1931 – Discorso su Verga alla Reale Accademia d’Italia (con Audio)

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Giovanni Verga è il più «antiletterario» degli scrittori.
Non era possibile che in un tempo tutto echeggiante di quella nuova e grande avventura letteraria avesse se non una mediocre risonanza l’opera e l’arte di Giovanni Verga, che è la più antitetica che si possa immaginare.

Indice Saggi e Discorsi

Pirandello - Discorso su Verga
Busto di Giovanni Verga situato di fronte la Chiesa intitolata a San Giovanni Battista ad Aci Trezza

Viene riprodotto il testo apparso nella rassegna di Studi verghiani diretta da Lina Peroni (Palermo, edizioni del Sud 1929, fascicolo I) raccolto poi nel volume Studi critici su Giovanni Verga a cura della stessa Lina Perroni (Roma, ed. Bibliotheca, 1934).

In questo famoso discorso, pronunciato il 3 dicembre 1931 alla Reale accademia d’Italia in occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della pubblicazione de I Malavoglia, Luigi Pirandello illustra la sua interpretazione di Verga come «scrittore di cose» contrapposto a d’Annunzio, modello invece dello «scrittore di parole», dimostrando apertamente la propria prossimità al primo e l’intento polemico nei confronti del secondo. Questa contrapposizione costituisce, per lo scrittore siciliano, una costante della nostra storia letteraria. In questa ricostruzione Pirandello mette in luce la fortuna che sempre ha arriso ai «riadattatori», agli «esseri di lusso», che sono gli uomini dotati «d’uno “stile di parole”», anziché ai «costruttori», «agli spiriti necessarii», ovvero agli uomini «dotati d’uno “stile di cose”».

Discorso su Verga alla Reale Accademia d’Italia

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza

Roma, 3 dicembre 1931

     È per me doppio titolo d’onore l’essere stato due volte designato a celebrare Giovanni Verga e la sua opera di scrittore: la prima volta, dalla città di Catania, quando in nome di tutta la Sicilia volle solennemente festeggiarne l’ottantesimo compleanno; ora dalla Reale Accademia d’Italia, la quale, partecipandomi la designazione unanime dei miei colleghi della classe di lettere, ha tenuto a farmi sapere che per la mia parola anche il Governo Nazionale intende tributare degne onoranze al grande scrittore siciliano.
È bene, è giusto, per il senso e il valore che io annetto alla cosa, che il nuovo Governo d’Italia riconosca la gloria e onori la virtù nuda e forte dell’arte di uno scrittore come Giovanni Verga.

     Due tipi umani, che forse ogni popolo esprime dal suo ceppo: i costruttori e i riadattatori, gli spiriti necessarii e gli esseri di lusso, gli uni dotati d’uno «stile di cose», gli altri d’uno «stile di parole»; due grandi famiglie o categorie di uomini che vivono contemporanei in seno a ogni nazione, sono in Italia, forse più che altrove, ben distinte e facilmente individuabili. Ma solo per uno che conosca bene le cose nostre e sappia vederci addentro. Perché invece gli osservatori disattenti, italiani o stranieri che siano, restano facilmente ingannati dal rumore, dalla pompa, dalla ricchezza delle manifestazioni di quelli che ho chiamati «dallo stile di parole», e credono che in Italia esistano soltanto questi.

È molto facile ingannarsi e pensare così, perché, prima di tutto, questi tali sono di gran lunga più numerosi e più comunicativi e più accessibili; e poi perché veramente l’Italia pare fatta apposta per loro, per dar risalto, colore, significato a quelle loro manifestazioni doviziose, i bei gesti, le belle parole, e le passioni decorative, e le rievocazioni solenni. Tanto che ripensando all’Italia, alle sue bellezze naturali, alle sue tradizioni, è quasi impossibile, specie per uno straniero, non raffigurarsi gl’Italiani tutti perduti a vivere nei sensi, ebbri di sole, di luce, di colori, ebbri di canzoni e tutti sonatori di facili strumenti, un po’ avventurieri, un po’ attori, fatti per l’amore e per il lusso anche se miserabili; e i loro uomini rappresentativi, immaginosi letterati dal linguaggio sonoro, e magnifici decoratori, e rievocatori delle glorie passate; un popolo che viva della felicità d’una natura deliziosa e della dignità del suo grande passato: ne viva e ci riprenda anche le spese, come in un giuoco o in una fantasmagoria, in cui le cose siano di sogno e le necessità non esistano e tutto sia facile e fatto, e niente difficile e da fare.

Naturalmente, non è così. Ci sono in Italia anche gli altri quelli che appajono di meno e giovano di più: quelli che ho chiamati «dallo stile di cose».
Nei primi le cose non tanto valgono per sé quanto per come sono dette, e appare sempre il letterato o il seduttore o l’attore che vuol far vedere com’è bravo a dirvele, anche quando non si scopra. In questi altri, la parola che pone la cosa, e per parola non vuol valere se non in quanto serve a esprimere la cosa, per modo che tra la cosa e chi deve vederla, essa, come parola, sparisca, e stia lí, non parola, ma la cosa stessa. E là dunque un’architettura appariscente di sapienti parole musicali, che vogliono avere un valore per sé, oltre quello della cosa significata, ma che alla fine, poiché ci sentite la bravura, vi saziano e vi stancano. Mentre qua una costruzione da dentro, le cose che nascono e vi si pongono davanti sì che voi ci camminate in mezzo, vi respirate dentro, le toccate: pietre, carne, quelle foglie, quegli occhi, quell’acqua.
Lungo tutto il cammino della nostra letteratura corrono ben distinte e quasi parallele queste due categorie di scrittori e possiamo seguirle, accanto e opposte, dalle origini ai nostri giorni: Dante e Petrarca; Machiavelli e Guicciardini; l’Ariosto e il Tasso; il Manzoni e il Monti; Verga e D’Annunzio.

     Se pensiamo che Dante muore in esilio e il Petrarca è incoronato in Campidoglio, che Machiavelli finisce com’egli stesso si descrive in una lettera famosa; che l’Ariosto è fatto di poeta «cavallaro», mentre solo la follia toglie i beneficii della fortuna al Tasso, che tuttavia alla fine è proposto anche lui al sommo onore dell’incoronazione in Campidoglio; se pensiamo che da una delusione è accolto il primo apparire dei Promessi Sposi e che il Leopardi passa di vita quasi ignorato, quando si sa a quali venturosi onori pervenne il Monti, dobbiamo convenire che in questa nostra Italia d’immaginazioni storiche, di prodigiosa ricchezza in dolcissime e forti e piene sonorità verbali e di bellezze formali purissime e di magnificenze naturali, in questa nostra Italia miracolo di sensi e di valori ha più diritto di cittadinanza chi sa dire piú parole che cose; dobbiamo convenire che può riuscire perfino crudele, troppo difficile, insopportabile, lo sforzo lucido che deve durare chi voglia esprimere nudamente delineando le dure sagome delle cose da dire: cose e non parole, cose prepotenti che esigano da noi un assoluto rispetto per la loro nuda verginità.
Ma a chi sa durar questo sforzo – passano gli anni, passano anche i secoli – si ritorna. A Dante, sempre, si ritorna. Si ritorna a Machiavelli. Si ritorna all’Ariosto. Si ritorna al Leopardi e al Manzoni. E si ritorna a Giovanni Verga.

Il Governo d’Italia perciò fa bene ad onorare oggi con questa celebrazione l’arte di Giovanni Verga, a cui i giovani (ed era inevitabile) ritornano, sazii e stanchi di quella troppa letteratura che era tornata a dilagare in Italia per colpa di chi non aveva saputo vedere nel Leopardi e nel Manzoni i due grandi filtri che avevano purgato la poesia e la prosa italiane dalla secolare retorica.
Dove non c’è la cosa, ma le parole che la dicono, dove vogliamo esser noi per come la diciamo, c’è, non la creazione, ma la letteratura, e anche, letterariamente, non l’arte ma l’avventura, una bella avventura, che si vuol vivere scrivendola, o che si vuol vivere per scriverla.
Non ne è esente lo stesso Verga giovane, nella sua prima opera che è appunto lo sfogo delle sue sentimentalità romantiche e sensuali; mondo composto esteriormente e – ciò che può sembrare un paradosso – fuori d’ogni sentimento diretto, non perché questo sentimento non fosse allora vero e suo, anzi perché lo era troppo e non riusciva a investire da dentro una realtà che voleva esser veduta, cioè posta fuori, in un personaggio, in quel personaggio appunto della sua aspirazione romanzesca. C’era insomma l’ambizione di viverli, questi romanzi, scrivendoli, e non poteva seguirne che l’artificio: il torbido di quelle aspirazioni, facendo impeto al filtro dell’arte e ingorgandosi, non riusciva a purificarsi.

Ma fu un’esperienza necessaria per la sua natura appassionata, che tentava d’incarnarsi nell’arte, che cercava il suo romanzo, e cominciava col foggiarselo artificialmente, campato in aspirazioni di gusto francese. Tutte queste scorie romantiche bisognava che bruciassero, perché l’oro poi riuscisse a colar puro; bisognava che il Verga arrivasse a quella conclusione della sua opera giovanile che si legge nel romanzo Eros: «Tutta la scienza della vita sta nel semplificare le umane passioni e nel ridurle alle proporzioni naturali». Vale a dire, nel poco da scavare in profondo, perché la quercia tanto più si radichi quanto più alta e ferrigna si leverà nel sole, anziché nel vasto da coltivar superficialmente perché vi spuntino appena piante d’una sola stagione che il minimo soffio abbatterà. Bisognava, insomma, che il fuoco dell’arte – bruciate quelle scorie – investisse lui nel profondo della materia viva.
Ma quando questo avvenne, quando il Verga finì di vivere la sua avventura e cominciò il suo vero travaglio creativo, l’opera che ne nacque cessò d’avere ogni risonanza e rimase come sorda in un tempo che già cominciava a risuonar tutto di una ben altra prestigiosa avventura letteraria, la quale prese e tenne per tanti anni gli animi in un abbaglio fascinoso: quella d’un uomo adatto e magnifico, nato appunto per l’avventura, così nell’arte come nella vita, e in tal confusione d’arte e di vita da non potersi dire quanta della sua arte sia nella sua vita, e quanta della sua vita nella sua arte: una tal confusione salvando nel solo modo con cui era possibile, cioè sotto il lussuoso paludamento d’una continua letteratura. Ho detto Gabriele d’Annunzio.

Giovanni Verga è il più «antiletterario» degli scrittori.
Non era possibile che in un tempo tutto echeggiante di quella nuova e grande avventura letteraria avesse se non una mediocre risonanza l’opera e l’arte di Giovanni Verga, che è la più antitetica che si possa immaginare. Là tutto il volubile delle opportunità propizie, qua la statica monotonia d’uno scoraggiamento disperato e rassegnato; là la pomposa opulenza non solo d’una prosa tutta tumida polpa con sapienza colorita, ma anche opulenza materiale di cose rappresentate, ville e ozii e smanie e superbi orgogli di signori; qua asciutta magrezza e povertà nuda di parole e di cose, la piazza sempre quella e le vecchie case d’un umile villaggio, il mare (ma non il poetico divino mare) il mare avaro e crudele dei pescatori, e deserte campagne infestate dalla malaria, e gli stenti, i bisogni, le passioni chiuse, originali e sospettose di un’infima gente che vuol salire, o che è già salita e ne ha l’affanno che le vieta non solo il riposo, ma ogni consolazione.

     Guardiamo ancora quelle due discendenze o categorie di scrittori, accanto e opposte, anche per ciò che si riferisce alla famosa eterna questione della lingua, veduta come si è vista sempre esteriormente e non come creazione. Negli uni è la lingua come si compone, scritta: «letteraria»; negli altri tutti, un sapore idiotico, dialettale, a cominciare da Dante, che nei dialetti appunto, e non in questo o in quello, vedeva risiedere il volgare. Tutta la più doviziosa lingua letteraria è in D’Annunzio; e dialettale è il Verga. Dialettale, sí, ma come è proprio che si sia dialettali in una nazione che vive della varia vita e dunque nel vario linguaggio delle sue molte regioni. Questa «dialettalità» del Verga è una vera creazione di forma, da non considerare perciò al modo usato, come a questione di lingua», notandone lo stampo sintattico spesso prettamente siciliano, e tutti gli idiotismi.
Qua «idiotico» vuol dire «proprio». La vita d’una regione nella realtà che il Verga le diede, come la vide, come in lui s’atteggiò e si mosse, vale a dire come in lui si volle, non poteva esprimersi altrimenti: quella lingua è la sua stessa creazione. E non è difetto degli scrittori italiani, né povertà, ma anzi pregio e ricchezza per la loro letteratura, se essi creano nella lingua la regione.

Potrà forse interessare la testimonianza diretta d’uno come me che da giovane si trovò presente alle appassionate discussioni che durante la maturità artistica di Giovanni Verga si fecero su certe vedute estetiche, scuole e metodi d’arte, concetti d’evoluzione di forma e forme letterarie; interessare, non tanto per cose che io abbia da dire che non siano già note a chi conosca la storia delle ultime nostre vicende letterarie: ma perché mi trovai accanto in quegli anni, anzi nell’intimità della più cordiale amicizia, con Luigi Capuana, che della scuola a cui il Verga appartenne e del metodo che il Verga segui, e della ragione, anzi necessità d’adottarli per tentare una narrazione, non più storica, ma contemporanea, e dei frutti ch’essi diedero in Francia e poi in Italia, e segnatamente dell’opera del suo amico fraterno e compagno di lavoro, fu strenuo e infaticabile difensore.
Non so con quanta coerenza fu lodato il Capuana per il suo valore e le sue benemerenze di critico, e specialmente per il bene che fece rischiarando il cammino dell’arte a Giovanni Verga, mentre poi quei suoi lumi critici appunto furono denunziati come prima radice del suo fallimento di scrittore. È una grande ingiustizia, e, per chi amò Luigi Capuana, una grande amarezza. Io lo ricordo qui, al contrario, per dire delle deficienze della sua critica e del valore della sua arte, di cui fanno testimonianza imperitura tante mirabili novelle paesane e tante pagine di pura bellezza nel Marchese di Roccaverdina e in Profumo.

Il Capuana espose le ragioni per cui, volendo fare una narrazione di vicende e di passioni non del passato ma del presente, credette imprescindibile, in mancanza di modelli nostrani, rivolgersi alla Francia, dove le due forme del romanzo e della novella, dopo una lunga elaborazione, avevano dato gli ultimi esemplari. E parlò spesso delle tormentose ricerche d’una «prosa viva» che potesse esprimere le «quasi impercettibili sfumature del pensiero moderno». E fino all’ultimo s’affannò a sostenere la così detta «impersonalità» nella narrazione e l’oggettività nell’arte narrativa.
Il Verga, che fino al romanzo Eros aveva seguito le vecchie forme narrative romantiche, un po’ rammodernate, secondo il gusto e il tono d’una certa moda letteraria francese, fece sue alla fine le idee e suoi i propositi artistici del Capuana.

Ma parlare di tradizione in arte, come di qualche cosa da cui l’opera d’arte dipenda e senza la quale sia, se non proprio impossibile, assai difficile che nasca, è – come si fa di solito -porre male una questione, che va posta e – per conseguenza – risolta altrimenti. Ogni vera opera d’arte è e dev’essere «unica», e dunque senza modelli. Non esiste per se stessa in astratto una forma «romanzo» o una forma «novella» che da sé, qua e là, e qua meno e là più, si evolvano; bensì quei tali romanzi, quelle tali novelle, ciascuno e ciascuna con la sua forma propria, da non potersi confondere con altre, se veramente opere d’arte. Considerando per sé le forme e indicando i modelli e prescrivendo le regole e il metodo con cui quelle narrazioni dovevano esser condotte, si veniva a cadere nello stesso errore intellettualistico della retorica, che consisteva appunto in questo, come anche nella ricerca esteriore dell’espressione, quasi che il linguaggio fosse qualcosa da cercar fuori per rendere ciò che ci sta dentro e non qualcosa che si formi in noi col pensiero stesso e che è anzi il pensiero stesso che si vede in noi chiaro in tutte le sue parti; e quasi che, del resto, noi non avessimo già in casa nostra l’esempio d’una prosa viva, efficace, benché adoperata in una narrazione del passato, atta a rendere le piú lievi e riposte pieghe della passione e del pensiero, nei Promessi Sposi del Manzoni: prosa uscita dal tormento d’una triplice elaborazione. La questione infine della famosa «impersonalità» o dell’oggettivismo nell’arte narrativa non ci voleva molto a vedere che si riduceva a nient’altro che a un diverso atteggiamento dello spirito nell’atto della rappresentazione, poiché l’arte, come coscienza del soggetto, non può esser mai oggettiva se non a patto di porre ciò che è creazione nostra, fuori di noi, come se non fosse appunto nostra, ma una realtà per sé che noi dovessimo solamente ritrarre con fedeltà, senz’affatto mostrare di parteciparvi, insomma da spettatori diligenti e spassionati.

Come tutti i critici del verismo, il Capuana cadde in fondo per mancanza di discernimento estetico nello stesso errore, per cui il Manzoni aveva prima condannato il suo capolavoro: con la sola differenza che il Manzoni aberrò esteticamente per uno scrupolo verso la storia, mentre il Capuana e i naturalisti per uno scrupolo verso la scienza, qual’era intesa ai loro giorni.
Mostrare o non mostrare coscienza della propria creazione: è tutto qui; atteggiarsi liricamente, cioè attraverso gli elementi soggettivi dello spirito: il sentimento e la volontà; o atteggiarsi storicamente, cioè attraverso l’elemento oggettivo: l’intelletto. L’opera d’arte perfetta è rarissima perché assai di raro avviene che tutto lo spirito nei suoi varii elementi accordati all’unisono, lavori senza il prevalere di questo su quello, come sempre avviene in un tempo o nell’altro, per azioni e reazioni improvvise. E sempre, difatti, dietro o accanto a ogni movimento letterario abbiamo un diverso orientarsi del pensiero filosofico; e come per reazione all’intellettualismo che ebbe la sua poetica nel classicismo, irrompono i due elementi soggettivi conculcati, il sentimento e la volontà, naturalmente disordinati e ciechi perché ribelli a ogni lume d’intelletto, elementi che avranno la loro poetica nel romanticismo; così più tardi, per reazione all’idealismo romantico avremo il materialismo e il positivismo sperimentale che troveranno la loro poetica nel naturalismo letterario, che si propone di darci «documenti umani» e «pezzi di vita» e di annegare l’arte nella scienza. Avremo reazione anche a questo; e per meno – in un certo senso – il Fogazzaro, e per assai più in altro senso il D’Annunzio, vogliono essere, più che in realtà non siano, i campioni di questa reazione. E ora si ritorna, sazii e stanchi di forme concluse e troppo sonore, ai frammenti puri, ai «pezzi di vita»; si ritorna umiliati alla grande arte del Verga, il quale per sua ventura ebbe per queste cose scarso intelletto e si valse di quello del Capuana solo per quel tanto che gli occorse a veder chiara tutta quella solidità elementare che il sentimento originario della sua terra gli poneva, la sua materia viva, e facendo che ad essa la sua volontà ritemprata, potente e schietta aderisse perfettamente. Sbaglia chi crede che l’opera della maturità di Giovanni Verga fu condotta premeditatamente secondo un metodo artistico suggerito da altri e importato da una scuola straniera, senza che si fosse naturalmente generata in lui, sua materia viva. Quel metodo non fu per il Verga della scuola naturalista francese, ma per naturale diritto suo, perché sua intima legge, vale a dire libero e spontaneo movimento di un’immagine di vita ch’era dentro di lui e che per questo movimento proprio e spontaneo (che è la vera tecnica, da intendere appunto come immediato movimento della forma) doveva venir fuori. Tanto è vero questo, che ormai, a tanta distanza di tempo, l’opera vive intera e perfetta, in tutti i suoi elementi proprii, unici, che tra sé si tengono a vicenda meravigliosamente e a vicenda cooperano a formare un corpo vivo, senza che per nessuno si possa pensare che sia così per ubbidire a canoni che non ricordiamo neanche più quali fossero, della scuola naturalista francese.

I siciliani, quasi tutti, hanno un’istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno aperta, chiara di sole, e piú si chiudono in sé, perché di quest’aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola da sé, e da sé si gode – ma appena, se l’ha – la sua poca gioja; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato.
Ma ci sono quelli che evadono, quelli che passano non solo materialmente il mare, ma che, bravando quell’istintiva paura, si tolgono (o credono di togliersi) da quel loro poco e profondo, che li fa isole a sé, e vanno, ambiziosi di vita, ove una certa loro fantastica sensualità li porta, spassionandosi o piuttosto soffocando e tradendo la loro vera riposta passione con quell’ambizione di vita effimera.
Il Verga, giovane, è uno di questi. E dunque, non veramente appassionato in principio e neanche austero, come si è voluto definire. Austero, anzi, propriamente, o meglio, in un certo senso moralistico, non sarà mai, né per quel che pensa della vita, né per quel che sente, come ognuno che veda e scusi le opposte passioni e riconosca sempre le ragioni degli altri.
Fu detto anche che il Verga «vede nella realtà il mondo quale esso è, e si spiega che non può essere diverso da quello che è».

Non so che senso abbia un simile giudizio.
Il mondo non è per se stesso in nessuna realtà se non gliela diamo noi; e dunque, poiché gliel’abbiamo data noi, è naturale che ci spieghiamo che non possa essere diverso. Bisognerebbe diffidare di noi stessi, della realtà del mondo posta da noi. Per sua fortuna il Verga non ne diffida; e perciò appunto non è né può essere, nel senso vero e proprio della parola, un umorista.
Bisogna intendersi bene su tutto questo, che è il punto fondamentale per una scuola come la naturalista che intendeva escludere la «personalità» dello scrittore nella rappresentazione di un preteso «vero».
Sono in fondo una medesima finzione quella dell’arte e quella che a noi tutti viene dai nostri sensi.

Pur non di meno, noi chiamiamo «vera» la rappresentazione dei nostri sensi, e «finta» quella dell’arte. Ma, se ben guardiamo, tra l’una e l’altra, non è mai però questione di «realtà», bensì di «volontà», e solo in quanto la finzione dell’arte è sempre «voluta» – voluta non nel senso che sia procacciata con la volontà per un fine estraneo a se stessa; ma voluta per sé e per sé amata disinteressatamente; mentre la rappresentazione dei nostri sensi non sta a noi volerla o non volerla: si ha, come e in quanto si hanno i sensi. E quella, dunque, è libera; e questa no. E l’una è dunque immagine o forma di sensazioni; mentre l’altra – quella dell’arte – è creazione di forma. Il fatto estetico effettivamente comincia solo quando una rappresentazione acquisti in noi «per se stessa» una volontà, cioè quando essa «si voglia» in sé e per se stessa, provocando, per questo solo fatto «che si vuole», il movimento atto a effettuarla fuori di noi. Se la rappresentazione non ha in sé questa volontà, che è – come ho già detto – il movimento stesso dell’immagine, essa è soltanto un fatto psichico comune: l’immagine non voluta per se stessa; fatto spirituale-meccanico, in quanto non sta a noi volerla o non volerla: si ha in quanto risponde in noi a una sensazione.

     Abbiamo tutti, chi più chi meno, una volontà che provoca in noi quei movimenti atti a creare la nostra propria vita. Questa creazione che ciascuno fa di sé a se stesso, ha anch’essa bisogno di tutte le attività e funzioni dello spirito, cioè d’intelletto e di fantasia, oltre che di volontà; e chi più ne ha e più ne mette in opera, riesce a creare a se stesso una più alta e più vasta e forte vita. La differenza tra questa creazione e quella dell’arte è solo in questo (che fa appunto comune l’una e non comune l’altra) che quella è «interessata» e questa «disinteressata», il che vuol dire che l’una ha un fine di pratica utilità, l’altra non ha alcun fine che in se stessa; l’una, è voluta per qualche cosa: l’altra si vuole per se stessa. E una prova di questo si può avere nella frase che ciascuno di noi suol ripetere ogni qual volta, per disgrazia, contro ogni nostra aspettativa il fine pratico a cui tendevamo, i nostri interessi siano stati frustrati: «Ho lavorato per amore dell’arte».

E il tono con cui si ripete questa frase ci spiega la ragione per cui la maggioranza degli uomini, che lavorano per fini di pratica utilità e che non intendono la volontà disinteressata, suol chiamare matti i poeti, quelli cioè in cui la rappresentazione si vuole senz’altro fine che in se medesima, e tale essi la vogliono, quale essa si vuole.
In questo totale disinteresse, e non in altro, può consistere la «impersonalità» dello scrittore nella realtà da lui creata. In tutto il resto è lui, sempre, per forza, e tanto più, starei per dire, quanto meno si scopre.
Perché realtà non esiste se non nei sentimenti che ce la compongono. La vivremmo ciecamente, se a ciascuno il lume dell’intelletto, o più o meno, secondo i casi o i temperamenti, non ce la rischiarasse. Composta dai nostri sentimenti – com’ha bisogno dell’intelletto per esser veduta – così ha bisogno della volontà per muoversi in noi, per noi e con noi.

L’arte è arte, perché ciò che è realtà, vale a dire appunto questa composizione dei nostri sentimenti, rischiarata dal nostro intelletto e mossa dalla nostra volontà, cosa infinitamente varia e continuamente mutevole, condizionata com’è sempre nella sua molteplicità di spazio e di tempo, è invece fissata per sempre dalla fantasia in un momento o in più momenti essenziali, fuori di questo molteplice (fuori dunque dello spazio e del tempo) – eterna e una – ma non nell’assoluto di un’astrazione, bensì eterna perché di tutti i tempi, e una perché quella, che ha vita nel consenso di tutti e in tutti, naturalmente, in un suo particolar modo: liberata da tutto ciò che è comune, ovvio, caduco, da tutti gli ostacoli, che, nella creazione della nostra propria vita, spesso ci distraggono, ci contrariano, ci deformano.

Non bisogna dunque dire che uno scrittore, quale il Capuana lo voleva, quale per lui era il Verga, e poteva anche essere ogni altro scrittore, al pari di lui impersonale, il Flaubert, lo Zola, il Maupassant, il Capuana stesso, «veda il mondo qual’esso è nella realtà e si spieghi che non può essere diverso da quello che è» – ma bisogna invece vedere quali sentimenti pongano a questo o a quello scrittore, al Verga nel caso nostro, la sua realtà, la realtà del suo mondo, con quale intelletto egli se la rischiari, con qual volontà la muova.
Ora il Verga – quale naturalmente si condiziona nella storia del suo tempo, cioè per quel suo particolar modo d’essere come poteva e doveva generarsi in lui nel suo tempo e col suo tempo – non ha una fede attiva, una norma direttiva nella vita, e non la cerca nemmeno, perché crede che non ci sia. Ce l’ha in fondo nascosta; ma è per il sentimento – e dunque oscura – non per il pensiero. La norma affettiva: degli affetti immediati: la famiglia, la sua terra, i costumi della sua gente, gli interessi, le passioni di essa. E qui difatti soltanto egli riesce a porre a se stesso una realtà. Non crea dunque ideologicamente un mondo, non riesce cioè a ordinarlo secondo una sua idea, da fuori, in una realtà che egli possa o sappia dargli superandolo, cioè a dire superandosi. Lo accetta in quella realtà oscura che a volta a volta gli pone il suo sentimento, da dentro, e dice ch’essa è così perché è così. E per forza il sentimento in questo suo porsi a caso e senza lume s’intristisce sempre più e si logora a mano a mano, come un meccanismo governato da un’angosciosa fatalità. Egli rappresenta il consistere quasi fatale di questi sentimenti in realtà che non possono esser che quelle, perché il sentimento è quello ed è così – così triste, così implacabilmente triste!

Ecco la Vita dei campi, ecco le Novelle rusticane, ecco Per le vie e Vagabondaggio, ecco I Malavoglia e Mastro don Gesualdo. Eppure parve al Verga che le inquietudini del pensiero vagabondo potessero quietarsi in lui dolcemente «nella pace serena dei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione», considerando come cose degne del maggior rispetto il tenace attaccamento d’una povera gente allo scoglio sul quale la fortuna l’aveva fatta nascere, la rassegnazione a una vita di stenti, la religione della famiglia che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano. Scorse invece come una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi tra loro per resistere alle tempeste della vita, e cercò di decifrare il dramma modesto e ignoto che sgomina gli attori plebei del suo capolavoro: I Malavoglia; dramma il cui nodo, come egli stesso scrisse, consiste in questo: «che, allorquando uno di quei piccoli vuole staccarsi dal gruppo per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com’è se lo ingoja, e i suoi prossimi con lui».

Questo è il pensiero che fa lume al suo sentimento. Un ben triste lume. E il sentimento che è d’amore per quegli umili, per quei deboli, per quelle povere cose, diventa per forza, a quel lume, passione, e la passione tormento. Altro che dolce quietarsi! altro che pace serena! altro che sentimenti miti e semplici in calme vicende inalterate di generazioni in generazioni! E un mondo, un povero mondo di bisogni primi, di primi affetti, intimi, originarii, nudi, e nude cose, di semplicità elementare, in preda a una necessità fatale. Egli per primo ne soffre, ma subito quel lume gli fa riconoscere che non può essere che cosí e che non c’è via di scampo in altra realtà che potrebbe esser diversa, a guardarla da un altro lato o da sopra, o facendo che il sentimento dei personaggi a volte si rimiri anche di sfuggita nello specchio d’una riflessione estranea, cioè dello stesso scrittore, come avviene spesso in Manzoni. No: egli la guarda sempre, sempre da dentro, con gli occhi dei suoi stessi personaggi, in una immedesimazione continua: e la realtà è quella sola, quale la pongono i sentimenti di quei personaggi, implacabilmente, inesorabilmente quella. Non che qualche volta non sia comica o non s’ironizzi per dir così da sé, nei commenti degli altri attori della scena o nei contrasti, spesso crudeli, anche se goffi, della vita provinciale o di campagna. Ma incombe sempre anche qui quella necessità che rende malinconica anche l’ironia e triste la goffaggine, come in Malaria, come nel Reverendo, come in Cos’è il Re o in Licciu Papa, e qua e là un po’ da per tutto nelle novelle e nei Malavoglia e in Mastro don Gesualdo. Bisogna farsi una ragione di questa fatalità incombente, e guaj a chi non se la fa o non se la vuol fare: avrà il danno e le beffe. E questa è la rassegnazione verghiana, che è cosí amara anch’essa. Non «razionalità», dunque, che dà l’idea d’una rigidezza meccanica, ma rassegnazione alla necessità fatale, che vince tutti, e non ammette che qualcuno le si ribelli.

Perciò Verga non è il Manzoni. Come il Manzoni amò gli umili, ne rappresentò la vita; come il Manzoni, superstite per molti anni alla sua opera di scrittore, ebbe la sorte invidiabile di poter esser sicuro della vita imperitura di essa dopo averla saggiata al paragone di un lungo silenzio; ma come diverso è il lume dell’uno, acceso dalla fede che consola e sostiene, da quello dell’altro che riesce a mala pena a far meno amara, perché in certo qual modo confortata, quella squallida rassegnazione alla fatalità incombente solo se si raccolga attorno al focolare domestico, che per il Verga, come per tutti i siciliani, è sacro. Morte e dannazione a chi vi attenta, morte e dannazione a chi lo tradisce, a chi se ne scorda. In quasi tutta l’opera verghiana non c’è altro fulcro sacro che questo. Sempre attraverso gli occhi dei suoi personaggi il Verga vi guarda con venerazione, con nostalgia, con tenerezza, pieno di pietà per chi non poté averlo, per chi dalle miserie fu costretto ad allontanarsene o a perderlo. «A ogni uccello il suo nido è bello!» Oh i proverbii di Padron ‘Ntoni Malavoglia, per cui gli uomini son fatti come le dita della mano! Oh casa del Nespolo, indimenticabile! e tutte le pene per riscattarla, per poi morirne lontano, in un albergo dei poveri in città, con gli occhi sempre alla porta per vedere se qualcuno entri a riportarselo via, là dove, non potendo più vivere, vuole almeno morire! E ciò che forma la tristezza più grande di Mastro don Gesualdo è il suo morire come un cane nel palazzo della figlia, lui che «per far la roba» non s’era mai dato un momento di requie.

Ma don Gesualdo Motta non vale Padron ‘Ntoni Malavoglia, non perché la sua figura non si stagli potente in tutto il suo rilievo, e i suoi casi, i suoi sentimenti, i suoi minimi atti, come del resto quelli degli altri personaggi intorno a lui, non siano rappresentati con arte anche più accorta; ma il suo romanzo si mostra già costruito d’elementi che visibilmente si riportano attorno a lui, senza quella compatta e schietta naturalezza del primo romanzo, tanto più mirabile e quasi prodigiosa, in quanto non si sa come risulti cosí fusa attorno a quella casa del Nespolo tutta la vita di quel borgo di mare e come venga fuori senza intreccio e pieno di tanta passione il romanzo in cui le vicende sembrano a caso.

     E non è da dire che tutto questo non sia voluto, perché era nell’aspirazione e dunque nell’intenzione dello scrittore, se, dedicando a Salvatore Farina la novella L’amante di Gramigna nella Vita dei campi, scriveva che il trionfo del romanzo si sarebbe raggiunto «allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore… ch’essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come deve essere ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari d’una statua di bronzo di cui l’autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale».

L’aspirazione divenne realtà nei Malavoglia.
Il segreto del prodigio è nella visione totale dell’autore, che dà a quanto appare sparso e a caso nell’opera quell’intima vitale unità che non domina mai da fuori, ma si trasfonde e vive nei singoli attori del dramma, i quali, sí, son tanti, ma si conoscono tutti e ciascuno sa tutto dell’altro e del piccolo borgo intende ogni aspetto e ogni voce, se suona una campana, da qual chiesa suoni; un grido, chi ha gridato e perché ha gridato, legati tutti da ogni minima vicenda che si fa subito comune.

    Così da un capo all’altro, per tanti fili, che non sono di questo o di quel personaggio, ma che partono da quella necessità fatale dominante, l’opera d’arte si tiene tutta, meravigliosamente, con quello scoglio, con quel mare, con l’antica dirittura solenne di quel vecchio uomo di mare, in una primitività quasi omerica, ma su cui incombe quasi un senso della fatalità dell’antica tragedia, se la rovina di uno è la rovina di tutti; e con l’ammonimento che ne emana, tra la pietà sbigottita per la sorte dei vinti.
Mirabile l’opera, ma più mirabile ancora l’impegno onde essa nacque, con un suo stile nuovo e necessario, che la fa viva per sempre come opera d’arte, e viva oggi più che mai come modello d’azione e di fede anche fuori d’ogni considerazione letteraria, come atto di vita. Voglio dire l’impegno a cui, un certo momento, e forse quando più egli s’era allontanato e distratto dalle sue origini, il Verga si sentì prepotentemente chiamato, con la voce della sua terra e di tutto ciò che v’era di religioso nel suo spirito, al lavoro esigente, umile e triste d’esprimere le cose, che in certo senso vuol dire fare, operare, e non più desiderare e contemplare: le cose difficili, le cose quali sono per noi, egli che aveva già vinto, nell’opinione degli altri, in quelle facili, quali erano nel desiderio del pubblico d’allora.

Tutte le concezioni intellettuali della vita che risultano da opere d’arte vanno valutate con giudizio: nulla è piú stolto che il chiederne ragione all’artista in nome della vita pratica. E infatti, non la concezione intellettuale della vita, che risulta da questa mirabile opera, giova a noi – concezione che può apparire perfino deprimente, o almeno contraria all’animo nostro mutato e non più da vinti, quanto un’altra opposta può apparire consona ed esultante – ma giova a noi lo stesso spogliarsi d’ogni superfluo per arrivare a vivere d’una realtà tutta da creare, la stessa forza duramente operante, lo stesso richiamo alle origini, di cui il Verga ci dà l’esempio; necessità fondamentali ed uniche così alla creazione d’una vera opera d’arte come all’affermazione d’una personalità umana nella vita, come alla vita d’un popolo: questo spogliarsi, questa forza costruttiva, questo richiamo alle origini che aprono la via alla sola conquista necessaria agli uomini e ai popoli: la conquista del proprio stile.

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 Variante dell’esordio del discorso all’Accademia

     Uno studio molto istruttivo, che condurrebbe a osservazioni e a considerazioni al tutto nuove e forse a scoperte impensate, sarebbe da proporre a uno che volesse spiegarsi le ragioni per cui la letteratura italiana, dopo il zoo, vale a dire dopo la famosa Arcadia che infestò con le sue sciocche svenevolezze e la sua pastorelleria tutta quanta l’Europa, proprio quando cominciò a guarire di questo male e a ritemprarsi col Parini e l’Alfieri, cessò d’avere oltre i confini della patria quella risonanza universale che aveva sempre avuta, e fu quasi tagliata fuori dalle correnti internazionali pur avendo scrittori degni d’essere riconosciuti e onorati come sommi, per esempio nella lirica Leopardi, nella prora narrativa Manzoni, e non parlo del Foscolo che li precedette e che pur visse e scrisse e mori fuori di patria. Sono sì conosciuti in ogni nazione e pregiati dagli studiosi e dai buoni intenditori, ma non universalmente noti come dovrebbero; cosicché è una pena per un italiano che abbia coscienza dei valori d’arte espressi nelle varie letterature d’Europa e del mondo non veder al porto che meritano e che a loro di diritto compete chi .ceppe in pochi verri d’incomparabile bellezza esprimere come forse nessun poeta saprà mai il sentimento dell’infinito, e chi seppe comporre una così vasta copia di sentimenti, dai più umili ai più superbi, con tanta illuminata saggezza, umana e divina, in un romanzo immortale. Pena, non per il Leopardi né per il Manzoni né per il Foscolo né per gli altri che sono ormai beati per sempre nella bellezza delle loro espressioni compiute e perfette; ma per gli uomini delle altre nazioni che non se ne possono beare; perché il fatto che gli altri le ignorino non vuol mica dire che tali sommità sia nella lirica sia nel romanzo o in altre forme d’arte non ci siano, ricchezza nostra e deplorevole povertà di chi l’ignora.
Uno degli scrittori di romanzo più grandi che l’Italia abbia avuto, presso che ignoto all’estero e non noto certo neppure in Italia, almeno quanto dovrebbe, è Giovanni Verga, di cui oggi vi parlerò.
Per l’Italia, in un certo senso, si spiega.
Due tipi umani, ecc.

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