace concetto e volontà ferrea, anche feroce: che è ciò che Pirandello ha sempre coltivato in sé, pur nelle gravi avversità familiari, ma che, forse, non voleva, né poteva, apprezzare in una donna. [16]
[16] M. Onofri, Un appuntamento mancato: Grazia Deledda e Luigi Pirandello in Saggi sul Novecento, Viterbo, Edizioni Sette Città, 2010, citato in R. Dedola, Grazia Deledda, cit., p. 239.
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Seconda parte
Quando si dice il caso…
Roma, 5 maggio 1905
Illustre Signor Conte,
La ringrazio vivamente della sua gentile cartolina e della sua bontà a mio riguardo. Aspetterò la risposta di M. Ganderax […]. Io ho ancora bisogno di ajuto, di incoraggiamento: sono ancora giovane, potrò fare ancora molto: ho trent’anni: alla mia età molti hanno cominciato, e sento che veramente è questa l’età in cui l’artista, guardando la vita al culmine, dirò così, della propria giovinezza, può gustarla e contemplarla come si contempla un paesaggio dall’alto di una collina, e riprodurla serenamente e fedelmente nella propria opera. In Italia la via letteraria è così aspra, così meschina: noi tutti scrittori italiani guardiamo verso la Francia come verso una terra di giustizia e di bellezza: ma Ella lo sa meglio di me, e sorriderà forse per la mia ingenuità […]. [1]
[1] M. Spaziani, Con Gégé Primoli nella Roma bizantina, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1962, pp. 266-267.
Quello stesso 5 maggio qualcun altro scriveva al ‘Signor Conte’:
[…] ho fiducia che una parola, come la Sua, autorevolissima, signor Conte, farà risolvere finalmente i direttori della Rivista [la “Revue de Paris”] ad accettare il mio romanzo, che già si pubblica tradotto in tedesco nelle appendici del “Fremdenblatt” di Vienna e presto si pubblicherà tradotto in inglese da M. Nathan Dole. Il signor Maurice Muret ne ha già parlato tre volte su la “Renaissance Latine”, sul “Journal des Débats” e ultimamente su la “Revue”. Qui alla “Nuova Antologia”, in men di sei mesi, è già esaurita la prima edizione e presto uscirà la seconda. [2]
[2] Ivi, p. 268, nota 2.
Cominciamo dal destinatario: il Conte è Giuseppe (Gégé) Primoli, personaggio in vista della cultura romana fra 8/900, amico, fra gli altri, di Gabriele D’Annunzio, Eleonora Duse, Matilde Serao, Cesare Pascarella. Oltre ad avere rapporti stretti con la Francia e l’ambiente artistico parigino (Alexandre Dumas figlio, Sarah Bernhardt…) era anche grande fotografo.
E veniamo ai mittenti: la prima lettera è di Grazia Deledda, che scrive per sollecitare la pubblicazione del suo primo romanzo ‘continentale’ (scritto cioè dopo il suo trasferimento a Roma) Nostalgie, facendo riferimento a Louis Ganderax, condirettore della “Revue de Paris” e critico letterario della “Revue des Deux Mondes”; il secondo corrispondente è Luigi Pirandello, che sollecita il conte Primoli affinché solleciti a sua volta il sunnominato Ganderax a pubblicare Il fu Mattia Pascal nella rivista che dirige.
L’ironia della sorte non poteva offrire occasione migliore per questa seconda parte dell’articolo intorno al caso di Suo marito, il romanzo in cui Pirandello aveva preso spunto dal marito-segretario di Grazia Deledda, provocando imbarazzo all’editore Treves che avrebbe dovuto pubblicarlo, e polemiche fra i due scrittori (mai affrontate in modo diretto, e nemmeno mai risolte).
Nel descrivere l’ambiente letterario romano, Pirandello aveva focalizzato lo sguardo proprio sulle strategie editoriali che nelle lettere a Primoli vediamo messe in pratica: entrambi gli scrittori, divisi qualche anno dopo (1911) riguardo al discusso romanzo, in questo momento sono uniti dal desiderio di veder diffuse e riconosciute le loro creazioni nel prestigioso ambiente parigino. Per soddisfare la curiosità del lettore diremo che le sollecitazioni epistolari ebbero diverso esito: la carrière in terra di Francia della scrittrice sarda, avviata già nel 1903, continuò felicemente anche negli anni successivi. [3]
[3] «La Deledda fu senz’altro lo scrittore italiano più largamente rappresentato nelle due grandi riviste parigine. Ecco il bilancio esatto. Nella “Revue des Deux Mondes”: Elias Portolu, aprile-maggio 1903; Cendres, febbraio-aprile 1905; L’ombre du passé , febbraio-aprile 1908. Nella “Revue de Paris”: “Contes sardes”, settembre e novembre 1905; La voie du mal, maggio-luglio 1908; La mort et la vie (Sino al confine), giugno-agosto 1910», Ivi, p. 80. Per chi volesse approfondire il tema della Deledda “francese”: M. Rasera, Varianti significative delle dinamiche familiari nelle edizioni italiane e francesi dei romanzi di Grazia Deledda, in La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, Atti del XVI Convegno Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, Adi Editore, Roma, 2014.
Pirandello fu meno fortunato: da una lettera a Primoli del 21 dicembre 1904 apprendiamo che la traduzione francese del Fu Mattia Pascal, di Henry Bigot, era già pronta; e da un’altra, del 20 gennaio 1905, veniamo a sapere che
questa traduzione si trova da circa tre mesi in esame presso la Direzione della “Revue de Paris”, la quale ha promesso di leggerla «dans le plus bref délai». Ebbene, sarebbe troppo signor Conte, se io, profittando dell’onore ch’Ella volle già una volta concedermi, le rivolgessi la preghiera di degnarsi ancora di spendere in mio favore una Sua tanto ambita, autorevolissima parola, perché il lavoro del signor Bigot e mio sia accolto dalla “Revue de Paris”? [4]
[4] M. Spaziani, Con Gégé Primoli nella Roma bizantina, cit, p. 268, nota 2. È interessante notare – en passant – il iconoscimento al traduttore del ruolo di coautore.
Ma le cose andavano per le lunghe. Dopo la ormai famosa lettera del 5 maggio 1905 eccone un’altra del 18 novembre:
Alla “Revue de Paris” hanno letto e gradito il mio romanzo Il fu Mattia Pascal, e han promesso al traduttore M. Henry Bigot, che lo avrebbero pubblicato con qualche taglio qua e là, cioè nei punti della narrazione che al signor Ganderax eran sembrati un po’ languidi […]. Son trascorsi circa tre mesi, e non solo il manoscritto non è ancora arrivato al Bigot, ma non gli hanno neppur risposto a una cortese lettera di sollecitazione. Ora essendo il mio romanzo piaciuto, ed essendo bene avviate le cose, io ho ferma speranza, signor Conte, che una sua autorevole parola al Ganderax sarebbe in questo momento preziosa per me e varrebbe a rompere l’indugio che tanto mi nuoce e mi costerna […]. [5]
[5] Ibidem.
La storia non finì bene, se il romanzo apparve in feuilleton nell’ “Echo de Paris” solo a partire dal 15 settembre 1909; mentre il “Journal de Genève” lo pubblica a puntate dal 22 luglio al 7 settembre 1910, lo stesso anno in cui sarà finalmente edito in volume dalla Casa editrice Calmann-Levy di Parigi.
Le amarezze derivate dalla difficoltà di diffondere Il fu Mattia Pascal in Francia , e all’opposto il constatare la fortuna della Deledda, potrebbero spiegare l’acrimoniosa ironia nei confronti del marito della scrittrice: accentuata, ovviamente, nelle lettere ad amici come Ugo Ojetti – e più esplicita nei confronti della Deledda stessa – rispetto alle pagine del romanzo. [6]
[6] Vedi, nella prima parte di questo articolo, le lettere a Ugo Ojetti in L. Pirandello, Carteggi inediti, a cura di S. Zappulla Muscarà (“Quaderni dell’Istituto di Studi Pirandelliani”), Bulzoni Editore, Roma, 1980.
Ci vorrà tempo prima che Parigi accolga senza riserve l’arte pirandelliana (e sarà soprattutto con il diffondersi delle opere teatrali); ma intanto Primoli introdusse lo scrittore negli ambienti francesi di Roma, e qui ci piace chiudere l’ affaire dei primi difficili rapporti fra Pirandello e la Francia «con una lettera finissima e davvero ‘pirandelliana’ » [7], che quasi quasi verrebbe voglia di interpretare come la studiata risposta all’incomprensione di una parte della cultura francese.
[7] M. Spaziani, Con Gégé Primoli nella Roma bizantina, cit., p. 80.
Leggiamone qualche riga:
Roma, 14 marzo 1908
Signor Conte,
l’invito ch’Ella mi comunica da parte di S. E. l’Ambasciatore di Francia per lunedì prossimo, mi pone in un gravissimo imbarazzo, ch’Ella forse non riuscirà nemmeno a immaginare.
L’imbarazzo mio consiste nella coda, Signor Conte, dove – com’Ella sa – suole anche annidarsi il veleno: in cauda venenum. Difatti la coda m’avvelena il piacere dell’invito. Io – arrossisco a confessarlo, ma è proprio così – io non ho frac, signor Conte: non ne ho mai avuto, in considerazione della mia indole schiva, che mi condanna a una vita assolutamente appartata e solitaria. […]
La prego di porgere i miei devoti ossequi e i miei più rispettosi ringraziamenti a S. E. l’Ambasciatrice e alla gentile Figliuola, per l’insigne fortuna, ch’io stesso m’invidio, della loro considerazione… [8]
[8] Ivi, p. 269. Appena segnaliamo, tanto è esplicita nella sua enfasi, la chiusa della lettera: «… l’insigne fortuna, ch’io stesso m’invidio…». Più interessante è ricordare che nel 1913 (sul “Corriere della Sera”) Pirandello pubblicherà una novella, L’abito nuovo, che sulla linea del suo canonico umorismo sviluppa (forse) lo spunto di questa occasionale, e quasi lunatica, risposta all’invito dell’Ambasciatore di Francia.
Per tornare al romanzo Suo marito (che ha come protagonisti la scrittrice Silvia Roncella e il consorte Giustino Boggiòlo, contabile-segretario-agente letterario, più o meno le funzioni che svolgeva Palmiro Madesani, marito di Grazia Deledda), ricordiamo che di fronte alle difficoltà di pubblicazione dovute alle riserve dell’editore Treves per delicatezza nei confronti della scrittrice, Pirandello, pur mostrandosi sorpreso, non si scoraggia e reagisce prevedendo altri editori più disponibili.
Né si fa scrupolo a suggerire al fidato Ugo Ojetti di “accennare”, con discrezione si raccomanda, all’eventuale nuovo editore “il retroscena stuzzicante” che rende il romanzo più appetibile dal punto di vista commerciale:
E mi rivolgo a Te per pregarti di proporre Suo marito ai Baldini Castoldi, ch’io non conosco. Vuoi? Il romanzo, ripeto, lanciato bene, potrà avere una grande fortuna. Tu forse, scrivendo, potresti anche, discretamente, accennare ai signori Baldini e Castoldi il retroscena stuzzicante. [9]
[9] Lettera a Ugo Ojetti da Roma, 30 luglio 1911, in L. Pirandello, Carteggi inediti, cit., p. 60.
Abbiamo già sottolineato come le strategie editoriali, oltre che praticate da Pirandello nella vita reale, sono anche tema centrale nel romanzo, a tal punto che un critico di oggi spinge così a fondo la sua analisi da affermare, presentando Suo marito in una nuova edizione del 2017, che la relazione di Silvia e Giustino
si potrebbe leggere – da una prospettiva attuale – anche come la storia di una ditta nuova, una start-up: Silvia e Giustino sarebbero due soci di una società di produzione e distribuzione di letteratura, nata dall’incontro di un genio della vendita e del marketing con un genio della letteratura. Le competenze e la responsabilità dei due soci sono divise in forma chiarissima: a Giustino, responsabile dell’ufficio vendite, competono gli investimenti dei ricavi sostanziali, che lui reinvestirà nella modernizzazione delle istallazioni di produzione e di pubbliche relazioni (Villa Silvia). Questo fa di Giustino una sorta di amministratore delegato, se non presidente, della piccola impresa. [10]
[10] M. Roessner, La sbalorditiva attualità di Pirandello, prefazione a Luigi Pirandello, Suo marito, Mondadori Libri, Milano, 2017, p. XIII.
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Chi ha allestito il museo “Casa Deledda” di Nuoro ha colto e messo in risalto qualcosa che è stato costantemente parte della vita personale e professionale della scrittrice, ovvero l’importanza cruciale delle lettere. Al centro della sua stanza da letto c’è il suo scrittoio con un calamaio, delle buste e della carta da lettere . In quell’angolo della casa, remoto rispetto al panorama culturale europeo, la Deledda utilizzò «al massimo e al meglio l’unico strumento che aveva a disposizione» [11] per affacciarsi al mondo della letteratura: la lettera. D’altra parte le missive, nel loro ritmo lento ma incessante, scandirono le giornate e i mesi della donna e dell’artista, con una valenza di assoluto punto di riferimento: ci appaiono come il diario di bordo di un navigante che si allontani per giorni dalle coste e che, per orientarsi e ritrovare il contatto con la terraferma, deve fissare il firmamento lontano. I carteggi rappresentano l’architettura grazie alla quale la scrittrice poté studiare a tavolino le sue opportunità, le sue relazioni; in poche parole predispose con la scrittura epistolare una struttura che le permise di realizzare il futuro sognato. Solo con le lettere riuscì a sconfiggere quel destino, tanto rievocato nelle sue trame come ineluttabile, riuscendo a spianarsi la strada verso gli obiettivi che le stavano a cuore. Altrimenti detto, la Deledda compose meticolosamente un vero e proprio “castello di lettere” funzionale alla realizzazione dei suoi sogni, sia artistici che personali. [12]
[11] L. Monne, Grazia Deledda. Una donna, un Nobel, Milano, Mursia, 1979, p. 79.
[12] Patrizia Linossi, Grazia Deledda epistolografa, Thesis Presented for the Degree of Doctor of Philosophy in the Italian Section of the School of Languages and Literatures, University of Cape Town (UCT), 2015, p. 5. Dal Web.
È sembrata opportuna, per proseguire con Grazia Deledda e le sue mirate strategie editoriali, questa esemplare citazione tratta da una tesi di dottorato discussa nel 2015 all’Università di Città del Capo.
Le lettere dunque: sì, Pirandello aveva visto giusto quando, disegnando in Suo marito la efficiente e consolidata impresa editoriale della “ditta” Silvia & Giustino, aveva preso a modello quella altrettanto efficiente e solida di Grazia & Palmiro . Ma, forse, per non completa conoscenza della situazione in casa Deledda, o magari per non tanta fiducia nelle capacità imprenditoriali di una donna, non poteva immaginare quanto Grazia avesse «tutti ai suoi piedi, tutti ai suoi ordini»:
Palmiro studiò addirittura le lingue estere per curare i rapporti con gli editori stranieri della moglie e quando lei doveva contattare qualcuno d’importante, per esempio Eleonora Duse cui voleva affidare il ruolo di protagonista de L’edera, era lui a farsi avanti tastando il terreno come un segretario pronto a tutto. […] Quanto ai figli Sardus e Franz, nati a un anno di distanza agli inizi del secolo, non solo entrambi curarono con devozione le carte materne, ma Franz fece addirittura il “negro” per la madre compilando al suo posto il testo per le scuole elementari che era stato commissionato a Grazia dal ministero fascista per l’Istruzione. [13]
[13] E. Rasy, Tre passioni. Ritratti di donne nell’Italia Unita, prefazione di Paolo Mieli, BUR Rizzoli, Milano, 2011, pp. 13-14.
Alla domanda che si pone Elisabetta Rasy, sensibile critico letterario, di come Grazia abbia potuto trasformare «se stessa in una potente macchina per la carriera letteraria, di cui suo marito e anche i suoi figli divennero devoti collaboratori» [14], rispondere non è difficile, se la scrittrice fin da ragazzina appare infaticabile, pervasa da una volontà ferrea di lavoro e di riuscita; per sostenere –soprattutto all’inizio, ma poi per tutta la vita – una carriera letteraria che terrà sempre sotto fermo controllo [15].
[14] Ivi, p. 13.
[15] «la Deledda fu una donna innamorata della letteratura prima e del suo mestiere poi; si dimostrò capace di un’attenta autovalutazione, non solo artistica ma anche economica, interessandosi in prima persona delle questioni relative ai compensi e alla promozione editoriale. Profitto e marketing le sembrarono argomenti ragionevoli allorché, nelle rispettive sorti, letteratura e guadagno rifulgono nell’epistolario deleddiano come due territori confinanti». (P. Linossi, Grazia Deledda epistolografa, cit., p. 155).
Da Nuoro si apre al mondo già nel 1888 (aveva meno di diciotto anni, essendo nata nel 1871) scrivendo, per inviare i suoi racconti Sangue sardo e Remigia Helder , alla Contessa Elda di Montedoro che dirigeva la rivista romana “L’ultima moda”. La corrispondenza con la “Contessa” continuò anche quando Grazia scoprì che in realtà si trattava di un letterato quarantenne e dal nome, pur sempre altisonante ma stavolta autentico, di Epaminonda Provaglio. Scrivendo al quale nel 1892 traccia un suo ritratto, che sembra voler uscire dalle convenzioni dei giornali femminili e farsi quasi biglietto da visita per un pubblico di lettori più vasto:
Le farò la mia silhouette in due o tre righe. Ho venti anni e sono bruna e un tantino anche… brutta, non tanto però come sembro nell’orribile ritratto in prima pagina di Fior di Sardegna. Sono una modestissima signorina di provincia che ha molta volontà e coraggio in arte, ma che nella sua vita intima, solitaria e silenziosa, è la più timida e mite ragazza del mondo. Del resto, però, non sono una fanciulla come le altre: odio il sentimentalismo, e prendo la vita come viene, con un fondo, quasi inconsapevole, di scetticismo e di ironia per le piccole miserie dell’esistenza. [16]
[16] E. Rasy, Tre passioni, cit., pp. 54-55. La lettera è datata 15 maggio 1892.
Si farà ancora più audace qualche tempo dopo quando, consolidata l’amicizia con Provaglio, mostrerà di avere idee molto chiare riguardo alla diffusione dei libri:
In fatto di réclame, io, vedi, sono molto aristocratica; e preferisco che parli di me un buon giornale accreditato meglio che cento piccini, come preferisco pubblicare un bozzetto in uno dei primi piuttosto che un romanzo nei secondi. [17]
[17] Ivi, p. 56.
Tutto il periodo sardo (si trasferirà a Roma nel 1900, dopo il matrimonio con Palmiro Madesani) è contraddistinto da una attività indefessa di scrittrice di novelle, romanzi, e naturalmente lettere.
Se vogliamo prendere in esame ancora due esempi, il primo viene dalla corrispondenza con Angelo De Gubernatis, grande studioso, linguista e orientalista che l’aveva stimolata a ricerche su tradizioni popolari e altre cose di Sardegna, al quale invierà un suo ritratto scritto nello stesso 1892 di quello spedito a Epaminonda Provaglio. Sarà interessante confrontarli per sottolineare l’attenzione della scrittrice ai destinatari:
Benché conservi qualcosa di selvaggio e di caratteristico – forse il riflesso dell’ambiente in cui vivo, – non rassomiglio punto alle altre fanciulle sarde, perché, attraverso il circolo di montagne deserte e leggendarie che chiudono il mio orizzonte, sento tutta la modernità della vita, dei tempi nuovi e dei nuovi ideali. Credo anche di avere qualche percezione di arte, e sono molto coraggiosa nella vita che, per intima vocazione, senza studi, senza esser mai uscita dal mio piccolo nido selvaggio, ho intrapreso. Nessuno mi ha mai ajutato, pochi mi hanno compreso – neppure la mia famiglia che è intelligentissima, – e il poco che ho fatto l’ho fatto tutto da me. [18]
[18] Ivi, pp. 52-53.
E veniamo al secondo esempio: lui, giornalista romano della “Tribuna” e discendente da una nobile famiglia sarda, si chiamava Stanis Manca, e a maggio del 1891 chiese alla scrittrice un articolo su Nuoro. A settembre Stanis e Grazia si incontrarono: «Me ne innamorai senza averlo veduto – lo amai benché fosse la negazione completa del mio ideale, – duca, biondo, grasso». [19]
[19] Ivi, p. 73, in una lettera di qualche anno dopo a De Gubernatis. A Stanis Grazia «sembra una nana, ma lì per lì non glielo dice. Anzi, quando torna a Roma, scrive per il quindicinale “Vita sarda” una recensione a Fior di Sardegna con un profilo della scrittrice, che poi apparve in un numero del febbraio 1892. Il profilo è manierato e pittoresco, e, a suo modo, nella sua convenzionale insincerità, lusinghiero. La ragazza incontrata nella casa rosa vi appare dotata delle stigmate del fascino romantico: “pallida di un pallore aristocratico, nervosa, col sorriso or bonario or canzonatorio, vestita elegantemente di nero, co’ capelli nerissimi vagamente acconciati”, una ”fragile creatura che, senza mai essere uscita dal suo quieto nido, conosce tuttavia in modo che fa quasi sbalordire, i misteri del cuore umano”». (Ivi, p. 74).
L’amore di Grazia per Stanis la renderà insistente, tenace e ostinata quanto tenace e ostinata si mostra a conquistarsi una fama. Lui si ritrae, sgomento di tanta intraprendenza sconveniente e inaccettabile soprattutto in una donna. Si arriva a un vero e proprio scontro epistolare nell’agosto del 1892, quando Stanis le risponde dopo mesi di silenzio con parole che dovrebbero segnare, duramente per la scrittrice, la distanza fra loro.
La reazione di Grazia è di una veemente sincerità:
Ecco, Stanis, io ho due passioni in cuore, due passioni ardenti, indomabili, che sono il pernio della mia esistenza, la mia vita medesima. Sono il mio motto, l’impresa cavalleresca dell’anima mia: Amore e Gloria! – Sì, io amo, profondamente, assolutamente, esclusivamente, forse più di voi, – ma insieme alla immensa passione della mia fanciullezza, ho il sogno continuo, tormentoso, febbrile della celebrità. Perciò mi attacco, quasi inconsapevolmente, a chi mi promette di ajutarmi a farmi un nome, a chi opera qualche cosa per me. Voi mi avevate fatto questa promessa, avevate cominciato ad adempirla, – ed io, a parte l’affetto personale che vi avevo consacrato, mi attaccavo vieppiù a voi sperando sempre nel vostro ajuto, contandoci anche». [20]
[20] G. Deledda, Amore lontano. Lettere al gigante biondo (1891-1909), a cura di Anna Folli, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 109. La lettera ha il timbro postale del 9 agosto 1892.
E, dopo un bigliettino di Stanis che come «un colpo di frusta» le ha «squarciato e insanguinato il viso», ecco la risposta di Grazia:
vi chiederò ancora perché io vi faccio spavento, perché la mia ambizione di fanciulla […] vi sembra mostruosa. Ma non siete dunque artista? E se siete artista che curioso artista siete voi se non sognate di innalzarvi in alto, in alto, in alto? No, non è mostruoso il sogno mio, – non è egoista. […] Secondo voi, forse, io sogno la celebrità per me, solo per me, – per egoismo perverso e spaventoso, – per acquistarmi un grado, una ricchezza… un marito altolocato e illustre!… E prostituisco l’amicizia, l’amore, l’ingegno, tutto, per i miei fini ambiziosi ed egoisti! […] Addio! Non voglio più nulla da voi… più nulla: né stima, né amore, né pietà, né amicizia, nulla! E tanto meno il vostro ajuto letterario. Oh, grazie, grazie, Stanis: mi avete ajutato abbastanza! – Non vi chiedo neppure il segreto… Divulgate pure la storia del mio cuore, fatevene vanto […]. [21]
[21] Ivi, pp. 114-115. Timbro postale del 16 agosto 1892.
Grazia proverà comunque a richiedere indietro le lettere, ma non le riavrà mai: «del resto lei è una donna giudiziosa e pratica e sa che in realtà non compromettono niente, né il suo onore, né un suo possibile matrimonio, né la sua carriera». [22]
[22] E. Rasy, Tre passioni, cit., p. 118.
Gianfranco Bogliari
Gianfranco Bogliari ha insegnato Lingua e Letteratura italiana e Storia del Teatro presso l’Università per Stranieri di Perugia. In collaborazione con Stefano Ragni, musicista, ha realizzato incontri sul rapporta tra Musica e Letteratura. Collabora inoltre con enti e istituzioni per conferenze e letture tematiche.
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