1920 – Discorso di Catania per gli 80 anni di Giovanni Verga (con Audio)

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L’arte di Giovanni Verga dimostra a chi è tutto in una superficiale e vivace sensibilità, che s’offende di nulla e nulla sopporta e subito grida e sa farsi valere, che essa sia in fondo, e da che provenga, quella che sembra istintività selvaggia e inconsulta impulsività.

Indice Saggi e Discorsi

Pirandello- Discorso di Catania
Giovanni Verga

Il discorso di Catania fu in parte riprodotto nel quotidiano Il Mondo (Roma 28 gennaio 1922) col titolo «Il ciclo dei Vinti», in occasione della morte di Giovanni Verga (27 gennaio 1922). Il testo completo apparve sul Tevere il 4 dicembre 1931.

Il magnifico discorso di Pirandello per gli ottant’anni di Verga
Di Giovanni Fighera

da La ragione del cuore

«Tutte le cloache d’Italia sfociano a Gardone. E l’Italia ha tanto stomaco da sopportare ancora tutto questo!»: è questo il severo giudizio di Pirandello su d’Annunzio. Per quali ragioni il drammaturgo accondiscese allora a mettere in scena il dramma di D’annunzio La figlia di Jorio?

Il motivo porta il nome dell’amata Marta Abba, che interpretava la parte della protagonista. Pirandello aveva trovato un ruolo anche per Pompeo Abba, il padre di lei, quale «organizzatore» (come compare sul cartellone).

Ritroviamo il severo giudizio di Luigi Pirandello sul Vate pescarese quando il drammaturgo siciliano fu invitato a parlare al Teatro Massimo Vincenzo Bellini di Catania per la celebrazione degli ottant’anni di Verga. Era il 10 settembre del 1920.

Un grande scrittore, scriveva Pirandello, riesce a liberarsi della sua temporalità,

“vale a dire di tanti elementi, spesso incoercibili, che sono del tempo e nel tempo, […] assorbendoli in una forma che sia per se stessa compresente d’ogni tempo”.

Le opere che si basano solo sulla contemporaneità, senza averla davvero assorbita e superata, anche se esaltate dalla critica presto decadono, a differenza di altre che si fondano «su basi incrollabili».

La prima produzione di Verga, ad esempio, è tutta «confusa con la vita del tempo» e ha riscosso un certo successo, ma nel tempo è stata dimenticata. L’opera della maturità

“non ebbe dal tempo il suo contenuto, come qualche cosa presa materialmente da fuori, né fu condotta premeditatamente secondo un metodo artistico suggerito da altri e importato da una scuola straniera; ma che quel contenuto doveva essersi naturalmente generato nello scrittore, sua materia nativa, la quale per venir fuori schietta e nuda, aveva soltanto bisogno d’esser liberata da tutte le scorie romantiche della prima giovinezza”.

Pirandello confrontava, poi, Verga con il letterato che aveva riscosso il maggior successo in Italia in quei decenni: Gabriele D’Annunzio. Coglieva con profondità la differenza fondamentale tra i due:

“Giovanni Verga è il più «antiletterario» degli scrittori; il D’Annunzio è tutto letteratura, anche là dove l’esperta e istrutta, acutissima sensibilità riesce a farlo veramente vivo:

noi sentiamo sempre che è «troppo» anche là, e che questo troppo gli è dato dalla letteratura, la quale ha arricchito col più dovizioso ausilio verbale, raffinandolo fin quasi a renderlo anormale, il nativo acume dei suoi sensi vivi”.

Pirandello sintetizzava i due differenti stili: uno stile di parole, quello di D’Annunzio, a fronte di uno stile di cose in Verga.

Stile di parole e stile di cose da sempre si sono contrapposti nella letteratura italiana, sottolineava Pirandello, dal Trecento quando alla concretezza di Dante Petrarca contrappose la vaghezza e l’indeterminatezza del linguaggio fino al Cinquecento con Machiavelli e Guicciardini oppure con Ariosto e Tasso. Nell’Ottocento l’attenzione al vero di Manzoni discordò dal classicismo di Monti.

Così Pirandello descriveva le due diverse poetiche, i due gruppi di letterati che avevano contraddistinto la storia letteraria italiana:

“Negli uni la parola che non è la cosa e per parola non vuol valere se non in quanto esprime la cosa, per modo che tra la cosa e il lettore che deve vederla, essa, come parola, sparisca, e stia lì, non parola, ma la cosa stessa.

Negli altri, la cosa che non tanto vale per sé quanto per come è detta, e appar sempre il letterato che vi vuol far vedere com’è bravo a dirvela, anche quando non si scopra”.

Nei primi, ancora, vive la lingua letteraria, negli altri domina

“un sapore idiotico, dialettale, a cominciar da Dante, che nei dialetti appunto, e non in questo o in quello, vedeva risiedere il volgare”.

Qualche anno dopo Pirandello, ne L’Inferno e il limbo (1949) anche  il poeta Mario Luzi avrebbe sottolineato le due modalità del far poesia: «accrescere l’esistente» o «commentare l’esistente». Dante e Petrarca divengono emblemi, a detta di Luzi, di queste due modalità espressive. La stima del poeta fiorentino è tutta per Dante.

Il Limbo rappresenta la scelta per una letteratura di stampo spiritualista, slegata dalla realtà, rarefatta ed indefinita, come nel Canzoniere del Petrarca, che ha segnato la tradizione letteraria italiana, mentre il modello di Dante, osannato come inimitabile, indicato con il nome dell’Inferno, con la sua concretezza, il realismo descrittivo, la potente e icastica rappresentazione ha lasciato ben poche tracce all’interno della letteratura dei secoli successivi.

Giovanni Fighera

Discorso di Catania per gli 80 anni di Giovanni Verga

Teatro Massimo Vincenzo Bellini
Catania 2 settembre 1920

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza

Chi lavora con serietà, altezza e nobiltà d’intenti sa che conto si possa fare (e si debba dunque fare) della critica contemporanea, perché considera che non è possibile ai troppo vicini vedere dove e quanto uno scrittore nella sua opera sia riuscito a liberarsi della sua temporalità, vale a dire di tanti elementi, spesso incoercibili, che sono del tempo e nel tempo, e che concorrono naturalmente a condizionare l’opera.
Liberarsene vuol dire superarli, assorbendoli in una forma che sia per se stessa compresente d’ogni tempo.
Ora appunto questo la critica contemporanea difficilmente riesce a discernere, mentre ancora vivono e consistono quei temporanei elementi: se cioè un’opera si sorregga soltanto su questi, da tutti sottintesi, ma non da essa veramente assorbiti e superati.

E ne è prova il cadere, anche a breve distanza di tempo, di tante opere esaltate dalla critica al loro primo apparire, mancati quei sottintesi, quegli addentellati con cui per il momento si sostenevano; e ne è prova inversa il vedere, anche a non lunga distanza di tempo, altre opere risorgere e affermarsi su basi incrollabili, che la critica contemporanea aveva tentato d’abbattere. Le due prove sono patenti nell’opera di Giovanni Verga, appunto.

     L’opera giovanile, per tanta parte confusa con la vita del tempo e con certe intime aspirazioni romanzesche dello stesso autore, fu accolta con larghissimo favore (e si può dire anzi che sia tuttora, presso un certo genere di lettori, la più diffusa e ricercata); l’opera della maturità, quella che, a prima vista, doveva pur sembrare più d’ogni altra condizionata da elementi temporanei, dal metodo d’una scuola allora nuova, per le passioni contrarie che in una parte della critica d’allora questa scuola suscitò, fu in principio avversata, perché appunto la critica, nell’un caso e nell’altro, non vide che gli elementi temporanei, senza discernere che nel primo caso l’opera dello scrittore ancora giovane non aveva saputo o potuto uscire (che è lo stesso) dalla vita del tempo e da quelle intime aspirazioni con cui era confusa e che nel secondo caso, invece, l’opera della maturità non ebbe dal tempo il suo contenuto, come qualche cosa presa materialmente da fuori, né fu condotta premeditatamente secondo un metodo artistico suggerito da altri e importato da una scuola straniera; ma che quel contenuto doveva essersi naturalmente generato nello scrittore, sua materia nativa, la quale per venir fuori schietta e nuda, aveva soltanto bisogno d’esser liberata da tutte le scorie romantiche della prima giovinezza; e che quel metodo non fu per il Verga della scuola naturalista francese della seconda metà del secolo scorso, ma per naturale diritto suo, perché sua intima tecnica, vale a dire libero e spontaneo movimento di un’immagine di vita ch’era dentro di lui e che per quel movimento proprio e spontaneo (che è la vera tecnica, da intendere appunto come immediato movimento della forma) – doveva venir fuori.

Tanto è vero questo, che ormai, a tanta distanza di tempo, l’opera vive intera e perfetta, in tutti i suoi elementi, che sono tutti proprii e proprio suoi – unici – i quali tra sé si tengono a vicenda meravigliosamente e a vicenda cooperano a formare un corpo vivo, senza che per nessuna parte di essa si possa pensare che sia così, non perché così dovesse essere e non potesse altrimenti, ma per ubbidire a quei canoni, che nessuno ormai sta più a pensar neanche quali fossero, della scuola verista, i quali così la volevano pur potendo essere forse, senza questa scuola, in altro modo.
Dov’erano estrinseche necessità naturali dell’opera stessa, leggi vitali, imprescindibili correlazioni organiche, la critica non seppe vedere che le norme esteriori di quella scuola, i modi d’una tecnica appresa, e s’appassionò a discuterli, traendo anche il Verga dal suo austero silenzio a parlar di metodi e di distinzioni teoriche tra essi, e a difendere quello verista come se l’opera della sua maturità fosse quella che era perché egli aveva seguito quel metodo e non perché essa in sé e per se stessa così si fosse voluta, senz’altro fine che di seguire la propria legge vitale.

Potrà forse interessare la testimonianza diretta d’uno come me, che da giovine si trovò presente a quelle appassionate discussioni e che anzi in un certo senso vi prese parte manifestando opinioni in contrasto, perché già ai giovani succeduti a quelle prime generazioni di scrittori contemporanei certe vedute estetiche si erano aperte, non chiare ai predecessori ancora impigliati in vedute storiche, in concetti di evoluzione di forma e di forme letterarie. Interessare non tanto per cose che io abbia da dire, che non siano già note a chi conosca la storia delle ultime nostre vicende letterarie; ma perché mi trovai accanto, in quegli anni, anzi nella intimità della più cordiale amicizia con uno che quella scuola e quel metodo, e la ragione, anzi – secondo lui – la necessità d’adottarli per tentare una narrazione, non più storica, ma contemporanea, e i frutti che essi diedero in Francia e poi in Italia, e segnatamente l’opera di Giovanni Verga, suo amico fraterno e compagno di lavoro, difese strenuamente e infaticabilmente: Luigi Capuana.
Voglio ricordarlo, non per il suo valore e per le sue benemerenze di critico come oggi si fa comunemente, non so con quanta coerenza, se quei suoi lumi critici, mentre sono lodati per il bene che fecero rischiarando il cammino dell’arte al suo grande compagno di lavoro, son poi denunziati come prima radice del suo fallimento di scrittore; ma al contrario, per dire delle deficienze della sua critica e del valore della sua arte, tutt’a un tratto dai critici negato, oggi appunto che non si può esaltar l’opera e l’arte di Giovanni Verga, senza abbassar quella di Luigi Capuana.
È una grande ingiustizia e una grande amarezza.

     Nella sua confessione a Neera «Com’io divenni novelliere» il Capuana disse le ragioni per cui, volendo fare una narrazione di vicende e di passioni non del passato ma del presente, credette imprescindibile, in mancanza di modelli paesani, rivolgersi alla Francia, ove le due forme del romanzo e della novella, dopo lunga elaborazione, avevano dato gli ultimi esemplari. Parlò spesso delle tormentose ricerche di una «prosa viva, efficace, adatta a rendere tutte le quasi impercettibili sfumature del pensiero moderno». Fino all’ultimo s’affannò a sostenere la così detta impersonalità nella narrazione e l’oggettività nell’arte narrativa.

Il Verga che nel romanzo giovanile I carbonari della montagna e nelle Storie del Castello di Trezza segue ancora le vecchie forme narrative romantiche di casa nostra, che seguirà poi fino al romanzo Eros le stesse forme, ma rammodernate, secondo il gusto e il tono d’una certa moda letteraria francese, fa sue infine le idee e suoi i propositi teorici del Capuana.
Ora, parlare, come fa questi di tradizioni in arte, come di qualche cosa da cui l’opera d’arte dipenda e senza la quale sia, se non proprio impossibile, difficilissimo ch’essa nasca, è – come si fa di solito – porre male una questione, che va posta e – per conseguenza – risolta altrimenti. Non è da parlarne cosí, perché ogni vera opera d’arte è e dev’essere «unica» e dunque senza modelli. Non esiste per se stessa, in astratto, una forma «romanzo» o una forma «novella» che da sé, qua o là, e qua meno e là piú, si evolvano; bensì quei tali romanzi, quelle tali novelle ciascuno e ciascuna con la sua forma propria, da non potersi confondere con altre, se veramente son opere d’arte. Considerando per sé le forme e indicando i modelli e prescrivendo le regole e il metodo con cui quelle narrazioni dovevano esser condotte, si veniva a cader nello stesso errore intellettualistico della retorica, che consisteva appunto in questo, come anche nella ricerca esteriore dell’espressione, quasi che il linguaggio fosse qualcosa da prender da fuori per rendere ciò che ci sta dentro e non qualcosa che si formi in noi col pensiero stesso e che è anzi il pensiero stesso che si vede in noi chiaro in tutte le sue parti; e quasi che, del resto, benché adoperata in una narrazione mista, noi non avessimo di già in casa nostra, con tutto il tormento di una triplice elaborazione, l’esempio di una prosa viva, efficace, adatta a rendere le più lievi e riposte pieghe della passione e del pensiero nei Promessi Sposi del Manzoni. La questione infine dell’impersonalità o dell’oggettivismo nell’arte narrativa non ci voleva molto a vedere che si riduceva tutta a nient’altro che a un diverso atteggiamento dello spirito nell’atto della rappresentazione, poiché l’arte, come coscienza del soggetto, non può esser mai oggettiva se non a patto di porre ciò che è creazione nostra, fuori di noi, come se non fosse appunto nostra, ma una realtà per sé, che noi dovessimo solamente ritrarre con fedeltà, senz’affatto mostrare di parteciparvi, da spettatori diligenti e spassionati.

In fondo, il Capuana cadde, come tutti i teorici del naturalismo, per mancanza di discernimento estetico, nello stesso errore, per cui il Manzoni doveva condannare il suo capolavoro; con la sola differenza che il Manzoni aberrò esteticamente per uno scrupolo verso la Storia, il Capuana e i naturalisti per lo scrupolo della Scienza qual’era intesa ai loro giorni; ma non per sostenere che si doveva far così.
Mostrare o non mostrare coscienza della propria creazione: è tutto qui: atteggiarsi liricamente, cioè attraverso gli elementi soggettivi dello spirito, il sentimento e la volontà; o atteggiarsi storicamente, cioè attraverso l’elemento oggettivo: l’intelletto. L’opera d’arte perfetta è rarissima, perché assai di raro avviene che tutto lo spirito nei suoi varii elementi, accordati all’unisono, lavori, senza il prevalere di questo su quello, come sempre avviene in un tempo o nell’altro, per azioni e reazioni improvvise. E sempre, difatti, dietro o accanto a ogni movimento letterario abbiamo un diverso orientarsi del pensiero filosofico; e come per reazione all’intellettualismo, che ebbe la sua poetica nel classicismo, irrompono i due elementi soggettivi conculcati, il sentimento e la volontà naturalmente disordinati e quasi ciechi, perché ribelli a ogni lume d’intelletto, elementi che avranno la loro poetica nel romanticismo; così più tardi, per reazione all’idealismo romantico avremo il materialismo e il positivismo sperimentale che troveranno la loro poetica nel naturalismo letterario, che si propone di darci «documenti umani» e «pezzi di vita» e di annegare l’arte nella scienza. Avremo reazione anche a questo; e per meno – in un certo senso -il Fogazzaro, e per assai più in altro senso il D’Annunzio vogliono essere, piú che in realtà non siano, i campioni di questa reazione. E ora si ritorna, sazii e stanchi di forme concluse e troppo sonore, ai frammenti puri, ai «pezzi di vita»; si ritorna umiliati alla grande arte del Verga, il quale per sua ventura ebbe per queste cose scarso intelletto e si valse di quello del Capuana solo per quel tanto che gli occorse a veder chiara tutta quella solidità elementare, che il sentimento originario della sua terra gli poneva, e facendo che ad essa la sua volontà ritemprata, potente e schietta, aderisse perfettamente.

Nocque senza dubbio il troppo intelletto al Capuana; troppo esso, e spesso, gli fece – per dir così – meccanizzare quegli elementi del tempo che dovevano per necessità naturale condizionare così la sua coltura come la sua opera; ma non di rado egli, anche dimenticando tutta la sua critica, e abbandonandosi intero alla tanta vita ch’era in lui, creò cose che non passeranno: tante delle novelle paesane, pagine di pura bellezza nel Marchese di Roccaverdina e in Profumo.

Non è possibile a tutti ritrarsi a tempo dal lavoro, che ha stancato la mente e la mano; premono dure necessità e costringono alla fretta senza più quella libertà e quella serenità di cui l’arte non può fare a meno. È ingiusto giudicar da questo lavoro soltanto, più noto perché più recente, uno scrittore, dimenticando quel che egli nel suo miglior tempo ci diede.
Toccò invece a Giovanni Verga, e meritamente, la stessa invidiabile sorte dell’altro nostro sommo scrittore, che poco fa ho nominato, e a cui anche per questo può star vicino, oltre che per certe qualità intrinseche dell’arte e per la simpatia per gli umili: la stessa invidiabile sorte d’Alessandro Manzoni; cioè: superstite alla sua opera di scrittore, poter esser sicuro della vita imperitura di essa, dopo averla saggiata al paragone d’un lungo silenzio.
Silenzio non soltanto suo, in quanto egli seppe «col suo formidabile buon senso compire l’estrema rinunzia, quella dell’arte, quando s’accorse di non potersi più superare»; ma silenzio anche del tempo nella sua opera, che come fuoco sicuro e inestinguibile ha potuto covare a lungo sotto la cenere di tant’altre ambizioni che superbamente le s’eran fatte sopra, vampando.
Qualcuno ha voluto vedere la ragione della non larga risonanza di quest’opera negli animi dei lettori, nell’assenza da essa d’un contenuto ideologico, o comunque spirituale, affettivo dello scrittore, che desse facile e abbondante materia di discussione alla critica e destasse e stuzzicasse curiosità e interessi extra artistici nei lettori, come è avvenuto ad esempio per il Fogazzaro o per il Pascoli o per il D’Annunzio.

Ora questo può esser vero solo in parte. Prima di tutto perché qualunque opera d’arte può sempre dal pensiero riflesso, cioè dalla critica esser risolta in un rapporto logico, per trarne regole di vita e materia di discussioni, che non han nulla da vedere con l’arte, perché riguardano appunto il contenuto, la materia della costruzione fantastica e non questa costruzione che è la sola che importi. Se in Verga non è mai ostentato, non appar mai di fuori, è riassorbito tutto nella forma, non per questo la critica non poteva desumerlo da tutti gli atteggiamenti di questa forma, sia rispetto ai personaggi per quanto elementari, sia rispetto alle cose rappresentate per farlo oggetto (come fece del resto) di. discussioni – riguardo all’arte – oziose: la concezione dei vinti; l’anima di essi; tutta la morale sociale, che il Verga attinse, ideologicamente, al positivismo, come naturalista: la lotta per l’esistenza, implacabile, dapprima intesa nel senso piú materiale, poi a mano a mano complicata di bisogni superiori.

Più che in tutti gli altri, anzi, nel Verga c’erano segreti da scoprire in questo senso. Tutto patente, negli altri; tutto da scoprire, nel Verga; attraverso la sua «impersonalità», non volendo o non sapendo il critico, tanto per il Verga quanto per gli altri scrittori, restar nei limiti del suo vero e difficile compito: risolvere cioè solamente il problema artistico: dati questi e questi materiali costruttivi; ecco la costruzione; esaminarla. Mostrare di rappresentare da spettatore spassionato un mondo di povero gusto e di povere cose, vuol dire proprio appassionarsi di tutto e di tutti, anche dei minimi contrarii, e anzi tanto degli uni quanto degli altri; e quel che appare semplice al più complesso che si possa immaginare, perché colto nella sintesi di certi atti immediati, che per essere intesi come il Verga li intende tutti «umanamente» e non come atti di bruti, presuppongono un intenso e sagace lavorio interno d’analisi, taciuto e non ostentato, come il Verga stesso ebbe a osservare parlando dei narratori della scuola psicologica.

La ragione è un’altra: la ragione è in una grande, o piuttosto, prestigiosa avventura letteraria, che prese tutt’a un tratto e tenne per tanto tempo gli animi in un abbaglio fascinoso: quella d’un uomo adatto e magnifico, nato per l’avventura, così nell’arte come nella vita, e in una tal confusione d’arte e di vita da non potersi dire quanta della sua vita sia nella sua arte, quanta della sua arte nella sua vita; una tal confusione salvando nel solo modo con cui era possibile salvarla, cioè in apparenza, da fuori, sotto il lussuoso paludamento d’una continua letteratura. Ho detto Gabriele d’Annunzio.
Giovanni Verga è il più «antiletterario» degli scrittori; il D’Annunzio è tutto letteratura, anche là dove l’esperta e istrutta, acutissima sensibilità riesce a farlo veramente vivo: noi sentiamo sempre che è «troppo» anche là, e che questo troppo gli è dato dalla letteratura, la quale ha arricchito col più dovizioso ausilio verbale, raffinandolo fin quasi a renderlo anormale, il nativo acume dei suoi sensi vivi.

Non era possibile che in un tempo pieno (e in principio, anzi, tutto quanto grottescamente echeggiante) di questa avventura letteraria, avesse se non una mediocre risonanza nell’animo dei lettori l’opera e l’arte di Giovanni Verga, che è la più antitetica che si possa dare. Là tutto il volubile delle opportunità propizie; qua la statica monotonia d’uno scoraggiamento disperato e rassegnato; là la pomposa opulenza non solo d’una prosa tutta tumida polpa con sapienza truccata, ma anche opulenza materiale di cose rappresentate, perché e ville e ozii e smanie e superbi orgogli di signori; qua asciutta magrezza d’ossatura e povertà nuda di parole e di cose, la piazza sempre quella e le vecchie case d’un umile villaggio, il mare (ma non il poetico, divino mare) il mare avaro e crudele dei pescatori, deserte campagne infestate dalla malaria, gli stenti, i bisogni, le passioni chiuse, originarie e sospettose di un’infima gente che vuol salire, o che è già salita e n’ha l’affanno che le vieta non solo il riposo, ma ogni consolazione. Là, insomma, per aprire davanti a noi in una più vasta veduta letteraria due lineamenti ben distinti e quasi paralleli lungo tutto il cammino della nostra storia artistica, là uno stile di parole, qua uno stile di cose. Li abbiamo fin dagli inizii della nostra letteratura questi due stili opposti: Dante e Petrarca, e possiamo seguirli a mano a mano fino a noi, Machiavelli e Guicciardini, l’Ariosto e il Tasso, il Manzoni e il Monti, il Verga e il D’Annunzio. Negli uni la parola che none la cosa e per parola non vuol valere se non in quanto esprime la cosa, per modo che tra la cosa e il lettore che deve vederla, essa, come parola, sparisca, e stia lí, non parola, ma la cosa stessa. Negli altri, la cosa che non tanto vale per sé quanto per come è detta, e appar sempre il letterato che vi vuol far vedere com’è bravo a dirvela, anche quando non si scopra. E lí, dunque, una costruzione da dentro, le cose che nascono e vi si pongono innanzi sí che voi ci camminate in mezzo, vi respirate, le toccate: terra, pietre, carne, quegli occhi, quelle foglie, quell’acqua; e qua una costruzione da fuori, le parole dei repertorii linguistici e le frasi che vi sanno dir queste cose, e che alla fine, poiché ci sentite la bravura, vi saziano e vi stancano.

Guardate bene a queste due discendenze, o famiglie, o categorie di scrittori, per ciò che riguarda la famosa, eterna questione della lingua, veduta come s’è vista sempre, esteriormente e non come creazione. Negli uni è la lingua, come vive scritta: «letteraria». Negli altri tutti, un sapore idiotico, dialettale, a cominciar da Dante, che nei dialetti appunto, e non in questo o in quello, vedeva risiedere il volgare. E tutta la pompa più doviziosa della lingua è in D’Annunzio; e dialettale è il Verga.
Dialettale? Sí. Ma come è proprio, volendo fare arte e non letteratura, che si sia dialettali in una nazione che vive soltanto, propriamente, della varia vita, e dunque nel vario linguaggio delle sue molte regioni. Questa «dialettalità» del Verga è una vera creazione di forma, da non considerare perciò al modo usato, cioè come «questione di lingua», notandone lo stampo sintattico, spesso prettamente siciliano, e tutti gli idiotismi.
Qui idiotico vuol dire «proprio». La vita d’una regione nella realtà che il Verga le diede, cioè com’egli la sentì, come la vide, come in lui si atteggiò e si mosse, vale a dire come su lui si volle, non poteva esprimersi altrimenti: quella lingua è la sua stessa creazione. E non è colpa degli scrittori italiani, né povertà, ma anzi ricchezza per la loro letteratura, se essi «creano la regione». Nazione da noi vuol dire o volgarità meccanica e stereotipata di stile burocratico e scolastico, o astratta verbosità di lingua letteraria e retorica: quello che sempre, se pure in prima musicalmente piace, alla fine sazia e stanca.

E il ritorno al Verga, inevitabile, è infatti ora dei giovani sazii e stanchi di quella troppa letteratura. E ne godo io -radicalmente diverso – che mi trovai solo in mezzo a quell’avventura a rider degli avanzi sfortunati di ciò che a volte parve 1’impazzimento d’uno sconcio carnevale; io freddo e sordo e duro, non fatto per star nelle grazie né di me stesso né di nessuno. Doveva avvenire. Perché la vita o si vive o si scrive. Dove non c’è la cosa, ma le parole che la dicono; dove vogliamo esser noi per come le diciamo, c’è, non la creazione, ma la letteratura, e anche letterariamente, non l’arte ma l’avventura, una bella avventura, che si vuol vivere scrivendola o che si vive per scriverla.

E ne è esempio lo stesso Verga giovane nella sua prima opera, che è appunto lo sfogo delle sue sentimentalità romantiche e sensuali; mondo composto esteriormente e – ciò che può sembrare un paradosso – fuori d’ogni sentimento diretto, non perché questo sentimento non fosse allora vero e suo, anzi perché lo era troppo e non riusciva a investir da dentro una realtà, che voleva esser veduta, cioè posta fuori in un personaggio, in quel personaggio appunto della sua aspirazione romanzesca, suscitata e rinsaldata dalla lettura di certi romanzi francesi. C’era insomma l’ambizione di viverli, questi romanzi, scrivendoli, e non poteva seguirne che l’artificio: il torbido di quelle aspirazioni, facendo impeto al filtro dell’arte e ingorgandosi, non riusciva a purificarsi. Ma fu un’esperienza necessaria per la sua natura appassionata, che tentava d’incarnarsi nell’arte, che cercava il suo romanzo, e cominciava col foggiarselo artificialmente, campato in aspirazioni di gusto francese. Tutte queste scorie romantiche bisognava che bruciassero, perché l’oro poi riuscisse a colar puro; bisognava che il Verga arrivasse a questa conclusione della sua opera giovanile, che si legge nel romanzo Eros: «Tutta la scienza della vita sta nel semplificare le umane passioni, e nel ridurle alle proporzioni naturali». Vale a dire nel poco da scavare in profondo, perché la quercia tanto più si radichi quanto più alta e ferrigna si leverà nel sole, anziché nel vasto da coltivar superficialmente perché vi spuntino appena piante d’una sola stagione. Bisognava, insomma, che il fuoco dell’arte – bruciate queste scorie – investisse in lui;, nel profondo, una materia viva.

Qual’è nel Verga questa materia viva?
È troppo vago dire, come è stato detto, la passione, e riassumere l’uomo Verga, quale forse è, quale, a ogni modo, vien fuori dalla sua opera, in queste note: «Siciliano triste, appassionato, austero, che nella realtà vede il mondo quale esso è, e si spiega che non può esser diverso da quello che è, e mentre soffre della realtà, tosto ne riconosce la razionalità, la sua malinconica fatalità».
Siciliano triste – va bene. Tutti i siciliani in fondo sono tristi, perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita, e anche quasi una istintiva paura di essa oltre quel breve ambito del covo, ove si senton sicuri e si tengono appartati; per cui son tratti a contentarsi del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno, aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé, perché di quest’aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode, ma appena, se l’ha, la sua poca gioia, da sé, taciturno e senza cercar conforti, si soffre il suo dolore spesso disperato. Ma ci son di quelli che evadono; di quelli che passano non solo materialmente il mare, ma che, bravando quell’istintiva paura, si tolgono (o credono di togliersi) da quel loro poco e profondo che li fa isole a sé, e vanno ambiziosi di vita ove una loro certa fantastica sensualità li porta, spassionandosi, o piuttosto soffocando e tradendo la loro vera, riposta passione, con quella ambizione di vita effimera. Il Verga, giovine, fu uno di questi; e dunque non veramente appassionato in principio e neanche austero. Austero, anzi, propriamente, o meglio, in un certo senso moralistico, non sarà mai, né per quel che pensa della vita né per quel che sente, come ognuno che veda e scusi le opposte passioni e riconosca sempre le ragioni degli altri.
Non ha poi senso il dire «nella realtà egli vede il mondo quale esso è, e si spiega che non può essere diverso da quello che è». Il mondo non è per se stesso in nessuna realtà, se non gliela diamo noi; e dunque, poiché gliel’abbiamo data noi, è naturale che ci spieghiamo che non possa esser diverso. Bisognerebbe diffidar di noi stessi, della realtà del mondo posta da noi. Per sua fortuna il Verga non ne diffida se si spiega che il mondo non può esser diverso da quello che è. E dunque il Verga non è, né può essere, nel senso vero e proprio della parola, un umorista.
Bisogna intendersi bene su tutto questo.

Non solo per l’artista, ma non esiste per nessuno una rappresentazione, sia creata dall’arte o sia comunque quella che tutti ci facciamo di noi stessi e degli altri e della vita, che si possa credere «una realtà». Sono in fondo una medesima illusione quella dell’arte e quella che comunemente a noi tutti viene dai nostri sensi.
Pur non di meno, noi chiamiamo «vera» quella dei nostri sensi, e «finta» quella dell’arte.
Ma se ben guardiamo, tra l’una e l’altra non è mai però questione di «realtà», bensì di «volontà» e solo in quanto la finzione dell’arte è sempre «voluta» – voluta non nel senso che sia procacciata con la volontà per un fine estraneo a se stessa; ma voluta per sé e per sé amata, «disinteressatamente»; mentre quella dei sensi non sta a noi volerla o non volerla: si ha, come e in quanto si hanno i sensi. E quella, dunque, è libera; e questa, no. E l’una è dunque immagine o forma di sensazioni; mentre l’altra – quella dell’arte – è creazione di forma.
Il fatto estetico, effettivamente, comincia solo quando una rappresentazione acquisti in noi «per se stessa» una volontà, cioè quando essa in sé e per se stessa «si voglia», provocando per questo solo fatto, «che si vuole», il movimento atto a effettuarla fuori di noi. Se la rappresentazione non ha in sé questa volontà, che è – come abbiamo detto – il movimento stesso dell’immagine, essa è soltanto un fatto psichico comune: l’immagine non voluta per se stessa; fatto spirituale-meccanico, in quanto non sta a noi, ripeto, volerla o non volerla; ma che si ha in quanto risponde in noi a una sensazione.

Abbiamo tutti, chi più chi meno, una volontà che provoca in noi quei movimenti atti a creare la nostra propria vita. Questa creazione che ciascuno fa di sé a se stesso, ha anch’essa bisogno, in maggiore o minor grado, di tutte le funzioni e attività dello spirito, cioè d’intelletto e di fantasia, oltre che di volontà; echi piú neha piú ne mette in opera, e riesce a creare a se stesso una più alta e vasta e forte vita. La differenza tra questa creazione e quella dell’arte è solo in questo (che fa appunto comunissima l’una e non comune l’altra); che quella è «interessata» e questa «disinteressata», il che vuol dire che l’una ha un fine di pratica utilità, l’altra non ha alcun fine che in se stessa; l’una è voluta per qualche cosa, l’altra si vuole per se stessa. E una prova di questo si può avere nella frase che ciascuno di noi suol ripetere ogni qual volta, per disgrazia, contro ogni nostra aspettativa, il proprio fine pratico, i proprii interessi siano stati frustrati: «Ho lavorato per amore dell’arte». E il tono con cui si ripete questa frase ci spiega la ragione per cui la maggioranza degli uomini, che lavorano per fini di pratica utilità e che non intendono la volontà disinteressata, suol chiamare matti i poeti veri, quelli cioè in cui la rappresentazione si vuole per se stessa, senz’altro fine che in se medesima, e tale essi la vogliono, quale essa si vuole.

In questo totale disinteresse, e non in altro può consistere la impersonalità dello scrittore nella realtà da lui creata. In tutto il resto è lui, sempre, per forza, e tanto più, starei per dire, quanto meno si scopre.
Perché realtà non esiste se non nei sentimenti che ce la compongono. La vivremmo ciecamente, se a ciascuno il lume dell’intelletto, o più o meno, secondo i casi e i temperamenti, non ce la rischiarasse. Composta dai nostri sentimenti – com’ha bisogno dell’intelletto per esser veduta – così della volontà per muoversi in noi, per noi e con noi.
L’arte è arte, perché ciò che è realtà, vale a dire appunto questa composizione dei nostri sentimenti, rischiarata dal nostro intelletto e mossa dalla nostra volontà, cosa infinitamente varia e continuamente mutevole, condizionata sempre nella sua molteplicità (e appunto perché molteplice) di spazio e di tempo – è fissata per sempre dalla fantasia in un momento o in più momenti essenziali, fuori di questo molteplice (e dunque dello spazio e del tempo) – eterna e una – ma non nell’assoluto di un’astrazione, bensì eterna perché di tutti i tempi, ed una perché quella, che ha vita nel consenso di tutti e in tutti, naturalmente, in un suo particolar modo: liberata da tutto ciò che è comune, ovvio, caduco, da tutti quegli ostacoli che, nella creazione della nostra propria vita, spesso ci distraggono, ci arrestano, ci deformano.

Non bisogna dunque dire che uno scrittore, quale il Capuana lo voleva, quale per lui era il Verga, e poteva anche essere ogni altro scrittore al pari di lui impersonale, il Flaubert, lo Zola, il Maupassant, il Capuana stesso, «veda il mondo qual’esso è nella realtà e si spieghi che non può esser diverso da quello che è» – ma bisogna invece vedere quali sentimenti pongano a questo o a quello scrittore, al Verga nel caso nostro, la sua realtà, la realtà del suo mondo, con quale intelletto egli se la rischiari, con quale volontà la muova.
Il Verga quale naturalmente si condiziona nella storia del suo tempo, cioè per quel suo particolar modo di essere come poteva e doveva generarsi in lui nel suo tempo e col suo tempo, non ha una fede attiva, una norma direttiva nella vita, e non la cerca nemmeno, perché crede che non ci sia. Ce l’ha in fondo, nascosta; ma è per il sentimento – e dunque oscura – non per il pensiero. La norma affettiva: degli affetti immediati: la famiglia, la sua terra, i costumi della sua gente, gli interessi, le passioni di essa. E qui soltanto, difatti, egli riesce a porre a se stesso una realtà. Non crea, dunque, ideologicamente, un mondo, non riesce cioè a ordinarlo secondo una sua idea, da fuori, in una realtà ch’egli possa o sappia dargli superandolo, cioè a dire superandosi. Lo accetta in quella realtà oscura che a volta a volta gli pone il suo sentimento, da dentro, e dice che essa è così, perché è così. E per forza il sentimento in questo suo porsi a caso e senza lume, s’intristisce sempre più e si logora a mano a mano, come un meccanismo governato da un’angosciosa fatalità. Egli rappresenta il consistere quasi fatale di questi sentimenti in realtà che non possono esser che quelle, perché il sentimento è questo ed è così – così triste! così implacabilmente triste!

Rileggete Vita dei campi e Novelle rusticane, rileggete Per le vie e Vagabondaggio, I Malavoglia e Mastro don Gesualdo. Eppure parve al Verga che le irrequietudini del pensiero vagabondo potessero addormentarsi dolcemente in lui «nella pace serena di sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione», considerando come cose seriissime e rispettabilissime il tenace attaccamento d’una povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li lasciò cadere, la rassegnazione coraggiosa a una vita di stenti, la religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa e sui sassi che la circondano. Troppo egli, e invano, cercò di scorgere entro al turbine della fatua vita cittadina, di là dal mare, e gli parve alfine di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e cercò di decifrare il dramma modesto e ignoto che sgomina gli attori plebei del suo capolavoro: I Malavoglia; un dramma il cui nodo, come egli stesso dice, consiste in questo: «che, allorquando uno di quei piccoli vuole staccarsi dal gruppo per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com’è, se lo ingoja, e i suoi prossimi con lui». Questo è il pensiero che fa lume al suo sentimento. Un ben triste lume. E il sentimento che è d’amore per quegli umili, per quei deboli, per quelle povere cose, diventa per forza, a quel lume, passione, e la passione tormento. Altro che dolce addormentarsi! altro che pace serena! altro che sentimenti miti e semplici in calme vicende inalterate di generazione in generazione! E un mondo, un povero mondo di bisogni primi, di primi affetti, intimi, originarii, nudi, e di nude cose, di semplicità elementare, in preda a una necessità fatale. Egli per il primo ne soffre, ma subito quel lume gli fa riconoscere che non può esser che cosí e non c’è via di scampo in altra realtà che potrebbe esser diversa, a guardarla da un altro lato ó da sopra, o facendo che il sentimento dei personaggi, a volte, si rimirasse anche di sfuggita nello specchio d’una riflessione estranea, cioè dello stesso scrittore, come avviene spesso in Manzoni. No; egli la guarda sempre, sempre da dentro, con gli occhi dei suoi stessi personaggi, in una immedesimazione continua: e la realtà è quella sola, quale la pongono i sentimenti di quei personaggi, implacabilmente, inesorabilmente quella. Non che qualche volta non sia comica o non s’ironizzi per dir così da sé, nei commenti degli altri attori della scena o nei contrasti, spesso crudeli, anche se goffi, della vita provinciale o di campagna. Ma incombe sempre anche qui quella necessità fatale, che rende perciò malinconica l’ironia e triste la goffaggine, come in Malaria, come nel Reverendo, come in Cos’è il Re, o in Libertà o in Don Licciu Papa, e qua e là un po’ da per tutto nelle novelle e nei Malavoglia e in Mastro don Gesualdo. Bisogna farsi una ragione di questa fatalità incombente, e guaj a chi non se la fa o non se la vuol fare: avrà il danno e anche le beffe. E questa è la rassegnazione verghiana, che è così amara anch’essa! Non razionalità, dunque, che dà l’idea d’una rigidezza meccanica, ma rassegnazione alla necessità fatale, che vince tutti, e che non ammette che qualcuno le si ribelli.

Più facile e meno amara, perché confortata, è questa rassegnazione se si raccoglie attorno al focolare domestico, che per il Verga, come per tutti i siciliani, è sacro. Morte e dannazione a chi lo tradisce, a chi se ne scorda. In quasi tutta l’opera verghiana c’è questo fulcro sacro, a cui l’autore, sempre attraverso gli occhi dei suoi personaggi, guarda con venerazione, con nostalgia, con tenerezza, pieno di pietà per chi non poté averne, per chi dalle miserie della vita fu costretto ad allontanarsene o a perderlo. «A ogni uccello il suo nido è bello!» Oh i proverbii di Padron ’Ntoni, per cui gli uomini son fatti come le dita della mano! Oh la casa del Nespolo, indimenticabile! e tutte le pene per riscattarla, per poi morirne lontano, in un albergo dei poveri in città, con gli occhi sempre alla porta per vedere se qualcuno entrasse per portarselo via, là dove, non potendo piú vivere, voleva almeno morire! E ciò che forma la tristezza piú grande di Mastro don Gesualdo è il suo morire come un cane nel palazzo della figlia, lui che per far la roba non s’era mai dato un momento di requie!
Ma don Gesualdo Motta non vale Padron ’Ntoni Malavoglia. Il suo romanzo si mostra un po’ costruito d’elementi che visibilmente si riportano attorno a lui, senza quella compatta e schietta naturalezza del primo romanzo, tanto piú mirabile e quasi prodigiosa, in quanto non si sa come risulti così fusa attorno a quella casa del Nespolo tutta la vita di quel borgo di mare e come venga fuori senza intreccio e pieno di tanta passione il romanzo in cui le vicende sembrano a caso.

E non è da dire che tutto questo non sia voluto, perché era nell’aspirazione e dunque nell’intenzione dello scrittore, se, dedicando a Salvatore Farina la novella L’amante di Gramigna nella Vita dei campi, scriveva che il trionfo del romanzo si sarebbe raggiunto «allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà cosí evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore… ch’essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come dev’essere ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari di una statua di bronzo, di cui l’autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale».
L’aspirazione divenne realtà nei Malavoglia. Il segreto del prodigio è nella visione totale dell’autore, che dà a quanto appare sparso e a caso nell’opera quell’intima vitale unità che non domina mai da fuori, ma si trasfonde e vive nei singoli attori del dramma, i quali, sì, son tanti, ma si conoscono tutti e ciascuno sa tutto dell’altro e del piccolo borgo intende ogni aspetto e ogni voce, se suona una campana, da qual chiesa suoni, un grido, chi ha gridato e perché ha gridato, legati tutti da ogni piccola vicenda che si fa subito comune.

Così, da un capo all’altro, per tanti fili, che non sono di questo o di quel personaggio, ma che partono da quella necessità fatale dominante, l’opera d’arte si tiene tutta, meravigliosamente, con quello scoglio, con quel mare, con l’antica dirittura solenne di quel vecchio uomo di mare, in una primitività quasi omerica, ma su cui incombe quasi un senso della fatalità dell’antica tragedia, se la rovina di uno è la rovina di tutti, e con l’ammonimento che ne emana, tra la pietà sbigottita per la sorte dei vinti. I vinti! Siamo un po’ tutti noi, sempre, nella concezione del Verga che, al lume di quel suo triste pensiero, si fa veramente totale.

L’arte di Giovanni Verga dimostra a chi è tutto in una superficiale e vivace sensibilità, che s’offende di nulla e nulla sopporta e subito grida e sa farsi valere, che essa sia in fondo, e da che provenga, quella che sembra istintività selvaggia e inconsulta impulsività. Quando si ha molto sofferto e tutto sopportato, basta un nulla, la goccia proverbiale a far traboccare il vaso. E allora chi è abituato a gridare per nulla e non sopporta nulla, ci accusa di istintività e di impulsività, solo perché soffrendo e sopportando, fino a tanto che n’eravamo capaci, abbiamo taciuto, e per quel che pare poi un punto, un’inezia, un futile pretesto ma che era proprio il di più, ci siamo ribellati: per forza con animo di vinti – non dagli altri, vinti – ma dal nostro stesso sentimento che ha tutto sopportato e alla fine non ne ha potuto più.
Oggi più che mai è nostra questa concezione dei vinti che vive nell’opera immortale del nostro più grande scrittore contemporaneo.

Subiamo il triste destino degli uomini che han vissuto l’atroce affanno e il tormento per una conquista, che non tanto gli altri quanto i nostri animi stessi vogliono far vana; non per viltà, ma perché siamo abituati a sopportare tutto e sappiamo soffrire con coraggiosa rassegnazione. Con cuore taciturno, entro il poco che ci è dato, scaviamo in profondo. Ma bisogna che la misura, per quanto capace, non si colmi.
Giovanni Verga, certo, non ha voluto dimostrar questo con la sua grande arte, per un proposito estraneo all’arte stessa; ma questo che emana dalla realtà viva e dolorosa di tutta la sua opera, questo che è il sentimento suo, com’è di noi e di tutta la gente nostra, questo lo fa oggi più che mai nostro.

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