Di Beatrice Alfonzetti.
L’intervento ricostruisce la poetica corale di Pirandello che corre parallela a quella copernicana, dalla composizione di Pasqua di Gea alla Favola del figlio cambiato, per poi trovare mirabilmente nei Giganti della montagna la sintesi poetica delle due poetiche.
Sogni e favole:
Pirandello corale
Da La modernità letteraria, N.11 – 2018
Come tutti i grandi scrittori, Pirandello non è immune da contraddizioni poetiche: ciò fa sì che, ad esempio, la sua opera più innovativa, i Sei personaggi in cerca d’autore, sia poi ricondotta dallo stesso autore a «una vera tragedia classica rinnovata». [1]
[1] Beatrice Alfonzetti, Il trionfo dello specchio. Le poetiche teatrali di Pirandello, Catania, CUECM, 1984, pp. 108-109. Pirandello si esprime così nella lettera a Ruggeri del 21 settembre 1936. Cfr. Un carteggio in chiaro-scuro. Luigi Pirandello, Ruggero Ruggeri. Lettere dal 1917 al 1936, a cura di Alfredo Barbina, «Ariel», 2/3, 2004, pp. 303-371.
Allo stesso modo l’indiavolata Questa sera si recita a soggetto è anche un dramma della nostalgia per il mondo incantato dell’opera, per le favole e i drammi a tutto tondo, quando i personaggi, diversamente da come accade agli attori che recitano nei ruoli di Sampognetta e della figlia Mommina, morivano per davvero.
Questa nostalgia ha origini antiche nel nostro scrittore, nasce negli anni ottanta dell’Ottocento, insieme alla passione per Leopardi e all’acquisto dei libri di Darwin e di astronomia. Sin dagli esordi, in effetti, in Pirandello coesistono, in parallelo, due macropoetiche, quella copernicana e quella corale, consegnate a due immagini di Arte e coscienza d’oggi, il lucido saggio teorico del 1893. La prima immagine è quella dello shakespeariano Re Lear, «armato d’una scopa in tutta la sua tragica comicità» di fronte alla terra fattasi una piccola trottola e all’uomo, che sino a poco prima tanto presumeva di sé, ridotto a un «atomo astrale»; la seconda invece, tratta da Heine, è quella favolosa di Ilse «la fata amica, che nel castello alpino, premeva le candide mani su gli orecchi del suo principe, perché questi col corpo reclinato sul seno di lei non udisse il suon delle trombe, che lo chiamavano alla battaglia». [2]
[2] Luigi Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 19733, p. 896 e p. 903. Su Pirandello copernicano qui basti il rinvio a Beatrice Alfonzetti, Il cosmo, in Luoghi e paesaggi nella narrativa di Luigi Pirandello, a cura di Gianvito Resta, Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 11-30.
Tratta, senza rivelarne l’autore, dal Die Harzreise di Heine, [3] Ilse, personificazione leggendaria del fiume Harz, che secondo la leggenda, sotto forma di principessa fatata, aveva soccorso l’imperatore Enrico IV, simboleggia qui l’impossibile rifugio della disgregata coscienza moderna, alludendo alla perdita della poesia delle origini che si alimentava delle antiche favole.
[3] Cfr. Heinrich Heine, Il viaggio nello Harz, a cura di Maria Carolina Foi, prefazione di Claudio Magris, con testo a fronte, Padova, Marsilio, 2003, 3a ed.: «Ich bin die Prinzessin Ilse / Und wohne im Ilsenstein; / Komm mit nach meinem Schlosse, / Wir wollen selig sein // […] // Doch dich soll mein Arm umschlingen, / Wie er Kaiser Heinrich umschlang, / Ich hielt ihm zu die Ohren, / Wenn die Trompet erklang» (pp. 154-157) («Sono la principessa Ilse / E vivo a Ilsenstein; / Vieni con me al mio castello, / Vogliamo essere felici // […] // Ma il mio braccio dovrebbe avvolgerti, / Come avvolse l’imperatore Heinrich, / Gli tenni le orecchie / Quando suonò la tromba »).
Cfr. Luigi Pirandello, Lettere da Bonn 1889-1991, Introduzione e note di Elio Providenti, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 14-15 (Introduzione).
L’apparizione di Ilse, in Arte e coscienza d’oggi, fissava l’impossibile fuga della coscienza moderna nel mondo favoloso, e con essa la lontananza dalla poesia del passato. Pur se meno centrale, rispetto alla coscienza copernicana, questa nostalgia troverà voce in tutto il percorso di Pirandello sin dall’inno alla Primavera della giovanile raccolta poetica Pasqua di Gea (1891), dedicata a Jenny Schulz-Lander, la ragazza amata e abbandonata a Bonn. Poi avrà una sua assoluta evidenza nella favola campestre Liolà, nella traduzione in dialetto agrigentino del Ciclope di Euripide, nella Sagra del Signore della Nave, nel mito La nuova Colonia e in altri lavori “minori” come la favola in versi del poemetto Scamandro o la pantomima La Salamandra e per ultimo nella Favola del figlio cambiato. Solo i Giganti della montagna riusciranno a unificare le due poetiche nella mirabile sintesi di Ilse che canta la favola del malinconico principe in una cornice meta teatrale orchestrata da Cotrone: favole e credenze arcaiche si rigenerano nel mito moderno dell’arte e in tal senso possono ancora sopravvivere.
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Suoni di zampogne e canti sacri affollano ricordi e sogni fatti sul Reno già nel freddo e nevoso Natale di Bonn. Essi saranno fissati in piccoli racconti autobiografici espunti dalle Novelle per un anno, [4] dove non troverà posto neanche la bellissima novella I due giganti in cui «le note di quelle musiche lontane» risuonano dentro e si fanno metafora del tempo, in cui tutto si dilata, il vissuto esistenziale e la sua trasfigurazione mitica.
[4] Cfr. Natale sul Reno e Sogno di Natale (1896), in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, premessa di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1990, III, t. II, Appendice, pp. 993-1003.
Precipitato in un’«infinita lontananza» il primo è perduto, come lo è l’infanzia dell’uomo, nient’altro che favola e immaginazione fantastica:
Posso, come niente, spogliarti di codesta veste verde di seta che t’inguaina, e vederti uscir nuda da una corteccia di querce, ninfa di bosco, alla luna che t’invoglia insieme con le tue ninfe compagne a una danza coi satiri procaci. Questo rumor di festa, che nei tuoi occhi s’è incantato in un silenzio di sogno tentatore, è per me il frusciare di quel bosco favoloso, dove tu sei ninfa ignuda con prolissi capelli di viola. Anche tu, così incantata nel silenzio, non sei più qua, ora. Che vedi? Me, giovine? In un tempo immemorabile, cara. Giovine io fui in quell’epoca favolosa che tu eri ninfa di bosco; e fui allora gigante di tale prodigiosa statura, che mi bastava alzare appena una mano per prendere in cielo la falce della luna a falciare le selve sempre rinascenti dei miei sogni misteriosi. [5]
[5] Ivi, pp. 1157-1158.
Autobiografica, pur se ispirata ai Reisebilder di Heine in cui ai luoghi e figure incontrate in viaggio si sovrappongono le apparizioni mitico-fantastiche che recuperano, con consapevole ironia, le antiche fiabe e leggende dei luoghi visitati, [6] la novella rivela le radici dell’immaginario mitico di Pirandello alla base della sua poetica corale.
[6] Come nei Reisebilder, anche nei Due giganti al sogno della fanciulla ninfa, che sovrappone passato e presente del poeta e del mondo, subentrano le apparizioni dei due favolosi giganti che con un calcio spazzano via le città, «minuscoli mondi grotteschi», e restituiscono all’uomo, abolendo il tempo, la «statura di giganti» con cui liberarsi della «vile pallottola della terra». Ivi, p. 1159.
Volendone ricostruire una sorta di archeologia, essa può essere rintracciata in riflessioni, interessi, progetti giovanili. Ne ricordo alcuni, fra cui la commedia Gli uccelli dall’alto del 1886. [7]
[7] Cfr. la Cronologia in Luigi Pirandello, Maschere Nude, a cura di Alessandro D’Amico, Milano, Mondadori, 1986, I, p. XXIIX.
Metafora dei sognatori della vita, gli uccelli sono irrisi da galli e galline che razzolano nel fango. Così ne parla da Palermo, mentre legge Plauto e Terenzio «per farne un serio confronto con la commedia nostra del Cinquecento» e assiste alla Mandragola «decor nostro», facendosi trasportare «in pieno secolo xvi, secolo d’oro della nostra letteratura». [8]
[8] Cfr. Luigi Pirandello, Epistolario familiare giovanile (1886-1898), a cura di Elio Providenti, Firenze, Le Monnier, 1986, p. 13.
Vorrei farti sentire una, due scene di quella mia Comedia, che è buona, buona assai…[…]. Son sicuro che susciterà favorevole rumore sia per la novità del concetto, sia per la novità dell’azione. Figurati che nel primo atto costringo gli spettatori del teatro a far da attori nella mia Comedia, e trasporto l’azione dal palcoscenico all’orchestra. Vi ho introdotto la scena dei cori, come nelle antiche commedie greche – tanto per mostrare il contrasto della vita com’è, e la vita come la vivono quei miei uccelli dall’alto. [9]
[9] Lettera a Lina del 30 novembre 1886. Ivi, pp. 9-10.
Le «scene stupende» offerte dal vecchio e la fanciulla, Allegra, «creata con l’alito dei fiori», saranno bruciate insieme al sogno giovanile di conquistare il teatro, dove il giovane si reca assiduamente durante gli anni universitari trascorsi a Palermo, Roma, Bonn. Del 1899 è il resoconto a Lina della fascinazione mista a tristezza provata a teatro per il Tannhäuser di Wagner («Tu conosci certamente la leggenda di questo cavaliere e cantore; la musica che l’anima è a dirittura meravigliosa») [10] e, proprio allo stesso anno, risale la stesura del poemetto dialogato in cinque episodi Scamandro.
[10] Cfr. Lettera a Lina del 17 novembre 1889, in Pirandello, Lettere da Bonn 1889-1991, cit., p. 62.
Esso fu edito più volte: nella «Rivista di Roma» (1906), nel volume in omaggio alle nozze di Guido Treves con Antonietta Pesenti (1909) e nella «Nuova Antologia» del 26 gennaio 1929, con una nota sulle musiche di scena «necessarie alla rappresentazione teatrale»:
Il complesso fònico consta di una piccola orchestra, cori e solisti, e i pezzi, destinati secondo il desiderio del Poeta a trasportare in una atmosfera totalmente lirica diversi momenti dell’azione, si seguono in quest’ordine: Preludio, Coro e danza delle Foglie, commenti orchestrali alla scena tra Scamandro e le Najadi e tra queste ed Eumène; Canti dei Pastori, Corteo nuziale, Epitalamio, Notturno, Danza e Coro finale. [11]
[11] Cfr. Scamandro in Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, cit., p. 728.
In questa «favoletta» che potremmo definire una sorta di beffa favolosa a sfondo gioiosamente erotico, ai danni dello stesso fiume tanto decantato nell’Iliade, confluiscono le giovanili aspirazioni a recuperare le prestigiose tradizioni letterarie e teatrali in funzione anti-romantica e anti-naturalistica. Se la tragedia è ritenuta ormai improponibile, mancando all’uomo moderno l’armonia interiore degli antichi greci – così nella prosa del 1890 La menzogna del sentimento nell’arte – in sua vece è richiamato in chiave umoristica il mondo favoloso di pastori e ninfe, di rituali iniziatici e nuziali, restituito con canzonette amorose e canti corali delle Foglie, del Coro e Corifèo. Così come il Coro di Foglie recupera il vagheggiato volo degli uccelli («Se l’ali noi del ramo / fossimo, e come i liberi / uccelli che alberghiamo / potessimo volare / lontan lontan lontano / al monte al piano al mare!»), i motteggi delle tre Najadi seminude e festanti («Il tuo cor per lo Scamandro / veramente / dunque sente / carità?» «Ah ah ah!»), pronte a prestarsi alla «gioconda impresa» di favorire l’amplesso fra il giovane Eumene e la vergine Calliroe, preludono alla beffa amorosa che si consuma al posto del rito fluviale, in una scena illuminata dalle fiaccole e dall’indiscreto raggio della luna diretto a far risplendere l’innocente nudità femminile, anch’essa icona di una civiltà perduta. [12]
[12] Ivi, pp. 729-774, comprensive dell’argomento «Pretesto» e dell’elenco delle Persone. Il testo del 1929, edito dopo l’esecuzione musicale, resta identico a quello del 1909.
Accanto ai testi parabola o metafisici del cosiddetto teatro nuovo, in cui lo scrittore individua anche all’interno del genere teatrale linguaggi e strutture adeguati al sentire dell’uomo copernicano, persiste la tentazione dell’antico da cui trae origine la straordinaria invenzione di Liolà. Nella nota lettera al figlio Stefano dell’autunno del 1916 Pirandello parla di quest’opera «gioconda» come della sua «villeggiatura», sottolineando come la commedia «piena di canti e di sole» abbia per protagonista un «contadino poeta, ebro di sole». [13]
[13] Cfr. lettera al figlio Stefano del 24 ottobre 1916, in Il figlio prigioniero. Carteggio tra Luigi e Stefano. Pirandello durante la guerra 1915-1918, a cura di Andrea Pirandello, Milano, Mondadori, 2005. Sul progetto di Liolà «contadino-poeta» già in quella del 20 luglio 2016, p. 137.
Per questo essa necessitava del dialetto, non di quello borghese cui lo scrittore si era piegato nel comporre le due precedenti commedie, Pensaci, Giacuminu! e ‘A birritta cu ‘i ciancianeddi, per l’attore Angelo Musco, ma di quello stretto, il vernacolo della parlata arcaica di Agrigento. [14]
[14] Cfr. Avvertenza a Liolà (ed. 1917), in Pirandello, Maschere nude, I, cit., pp. 836-837. Sulla partecipazione di Pirandello alla rigenerazione del teatro siciliano si veda il carteggio Pirandello Martoglio, a cura di Sarah Zappulla, Milano, Pan, 1980.
L’Avvertenza a Liolà (1917) andrebbe accostata alla nota che accompagnava la pubblicazione, nel «Messaggero della Domenica» del 3 novembre 1918, della prima parte della traduzione del Ciclope euripideo:
Eppure era ovvio considerare […] che il Ciclope d’Euripide in nessun’altra lingua poteva essere più legittimamente tradotto, che nel dialetto siciliano. E non solo perché l’azione si svolge in Sicilia, ma anche perché l’opera del poeta greco […] vive ancora laggiù per tanta parte della vita stessa dell’isola. Il protagonista, Polifemo, è vivissimo tuttora nella tradizione leggendaria di tutta la Sicilia, che riconosce in esso uno dei prototipi della sua vita primordiale, così ancora rispondente alle sue necessità naturali di clima e di suolo, che tuttavia, spogliato delle trasfigurazioni del mito, se lo ritrova, vivo e presente, negli uomini delle sue zolfare e nei pastori delle sue alte Madonìe. […]
Questo per un verso; e per l’altro è così ancora eguale in tutta l’isola il sentimento agreste e pastorale che spira in questo dramma satiresco euripideo, che la traduzione ha qui, vogliamo dire nella veste dialettale, tutto il sapore d’una spontanea natività espressiva. [15]
[15] Cfr. ‘U Ciclopu, in Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, cit., p. 1214. A differenza di Liolà rappresentata nel novembre del 1916 e pubblicata l’anno seguente, con la traduzione in lingua italiana a fronte, ‘U Ciclopu seguì il processo inverso, andando in scena nel gennaio 1919 per iniziativa del Teatro Mediterraneo, al cui progetto, insieme a Martoglio e a Rosso di San Secondo, prendeva parte anche Pirandello.
Il confronto fra i due testi rivela non solo le corrispondenze strutturali (l’assenza della divisione in scene, la scansione corale, i canti e le danze), ma anche le valenze del mito moderno, definito «commedia campestre» in opposizione alla commedia rusticana e a quella borghese. In modo analogo al dramma satiresco, anche Liolà celebra lo spirito dionisiaco incarnato dal moderno contadino-poeta [16] che al suono del cembalo e circondato da danze delle fanciulle e dei figlioletti, intona il suo canto alla poesia «Angustie, fame, sete, crepacuore? / non m’importa di nulla: so cantare! / canto e di gioja mi s’allarga il cuore, / è mia tutta la terra e tutto il mare». [17]
[16] Sulla congruenza della traduzione dialettale del Ciclope, in quanto «la presenza di Sileno e dei satiri, nonché lo sfondo pastorale della vicenda, davano, inoltre, al componimento quel carattere di ‘favola campestre’, che lo qualificava per una rappresentazione dialettale» e sull’elemento dionisiaco, volto in un tono gioioso e grottesco accentuato da Pirandello, si veda l’Introduzione di Antonino Pagliaro in Luigi Pirandello, ‘U Ciclopu, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. XIX, XXIV.
[17] Liolà, in Pirandello, Maschere Nude, i, cit., p. 372.
Essendo la cifra del personaggio, il canto segna l’ingresso scenico di Liolà, che irrompe in una scena festosa dall’ambientazione agreste in cui si consuma, al canto corale della «Passione», il rito dello schiacciamento delle mandorle. In maniera speculare, con il canto Liolà esce di scena: il lieto fine rovescia i finali al coltello della drammaturgia veristica, facendo seguire al mancato bersaglio l’ascolto dell’ultima canzone in cui nuovamente è riproposto il motivo metapoetico «Non piangere! Non ti rammaricare! / Quando ti nascerà, dammelo pure. / Tre, e uno quattro! Gl’insegno a cantare».
Come avevano intuito i primi recensori, Gramsci, Simoni, Gobetti, che ne avevano segnalato gli archetipi satireschi e rinascimentali, [18] Liolà può considerarsi una beffa favolosa che salda mirabilmente il tema dell’eros giovanile, trionfante sull’impotenza del vecchio, con il mito della fertilità situato nel mondo agreste, dove le ragazze e i tre figlioletti chiamati Li O Là sembrano richiamarsi alle ninfe e ai piccoli sileni che abitavano gli antichi boschi. La sequenza che apre l’atto terzo, a beffa compiuta, sarà scandita da un coro campestre intonato da Liolà e cadenzato su passi di danza che mimano il pigiare dell’uva, cui tutti partecipano come a una festa che allude a Bacco e ai riti dionisiaci. Liolà come un corifèo dà il là, «improvvisando»:
Ullarallà! / Pesta bene, tu qua! / Pesta bene, pesta bene, pesta bene, / che più pesti nel tinello / e più forte il vin ti viene! / Più di quello / Dell’altr’anno, Liolà! [19]
[18] Così nelle recensioni alle rappresentazioni del 1917 e della ripresa, ad opera di Angelo Musco, del 1922, ivi, pp. 348-352.
[19] Cfr. Liolà, ivi, p. 404. Queste sequenze già presenti nell’edizione bilingue del 1917. Lo stesso percorso di Mulè, al bivio fra verismo degli esordi e mondo classico, recuperato attraverso l’equivalenza «Sicilia come Magna Grecia», corrisponde a quello di Pirandello.
Cfr. Alberto Cantù, Strutture operistiche nel Pirandello di «Liolà» e premessa a Giuseppe Mulè, in Pirandello: teatro e musica, a cura di Enzo Lauretta, Palermo, Palumbo, 1995, pp. 153-161: 160.
Una favola paradossale è anche la riduzione in dialetto siciliano della novella La giara, che Pirandello appronta insieme a Liolà per Angelo Musco e che trasformerà in libretto nel 1924 per il celebre balletto musicato da Casella. Anche in questo caso, l’atto unico dalla medesima ambientazione campestre di Liolà, marcata dalla stessa presenza degli alberi di mandorli e di olivi saraceni, si apriva e chiudeva con il coro delle donne, secondo una cornice simmetrica poi mantenuta nell’edizione in lingua del 1925. Il canto dispettoso delle donne che arrivano «con ceste colme d’olive», mentre cantano un «coro campestre», si amplificherà nel tripudio gioioso del finale, provocando il calcio del furioso Don Lolò. In questa favola l’umorismo si fa corale, sino allo sciogliersi del nodo. Rimasto prigioniero della risanata giara, in attesa del dirimersi della questione, Zì Dima ordina vino, pane, baccalà fritto e peperoni per fare festa («fistinu»), con una cantata che inaugura in modo burlesco la sua nuova dimora:
Zì Dima tutti, cantamu tutti! – Tu, Fillicò, pigghia d’ ’a coffa ’u marranzanu e sona, e nui cantamu! Allegramenti!
Cantano al suono dello scacciapensieri. Di tratto in tratto – fra una strofa e l’altra – le donne e Nuciareddu ballano attorno alla giarra, mentre Zì Dima batte le mani in cadenza – e poi tutti riprendono a cantare. Ma alla fine la porta della cascina s’apre e irrompe su tutte le furie don Lollò. [20]
[20] Cfr. il testo del 1917 (Manoscritto B. Autografo) usato come copione da Musco, in Luigi Pirandello, Maschere Nude, a cura di Alessandro d’Amico, Alessandro Tinterri, Milano, Mondadori, 2004, III, p. 907 e p. 949 con l’ed. del 1925, pp. 491 e 515-516.
Sulla simbologia mitica del testo, accentuata dalla traduzione musicale di Casella, cfr. Quirino Principe, I segreti della «Giara» e la «Giara» senza segreti: ideogrammi pirandelliani nella musica di Alfredo Casella, in Pirandello: teatro e musica, cit., pp. 83-99.
La correlazione mito-musica ritorna nella Sagra del Signore della Nave (1924), la cui struttura corrisponde a una festa o sagra. In questa «commedia in un atto» la presenza sequenziale della musica rientra nella proposta di un teatro dalle valenze rituali. L’assenza della tavola dei personaggi (circa settanta nelle intenzioni di Pirandello) si spiega con la dimensione corale della festa che si svolge nella sala per poi, attraverso un ponticello praticabile, passare sotto forma di processione sul palcoscenico, in cui è situata la chiesetta di campagna «mèta dello strano pellegrinaggio». [21]
[21] Così Pirandello scriveva a Enzo Ferrieri, fondatore del teatro milanese del Convegno, per il quale aveva steso il nuovo genere della Sagra, poi scelta per inaugurare il Teatro d’Arte (2 aprile 1925). Cfr. la Notizia al testo, in Pirandello, Maschere Nude, III, cit., pp. 409-418. Queste lettere confermano la lettura mitico-corale della Sagra.
«Un lontanissimo battere in cadenza di tamburi» sempre più forte avvia la rappresentazione della Sagra, che avrà come sottofondo per tutta la sua durata i richiami dei venditori «cantilenati e ripetuti» insieme a «suoni lontani titillanti di mandolini, suoni di frullonai» e di vari «giocattoli sonori». Le istituzioni spettacolari del teatro futurista, come le luci rosse o viola e soprattutto i rumori onomatopeici dati dai tamburi («Brum brumbrùm brumbrùm brumbrù / Brà brabrà, brabrà brabrà / Brùmmiti brùmmiti brùmmiti brù / Bràbbiti bràbbiti bràbbiti brà»), esaltano lo spettacolo del «rito sacro» consumato da miracolati e partecipanti in un crescendo orgiastico sino allo scannamento dei maiali. Struttura e senso si corrispondono mirabilmente in questa festa religiosa in cui le superstizioni s’incontrano con le leggende – come quella del Signore della Nave protettore dei marinai – che sopravvivono nel loro sincretismo con i rituali arcaici e dionisiaci, come suggerisce il colloquio a più voci, precedente l’uccisione dietro la tenda dell’animale sacro:
Il giovane pedagogo Ma è orribile! Si potrebbero macellare lontano dalla folla! Il mastro-medico E lei insegna all’uso antico umanità?
Il norcino Vedrà che bellezza il taglio netto sul fegato lucido compatto tremolante!
Il mastro-medico Dovrebbe intendere che senza questo la festa perderebbe uno dei suoi caratteri tradizionali, forse il suo primitivo carattere sacro.
Il giovane pedagogo Ah, già: d’immolazione!
Il mastro-medico E ricordi al suo discepolo Maia, madre di Mercurio, da cui quest’animale ripete il suo più nobile nome. [22]
[22] Ivi, p. 433.
Il suono dell’organo e il coro dei devoti provenienti dalla chiesetta contrastano con l’«osceno e spaventoso spettacolo della bestialità trionfante» fatto di risse, sbornie, fracassi e scompiglio di gente «imbestiata nell’orgia» culminante nella danza rituale:
Divisi i rissanti, tra il tumulto crescente, le tavole rovesciate, donne ubriache strappate scarmigliate e uomini in foja sborniati e furenti si rovesceranno da destra e da sinistra sulla scena, e alle feroci stonature d’una piccola banda di musici girovaghi, avvinazzati, si butteranno a danzare un frenetico trescone. La luce, a questo punto, sarà di fiamma sulla scena. [23]
[23] Ivi, p. 446.
Poi all’improvviso il rintocco della campana «cupo enorme solenne», cui fanno eco il rombo dell’organo e il coro dei devoti, interrompe bruscamente il rito dionisiaco e annuncia, complice il mutarsi della luce da rossa a violetta «come per un improvviso tracollo del sole», l’ingresso scenico del macabro e spettrale Crocefisso insanguinato (il Signore della Nave), issato sul portale della Chiesa da un prete dalle forme stravolte e allungate. La visione, facendo insorgere il terrore, scatena a sua volta il rito cristiano della flagellazione, che si prolunga in un lungo serpentone al seguito dei ceri accesi dietro il Crocefisso e, mentre la «processione scomparirà dalla sala, cesseranno i rintocchi». Secondo la lettura del suo autore, «catastrofe» e «apoteosi» del dramma coincidono in questa inquietante «sintesi tragica e comica», che il Giovane pedagogo guarderà, nel commento finale, come a una tragedia umana dall’eterno ritorno. [24]
[24] Così nel manifesto di sala del Teatro d’Arte e nella lettera di Pirandello a Enzo Ferrieri, Ivi, p. 410 e p. 415.
Nel 1928, per Bontempelli e il Teatro della Pantomima Futurista diretto da Enrico Prampolini, Pirandello scrive La salamandra, non ricordata nell’intervista del 1933, forse perché un testo privo di parole. Si tratta, come recita il sottotitolo di un «sogno mimico per una Danza in cinque tempi» che anticipa Sogno, ma forse no con cui condivide la sperimentazione della messinscena drammaturgica del sogno. [25]
[25] Cfr. La Salamandra, in Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, cit., pp. 1187-1190.
Le persone del sogno mimico sono: Lei, che balla per professione; Lui, in frac; Servo buffo; Pan, cane; Una salamandra giovane; Ninfa del canneto; Pastora; Pastorella. L’unica parola pronunziata è Pan e questo accade nel prologo quando il servo buffo si rivolge al cane. Come residuo diurno, la simbologia del significante innesca il sogno erotico della ballerina, che nel Terzo tempo (pastorale) trasporta la scena nell’erma di Pan che, anziché la consueta zampogna, suona il saxofono dalla trasparente simbologia fallica, facendo accorrere i pastori e la ninfa. Dall’aggressione della salamandra, già comparsa nel Primo tempo, Pan si difenderà colpendola con lo strumento e così nel Quarto tempo (funebre) si celebreranno i funerali e il seppellimento dei due oggetti. Oltre ai significati analitici della scena o dell’equazione teatro-sogno, importa rilevare il riproporsi del binomio musica-mito, all’interno di un vero e proprio travestimento mitologico.
Canti, cori, processioni e feste collettive non potevano mancare nella Nuova colonia, il mito sociale che, insieme a quello religioso (Lazzaro), segna il recupero del primigenio e del sacro, ancorati, come tutti i testi-antefatti della drammaturgia mitico-corale, nella natura. In questo luogo in cui sopravvive la dimensione primitiva dell’uomo, con i suoi rituali arcaici, insieme alla tradizione della classicità mediterranea, è possibile ancora radicare favole dai significati corali prive della consapevolezza copernicana e della correlativa metateatralità. Ad eccezione del prologo, tutt’e tre gli atti della Nuova colonia sono scanditi da sequenze in cui il canto, la musica e la danza sono parti costitutive del mito. Così in apertura il coro dei coloni e lo «stornello marinaresco» esprimono la fallace felicità dei nuovi coloni approdati nell’isola abbandonata, dove pare «che il tempo si sia fermato». [26]
[26] Cfr. La nuova colonia, in Pirandello, Maschere Nude, iii, cit., pp. 801-804.
Se lo sbarco delle donne celebrato come un «festoso ratto rituale» apporterà la rottura del precario sistema comunitario, la festa, in cui le regole si capovolgono come in un’orgia o in un carnevale, segnerà il culmine del disordine e del peccato, prima che la punizione inghiotta ogni cosa, salvando solo il valore ancestrale della maternità. I suoni di fisarmonica e di cembali ritmano dapprima le grida e i salti dei marinai con le torce accese che cantano: «Coro – Corri, corri! / – Luce, luce! / – Donne e vino! / – Donne e vino! / – Facciamo festino! / – Facciamo festino!», avviando i festeggiamenti delle finte nozze del terzo atto che s’interromperanno, con la denunzia delle trame da parte della Spera, alla comparsa del corteo nuziale «tra suoni di cembali e le fiamme fumose delle torce a vento». [27]
[27] Ivi, p. 850 e p. 871.
Oltre alla derivazione dalla novella «Leonora, addio!», confluiscono in Questa sera molteplici suggestioni di scene, motivi e personaggi del teatro precedente: la Teresina di Lumìe di Sicilia in Mommina; la Figliastra nella Chanteuse; la stessa ambientazione e le stesse processioni della Sagra nella rappresentazione sintetica della Sicilia allestita da Hinkfuss: il portale di un’antica chiesa, i suoni dell’organo e della campana, la processione. Si profila così il contrasto fra il sacro e il profano, affidato alla visualizzazione del Cabaret che stride con la processione religiosa in cui sfilano quattro chierichetti; quattro giovinette dette le Verginelle che portano le quattro mazze di un baldacchino sotto il quale avanzano, come nelle sopravvissute «rappresentazioni sacre» dell’isola, un San Giuseppe e una Vergine Maria con in braccio un Gesù Bambino di cera; due pastori che suonano la ciaramella e l’acciarino; un codazzo di popolani che cantano, intonata alla musica dei due strumenti, una cantilena religiosa. Alla scena del Cabaret succede subito dopo, con il cambiamento improvviso della scena, la sequenza del teatro nel teatro che vede recarsi al teatro dell’opera del piccolo paese siciliano i protagonisti del dramma, non dissimile in sé da uno dei tanti drammi dell’opera italiana. E su questo punto particolarmente interessante è la lettera a Salvini del 30 marzo 1930 in cui Pirandello illustra il testo secondo la messinscena di Königsberg:
[…] il cabaret intanto è stato trasformato con pochi elementi sintetici e parodistici in scena di melodramma: si rifà la trasparenza della parete […] si vede lassù una Primadonna e un Baritono che cantano goffamente al suono d’un grammofono il finale del primo atto d’un melodramma italiano. L’effetto è irresistibile. Pare una vera opera di magia. Altro che Fregoli! In un batter d’occhio tutto cangiato. Siamo veramente in un teatro d’opera di provincia, d’opera per ridere, di cui si fa la caricatura e la parodia, cantanti che si sbracciano vestiti di velluto e piumati, e il grammofono invece dell’orchestra. [28]
[28] Lettera a Salvini in «La fiera letteraria» del 19 maggio 1966, p. 22.
Data la passione per il teatro dell’opera da parte dei protagonisti del dramma che gli attori recitano, Pirandello può finalmente accogliere all’interno di un’opera metateatrale pezzi di arie tratte dalla Carmen di Bizet o dal Faust di Gounod, giocando tuttavia la parte del leone Il Trovatore di Verdi. La scelta di un melodramma della gelosia è speculare al dramma della gelosia che gli attori recitano sino al finale drammatico. Tuttavia ritengo che la corrispondenza più significativa risieda nel carattere favolistico della favola del Trovatore, in cui Pirandello ritrovava un’analoga credenza dello scambio dei neonati narrata nella novella Il figlio cambiato. Zingare o Donne, in Spagna come in Sicilia: due favole dalle radici arcaiche, leggendarie come gli antichi miti, attraverso le quali si celebrava il mito della maternità. Nel rievocare la terribile notte in cui si compì il suo destino (il futuro matrimonio dovuto alla morte del padre, mentre cantava Il Trovatore), Mommina intervalla al canto del melodramma il racconto della «storia terribile», sottolineando che proprio lei impersonava la parte della zingara:
La racconta nel secondo atto la stessa zingara, che si chiama Azucena. Sì, era mia, era mia, la parte di Azucena. Rubò il bambino, questa Azucena, per vendicare la madre bruciata viva, innocente, dal padre del Conte di Luna. Sono vagabonde che leggono la ventura, le zingare, e ci sono ancora, e hanno fama veramente che rubino i bambini, tanto che ogni mamma se ne guarda. [29]
[29] Questa sera si recita a soggetto, in Pirandello, Maschere Nude, iii, cit., p. 287.
Durante le prove per la prima berlinese di Questa sera si recita a soggetto, Pirandello dà notizia a Marta Abba del lavoro a tavolino che la sera, nonostante la stanchezza diurna, lo vede impegnato nel «gigantesco» lavoro dei Giganti della montagna. Le lettere consentono di seguire passo passo la nascita della Favola del figlio cambiato come nucleo del «dramma che l’eroica Contessa va portando in giro, a prezzo della sua vita» (17 aprile 1930). Altre due lettere, rispettivamente del 25 e del 30 aprile, rivelano come l’idea di utilizzare la novella all’interno dei Giganti sia nata in Pirandello quasi all’improvviso (la “trovata”). E le somiglianze fra la matrice favolistica della Favola e quella del Trovatore, mediata dalla scena finale di Questa sera si recita a soggetto, fanno pensare a un cortocircuito scattato grazie alle suggestioni del melodramma:
Sono alle prese coi “Giganti della montagna”. La trovata del “Figlio cambiato” come nucleo del dramma mi ha risolto tutto. Ora sto componendo, quasi in forma di fiaba, in versi, questo “Figlio cambiato”, per prenderne poi quanto mi servirà per la rappresentazione che la Compagnia della Contessa ne farà un po’ al prim’atto, davanti al poeta Cotrone e ai suoi “scarognati”, e un po’ al terz’atto davanti ai Giganti.
La creazione e le prove […]
Poi, tornato a casa, altro lavoro, diverso. I giganti della montagna […]. Se sapessi com’è diventata [la novella], entrata a far parte del “mito”! È la storia di una madre che crede che il figlio le sia stato cambiato, in fasce, quando aveva sei mesi. C’è in tutta l’Italia meridionale la credenza popolare […]. Questo è capitato alla madre di quella mia novelletta. E da qui ho tratto il dramma. Hanno fatto credere a questa povera madre che il suo figlio bello sia stato portato dalle streghe in una casa reale, e che il suo figlio sia stato dunque cresciuto e allevato come un figlio di re: un re del Nord, come l’Islanda, o la Finlandia. […] Io sto trattando tutto come una leggenda, in scene come di sogno, liriche. [30]
[30] Cfr. Luigi Pirandello, Lettere a Marta Abba, a cura di Benito Ortolani, Milano, Mondadori, 1995, pp. 395-396; 415-416; 429-431.
Il riassunto della favola proseguiva con l’arrivo di un principe giovinetto in cerca della salute che avrebbe trovato nell’«eterna primavera» della riviera al tepore del sole, distanziando il regno lontano «fosco di nebbie e di geli, e torbido d’invidie e di passioni politiche». [31]
[31] Ivi, p. 430.
È questo un motivo assolutamente centrale della futura Favola, in cui il Principe canta «e questo cielo e questo mare», mentre nel rifiutare il regno accoglie come se fosse vera la «favola» della Madre ritrovata. [32]
[32] Cfr. La favola del figlio cambiato, in Luigi Pirandello, Maschere Nude, a cura di Alessandro D’Amico con la collaborazione di Alessandro Tinterri, Milano, Mondadori, IV, 2007, pp. 804-805.
Si tratta del proseguimento della favola, mancante nella novella, che non aveva ancora la struttura favolistica, per il cui compimento Pirandello da un lato recupera il senso della tragedia La vita che ti diedi composta nel 1923 insieme alla riedizione della novella Le nonne (1902) sotto il nuovo titolo del Figlio cambiato, e dall’altro fa confluire nel mito dell’arte l’aspetto mitico del Trovatore in cui il canto del protagonista attinge alla matrice arcaica dell’umanità in grado di esprimere l’insopprimibile persistenza di valori cui l’arte nei secoli ha dato voce. Se «l’effetto tragico» della morte di Mommina mentre canta l’ultima aria del Trovatore doveva essere spezzato dalla ricomparsa di Hinkfuss volta a ribadire «che il teatro dev’essere reintegrato nei suoi tre elementi: poeta, régisseur, attori», [33] solo una fiaba (o un mito), per la sua stessa struttura lontana dal verosimile, poteva riscrivere un’opera lirica in cui il canto e la musica fossero reintegrati al ruolo di parti costitutive dell’antica poesia.
[33] Cfr. Lettera a Salvini, cit., p. 23.
In questa direzione il confronto testuale fra Questa sera si recita a soggetto, Il Trovatore e la Favola del figlio cambiato mostra derivazioni e rifacimenti fra cui mi limito a ricordare il travaso delle scene del Cabaret e della Chanteuse nel terzo quadro della Favola ambientato nel Caffeuccio a terreno sul porto di mare affollato di avventori, tre sgualdrinelle, la Sciantosa che canta e balla, circondata dal Coro di Monelli, a sua volta ricalcato su quello di Liolà. Un’altra corrispondenza simbolica è data dal ritratto del bambino rubato, modellato sulla Natività della processione religiosa di Questa sera, in cui sorprendentemente la Chanteuse è paragonata da Mommina a «una specie di zingara», confronto che interpreta a un livello popolare il significato profondo dell’ammaliatrice all’interno del racconto sulla zingara del Trovatore. Il grido che Mommina ripete dalla narrazione di Azucena a Manrico («[…]Il figlio mio, / Mio figlio avea bruciato»), [34] già urlato dalla Spera, diventerà parola tematica nella Favola sino a cifrarne il festoso e carnale finale: «Figlio mio! Figlio mio», con cui si dà voce a un complesso percorso poetico, parallelo alla più alta e consapevole corrispondenza fra il mito dell’arte e la maternità dei Giganti della montagna.
[34] Cfr. Salvatore Cammarano, Il Trovatore, atto II, sc. I, in Il teatro italiano. Il libretto del melodramma dell’Ottocento, a cura di Cesare Dapino, Introduzione di Folco Portinari, Torino, Einaudi, 1984, t. II p. 106.
Che La favola del figlio cambiato sia da leggersi come una favola corale sul valore ancestrale della maternità è confermato dall’intervista rilasciata a Luigi Chiarini e apparsa in «Quadrivio» il 19 marzo 1934 dal titolo Perché è stata proibita in Germania La favola del figlio cambiato? Qui Pirandello, oltre a mostrarsi sbalordito della decisione delle autorità tedesche di proibirne le rappresentazioni, per aver ritenuto la Favola «sovvertitrice e contraria alle direttive dello stato popolare tedesco», ribadisce proprio la classificazione di fiaba in musica per il libretto:
E che tale sia la trama del mio libretto appare chiaro non solo dal suo spirito, ma dal titolo stesso dell’opera. Ora proprio una favola non può avere assolutamente fini che la trascendano: vive in se stessa e del suo carattere fantastico. Qualsiasi deduzione è arbitraria. È una favola e basta. [35]
[35] Cfr. Interviste a Pirandello «Parole da dire, uomo, agli altri uomini», a cura di Ivan Puppo, Prefazione di Nino Borsellino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, p. 534 e le relative note al testo dell’intervista.
L’intervista va letta tenendo presente la breve nota apparsa qualche giorno prima sull’«Osservatore romano», dove si attaccava la trama con lo spregiativo epiteto di «sconcia favola». [36]
[36] Cfr. Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., del 19, 24 e 29 marzo 1934, pp. 1113-1122.
E allora lo scrittore per chiarirne i significati poetici in vista della prima romana (24 marzo), espone pazientemente la trama, fa riferimento alle superstizioni e alle leggende, notando come l’illusione per una madre possa diventare realtà. Nell’intervista, in cui chiaramente Pirandello riconduce all’«assoluto fantastico» la favola, da leggersi come le tante fiabe in cui normalmente i protagonisti sono principi, regine, principesse, buoni e cattivi, senza che la cosa susciti scandalo, è riportata l’interessante risposta dettata per telegrafo da Malipiero:
Nulla sapevo inverosimile proibizione. Soltanto da Vienna ricevo conferma ed espressioni di stupore. Probabilmente trattasi del libretto pirandelliano che nessuno aveva interpretato morbosamente. La critica ne ha riconosciuto il valore ideale, cioè le due espressioni dominanti: l’amore materno e il principe poeta che ritorna alla vita semplice e naturale.
È l’unico testo in cui il principe della Favola è chiamato «principe poeta» [37] e questa specificazione non si può che attribuire allo scambio d’idee con Pirandello avvenuto al suo rientro da Berlino, dopo la decisione di dar forma autonoma alla Favola.
[37] Tale riferimento manca anche nell’edizione del libretto procurata da Malipiero (Milano, Ricordi, 1952).
Questo dato rivela un livello sotterraneo del testo che si collega innanzi tutto all’originaria identità di poeta data a Cotrone (poi nascosta nell’apposizione «detto il Mago»), non solo nella lettera a Marta Abba del 25 aprile, ma anche nell’edizione della prima parte dei Giganti dal provvisorio titolo fantastico I fantasmi. [38]
[38] Per tale rilievo rinvio al mio Il trionfo dello specchio, cit., pp. 191-194. Ma si veda ora Angelo R. Pupino, Pirandello. Maschere e Fantasmi, Roma, Salerno Editrice, 2000, p. 142.
Già tentato sin dall’inizio dal fare della Favola un’opera a sé, [39] Pirandello annuncia solo nell’aprile del 1932 a Marta Abba la promessa del libretto fatta a Malipiero e parallelamente espunge dai Fantasmi la qualità di poeta con cui aveva raffigurato Cotrone.
[39] Nota Tessari che nell’intervista La valigia di Pirandello («Comoedia» del 15 luglio-15 agosto 1930), Pirandello classifica la Favola come poema, che ne evidenzia il valore di teatro di poesia, rispetto «sia alle istanze autosacrificali di Ilse sia alla chiaroveggenza magica d’un Cotrone»: un teatro cerimoniale in grado di tradurre in chiave moderna le finalità catartiche di quello greco e pronto a convertirsi in musica. Cfr. Roberto Tessari, «La favola del figlio cambiato». Mysteria della nascita secondo natura e del concepimento spirituale: tra dramma ipotetico, e «poema» scritto, in Pirandello: teatro e musica, cit., p. 103.
Anche il principe del Nord apparteneva alla stessa galleria dei sognatori e cantori di nuvole e per questo, come già il «contadino poeta ebro di sole» Liolà, poteva sciogliere il suo inno alla natura del Sud carica di memorie mitiche («Ora son pieno di quest’ebbrezza / di sole d’azzurro di verde di mare!») [40] e la fiaba in versi trovare l’armonia della musica.
[40] Cfr. La favola del figlio cambiato, in Pirandello, Maschere Nude, iv, cit., p. 804.
Se nella Madre l’Ilse heiniana sublimava la sua femminilità, apparendo viola e pallida come la Chanteuse e pronta al rito arcaico del sacrificio nella lotta impari contro i giganti, nel principe si addensava l’ombra dell’amato Heine catturato sulle sponde del fiume dalla fanciulla principessa Ilse, che «und plötzlich ergreift sie den träumenden Dichter»:
In meinem weißen Armen / An meiner weißen Brust, / Da sollst du liegen und träumen / Von alter Märchenlust. [41]
[41] «Nelle mie bianche braccia / e sul mio bianco seno / riposerai sognando / piaceri d’antiche fiabe». Heine, Il viaggio nello Harz, cit., pp. 154-155. Qui la fantasia trasforma il pastore biondo e gentile in un re attorniato dal verde trono e cinto dal sole che brilla come una grave corona d’oro, mentre i capretti appaiono come teatranti e gli uccelli e le mucche con i loro campanelli assumono le sembianze di musici da camera. Cullato dalla dolcezza della musica, il re si addormenta e sogna di lasciare il regno, per tornare fra le braccia della sua amata sposa: «Das Regieren ist so schwer, / Ach, ich wollt, daß ich zu Hause / Schon bei meiner Köngin wär! // In den Armen meiner Köngin / Ruht mein Königshaupt so weich, / Und in ihren lieben Augen / Liegt mein unermeßlich Reich» (pp. 107-109).
A Berlino rimpiangendo quel sole non amato durante la giovinezza di Bonn, [42] in un aprile bagnato, mentre guardava gli alberi ancora rinsecchiti, Pirandello trascrive a «Marta mia» i versi di Heine, cui si era ispirato per il rifiuto del regno da parte del principe: «In Germania non c’è estate / l’estate è un inverno / verniciato di verde». [43]
[42] Così ai familiari in una lettera non datata: «Sole non se ne vede mai, ma voi sapete che io amo e son nato per le nuvole», Lettere da Bonn, cit., p. 36.
[43] Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., pp. 414-415.
E intanto provava Questa sera e, come per incanto, recuperava la novella del Figlio cambiato per i Giganti, anzi per il dramma del sacrificio di Ilse.
Tornano nelle scene del mito della creazione artistica, confrontata con la magia, le visioni dell’«antico muro scrostato», «rosso cent’anni fa» del parco patrizio visitato nella passeggiata notturna di vent’anni prima, quando l’accesa fantasia letteraria aveva trasfigurato i «due luridi straccioni del viale», sostanti sotto un cipresso centenario e un pino, nei portentosi giganti della mitologia, in grado con la loro distruzione di fermare il tempo e donare all’uomo la «sempiterna primavera». [44]
[45] Cfr. I due giganti, cit., pp. 1154, 1159. Per il motivo dei ritratti e del tempo, la novella fissa il nucleo centrale della tragedia Enrico IV.
Come la villa di donn’Anna e il castello d’Enrico, anche la villa abbandonata del poeta Cotrone, col suo «intonaco rossastro scolorito» e il suo decrepito cipresso, è il luogo ariostesco degli incantesimi creati dall’immaginazione poetica. E allora dal suo interno non può che emanarsi un canto dalle tonalità alte e basse che catturi come un vortice di paura e follia. Qui al sopraggiungere della Contessa Ilse, la sua voce, nel declamare cantando l’incipit della Favola, incanterà gli astanti come in un rito arcaico dove la leggenda si mescola alla poesia, resa più struggente dal presentimento della fine. Così nell’Arsenale delle apparizioni, la musica che proviene dal fondo del pozzo, come da un altro mondo, è «un concerto di paradiso», un «soavissimo concerto» la cui armonia procura l’estasi e introduce alla visione del nano che, al chiaro di luna e nel verde, porge alla fanciulla detta la Dama Rossa un cofanetto luccicante, per poi maliziosamente spiarla, come un satiro la ninfa dei boschi. [45]
[45] Cfr. I giganti della montagna, in Pirandello, Maschere Nude, iv, cit., pp. 895-896.
In questo trionfo della fantasia e della poesia anche gli strumenti musicali si animano da sé per consentire al jazz il suo ingresso nel mito, accanto ai canti sacri e profani e alla musica da concerto. È la stessa villa, spiegherà Cotrone, che la notte si mette
«in musica e in sogno», anche se solo i poeti danno coerenza ai sogni, come il poeta suicida che «ha immaginato una Madre che crede le sia stato cambiato in fasce il figlio da quelle streghe della notte, streghe del vento, che il popolo chiama “le Donne”». [46] E il poeta Cotrone come un mago può evocarle, anzi far sì che l’opera declamata dalla Contessa faccia apparire i personaggi della Favola come accaduto a Madama Pace: fantasmi della creazione artistica che si alimenta delle favole dell’umanità, del suo sapere leggendario in cui sopravvivono le credenze degli antichi.
[46] Ivi, p. 900 e p. 908.
Come in un rinnovato sacrificio, Ilse si consacrerà alla poesia sino al martirio, preceduto dai canti orgiastici e da un abbondantissimo banchetto, allietato da balli e vino e offerto dai Giganti al popolo. Poi dietro un telone, come lo scannamento dell’animale sacro a Maja nella Sagra, i teatranti offriranno se stessi alla bestialità di corpi e colpi ciclopici attratti dalla furia distruttiva. Sbranati o fatti a pezzi come il corpo di Ilse, che in un finale circolare è portato via dallo stesso carretto con cui era arrivata: con loro sopravvivrà l’opera di poesia.
Beatrice Alfonzetti
2018
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