Di Ebru Sarikaya.
Nonostante sia difficile riassumere l’insieme delle caratteristiche letterarie non soltanto delle novelle ma di tutte le opere pirandelliane, il punto fermo a cui va riportata la sua poetica è l’uomo in tutti i suoi atti: quelli morali, intellettuali, psicologici, fisici.
Il connubio tra fantastico e doppio nelle novelle di Pirandello
Introduzione
Con il termine fantastico si indica il genere di opere in cui l’ambientazione, le vicende narrate e i personaggi presentano caratteri di inverosimiglianza. Ciononostante, data la vastità di temi cui attinge, definirlo in modo esaustivo e compiuto è stato un impegno tanto curioso quanto difficile: a partire dal suo esordio come motivo narrativo, molti studiosi e scrittori si sono impegnati a elaborarne una definizione quanto più onnicomprensiva possibile. E nel corso degli anni tale impegno, sfociato in una polifonia di interpretazioni, ha reso questo genere un’area sempre più nebulosa ma, d’altronde, anche attuale e originale.
Avvalendosi delle idee di Todorov possiamo affermare che il fantastico comporta la compresenza di tre condizioni principali di cui la seconda, sebbene sia soddisfatta in gran parte delle opere, non risulta obbligatoria:
In primo luogo, occorre che il testo obblighi il lettore a considerare il mondo dei personaggi come un mondo di persone viventi e ad esitare tra una spiegazione naturale e una spiegazione soprannaturale degli avvenimenti evocati. In secondo luogo, anche un personaggio può provare la stessa esitazione; in tal modo la parte del lettore è per così dire affidata a un personaggio e l’esitazione si trova ad essere, al tempo stesso, rappresentata, diventa cioè uno dei temi dell’opera. (…) È necessario infine che il lettore adotti un certo atteggiamento nei confronti del testo: egli rifiuterà sia l’interpretazione allegorica che l’interpretazione «poetica». [1]
[1] T. Todorov, La letteratura fantastica, trad. it. di E. K. Imberciadori, Milano, Garzanti, 1981, p. 36.
Invece un’altra definizione, quella firmata da Howard P. Lovecraft, mette in stretta relazione l’individuazione del genere fantastico con l’esperienza personale del lettore:
L’atmosfera è la cosa più importante, poiché il criterio definitivo di autenticità (del fantastico) non è la struttura dell’intreccio, ma la creazione di un’impressione specifica. (…) Ecco perché dobbiamo giudicare il racconto fantastico non tanto dalle intenzioni dell’autore e dai meccanismi dell’intreccio, ma piuttosto in funzione dell’intensità emozionale che provoca. (…) Un racconto è fantastico semplicemente se il lettore avverte profondamente un senso di paura e di terrore, la presenza di mondi e di potenze insolite. [2]
[2] Ivi, pp. 37-38.
Le prime opere impregnate di fantastico, quali le storie gotiche e di fantasmi, apparvero in Europa nell’ambito artistico-letterario verso la fine del Settecento. Il motivo dell’interesse verso questo genere risiede, innanzitutto, nella crisi che aveva colpito allora i dogmi religiosi e, poi, nelle difficoltà di adattamento alla vita moderna e nelle innovative concezioni psicologiche, epistemologiche e scientifiche che ne conseguirono. Per quanto riguarda la sua affermazione, il periodo più fruttuoso fu l’Ottocento, secolo in cui la letteratura fantastica toccò le vette più alte grazie a degli autori importanti, per poi approdare, in forme sempre più elaborate, ai nostri giorni: da Poe a Gautier, dalla Radcliffe a Mary Shelley, fino a Capuana e Pirandello.
Alimentata dalle conseguenze del progresso scientifico e industriale, la letteratura fantastica divenne un espediente privilegiato per rompere il tabù, narrare l’inenarrabile e mettere in scena le paure più nascoste nonché i dubbi dell’umanità.
Il fantastico per sua caratteristica tenta di soddisfare un bisogno che scaturisce dalle restrizioni culturali: è una letteratura del desiderio che cerca ciò che è sentito come assenza e perdita (…). Il fantastico evidenzia la parte non espressa e occulta della cultura: ciò che è stato taciuto, reso invisibile, nascosto e reso «latente». [3]
[3] R. Jackson, Il fantastico. La letteratura della trasgressione, trad. it. di R. Berardi, Napoli, Pironti, 1986, p. 3.
È per virtù di tale capacità di convogliare desideri, dubbi e paure subliminali dell’uomo che tra il fantastico e la scienza si è instaurato, nel tempo, un rapporto formidabile. Infatti, secondo Sigmund Freud, la psicoanalisi deve molto alla letteratura ottocentesca, in quanto aveva ampiamente trattato i problemi attinenti all’inconscio ancor prima che essi si affermassero come campo d’analisi. Prima dell’avvento della psicoanalisi, il fantastico era dunque il riflesso letterario di una curiosità nei confronti del soprannaturale di cui si aveva percezione empirica ma non scientifica. Invece, dopo, scavare all’interno dell’uomo, esplorarne le profondità nascoste e cercare di dare un significato a ciò che prima era stato ignorato rappresenta un’operazione proficua poiché non passa molto tempo prima che trovi un’effettiva corrispondenza nell’ambito letterario.
Senza dubbio tra i temi più rilevanti che attingono all’ambito fantastico e inconscio si può annoverare il tema del doppio.
Il tema del doppio, adoperato come motivo narrativo che determina spesso la psicologia dei personaggi all’interno dell’opera artistica e inteso nelle sue varie accezioni quali sdoppiamento, scissione dell’identità e alienazione, ha origini molto antiche, che risalgono all’Anfitrione di Plauto.
Esso si fonda sulla necessaria compresenza di due condizioni opposte: una parte buona e una cattiva, una idonea e l’altra inetta, una felice e l’altra triste. Il personaggio caratterizzato da tali tratti inizia a distaccarsi da se stesso, perché l’io viene percepito come una figura estranea e talvolta anche sinistra. Io e non-Io tendono a confondersi e l’identità diventa una prigione ambigua in cui si trova incastrato, conducendo spesso una vita sospesa tra il desiderio di uscirne fuori e quello di rimanere dentro. Questo circolo vizioso dà origine, alla fine, alla perdita dei contorni definiti dell’individuo, portandolo a una vera crisi di identità.
La soggettività del singolo individuo viene sottoposta a una minaccia che proviene dalle zone remote di se stessa. E la perdita della propria identità, la scissione dell’io o la creazione dell’altro io, mentre a volte si manifestano a causa della non accettazione della propria identità e dell’aspirazione ad appropriarsi di un’altra identità, altre volte altro non sono che proiezioni delle nostre paure inconsce. In questa prospettiva non bisogna tralasciare il ruolo delle condizioni imposte dalla società poiché non raramente conducono, anche esse, alla creazione di un altro io in cui diventa impossibile identificarsi. Ed è proprio alla luce di quest’ultima forma di perdita di identità e di moltiplicazione dell’io che si intende analizzare due novelle pirandelliane appartenenti alla raccolta Novelle per un anno.
Le novelle pirandelliane
Nella poetica di Luigi Pirandello la novellistica funge da esercizio analitico rivolto a indagare i diversi aspetti che riguardano la società, la vita e il mondo, e che rende a lui possibile una ponderata riflessione sulle svariate sfaccettature dell’essere umano e sui cambiamenti psicologici che subisce nel tempo. L’intenzione di Pirandello, però, non è mai quella di cercare delle risposte plausibili ad azioni, desideri e dubbi dell’uomo oppure di darne una spiegazione esaustiva, bensì quella di metterne in risalto la natura, al fine di condurre il lettore a scrutare i propri meandri interiori attraverso il viaggio introspettivo ed esistenziale dei personaggi.
È importante sottolineare che la sua novellistica, sebbene prenda spunto dalla vita, non intende affatto rappresentare la realtà: per Pirandello la realtà infatti “non esiste”. Esiste solo l’illusione della realtà che ciascuno di noi elabora in misura soggettiva ed è delineata da contorni particolarmente instabili e cangianti: la realtà di ieri può essere l’illusione di oggi e l’illusione di oggi la realtà di domani.
Nonostante sia difficile riassumere l’insieme delle caratteristiche letterarie non soltanto delle novelle ma di tutte le opere pirandelliane, il punto fermo a cui va riportata la sua poetica è l’uomo in tutti i suoi atti: quelli morali, intellettuali, psicologici, fisici. Nel rappresentare l’uomo, Pirandello si serve spesso del fantastico, che consente di varcare mondi proibiti e sfere dell’indicibile, come per esempio l’inconscio umano. In molti aspetti il fantastico di Pirandello è una forma fondata sulla ricerca dell’oltre, dell’impossibile, dell’ignoto che si realizza, il più delle volte, attraverso ingegnose costruzioni delle storie, caratterizzate dall’ambivalenza, dall’antitesi e dall’ossimoro.
Alla base di tale prospettiva fantastica si ravvisa un particolare approccio tanto narrativo quanto analitico che punta sull’individuazione della certezza nell’incertezza, della chiarezza nell’oscurità, della ragione nell’irrazionalità. Il fantastico pirandelliano, fuso con l’umorismo e il grottesco, racchiude elementi strabilianti e misteriosi che raffigurano spesso l’essere umano come un soggetto disarmonico con se stesso, con la società, con il mondo esterno, ricalcando in un certo senso il concetto freudiano del disagio dell’uomo nella società. [4] Per tali motivi, per Pirandello il fantastico risulta essere una fonte indispensabile per poter ritrarre quello che altrimenti resterebbe fuori dalla sua tela: l’altra faccia della medaglia, cioè i volti senza maschere.
[4] Sono importanti le parole di Freud che mettono in rilievo la causa di tale disagio umano nella società: «il programma del principio di piacere stabilisce lo scopo dell’esistenza umana. Questo principio domina il funzionamento dell’apparato psichico fin dall’inizio; non può sussistere dubbio sulla sua efficacia, eppure il suo programma è in conflitto con il mondo intero, tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo. È assolutamente irrealizzabile, tutti gli ordinamenti dell’universo si oppongono ad esso; potremmo dire che nel piano della Creazione non è incluso l’intento che l’uomo sia “felice” (…). Le nostre possibilità di essere felici sono dunque già limitate dalla nostra costituzione» (S. Freud, Il disagio della civiltà, in Id., Opere, X, a cura di C. L. Musatti, Torino, Boringhieri, 1980, p. 568).
Nelle novelle alcune parole ricorrenti fungono da guida per farci addentrare nei sentieri interni alla poetica pirandelliana. Per esempio, il caso corrisponde a casualità e inevitabilità delle leggi universali. I fatti e le azioni sono una prigione per l’individuo. La parte indica il ruolo stabilito, da sé o da altri, che ogni persona recita nel teatrino della società (e del mondo). La verità assoluta, in guisa di realtà, non esiste. Però esiste una verità interiore, soggettiva, spesso incomunicabile e incomprensibile ad altri, e a volte persino a se stessi. Il doppio-sdoppiamento rappresenta l’asse portante dell’universo pirandelliano e indica due vite parallele: la prima è quella evidente agli occhi di tutti, mentre l’altra equivale a quella interiormente sentita e vissuta, che è spesso altrettanto autentica e possibile.
Come si nota, in Pirandello il fantastico e il doppio coesistono in una perfetta armonia. Jean-Michel Gardair nel proprio libro intitolato Pirandello e il suo doppio afferma che circa una sessantina di novelle pirandelliane non solo rappresentano alcune figure del doppio, ma si fondono su di esse. Il motivo da cui deriva l’insistenza sul tema del doppio nella sua narrativa è spiegato esplicitamente dallo studioso francese:
Se il mondo gli [a Pirandello: n. d. r.] appariva sempre come il teatro, lo specchio o il museo del suo intelletto, ciò avveniva a causa della sua impossibilità di giungere ad una percezione immediata delle cose e di vivere in qualche modo la sua vita prima di rifletterla. Tutto ci fa pensare che questa impotenza ha per Pirandello valore di rifugio. Ridurre il mondo e la vita ad una pura rappresentazione, è eludere ciò che l’originario timore di essi ha d’insostenibile. Inoltre, vi è tutta una strategia pirandelliana della rappresentazione, della ripetizione, dello sdoppiamento ecc. che ha per funzione, da una parte, di neutralizzare la fuga dei giorni e delle generazioni (il tempo, la morte ecc.), dall’altra, di esorcizzare l’esperienza che fa Pirandello della duplicità della sua stessa natura e dei suoi rapporti con gli altri. [5]
[5] J. M. Gardair, Pirandello e il suo doppio, trad. it. di L. Di Giovanni, Roma, Abete, 1977, p. 57.
La presenza del doppio impone un confronto con la realtà, con la perplessità di non essere quello che crediamo di essere. A questo punto è necessario ricorrere alle parole di Otto Rank sul doppio: «incontriamo due forme della stessa costellazione psichica contrapposte sul piano figurativo: abbiamo davanti infatti due diverse esistenze vissute da una stessa persona ma separate dall’amnesia». [6]
[6] O. Rank, Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, trad. it. di M. G. Cocconi Poli, Milano, SugarCo Edizioni, 1978, p. 35.
Pirandello, nel trattare il doppio, analizza i fenomeni che giocano un ruolo fondamentale nell’alterare la personalità dell’individuo quali contrasti, diversità e disuguaglianze nel rapporto tra il mondo interiore e quello esteriore-reale. In tal modo egli si avvicina a quello che è uno dei temi fondamentali della psicoanalisi: la scissione psichica dell’uomo che, tra rigore e controllo da una parte e sregolatezza e conflitto dall’altra, sottostà al paradosso tanto drammatico quanto grottesco del singolo individuo nonché della società. Una società per la quale ciò che conta è l’apparenza dietro alla quale si cela un altro mondo, quello latentemente insito in ognuno.
I personaggi pirandelliani sono spesso trasportati dal desiderio di confermare il proprio aspetto psico-fisico e per questa ragione sono incessantemente impegnati nella ricerca di sé. Tutto ciò si traduce in un percorso introspettivo che è costituito dalla continua instabilità tra fuori e dentro, tra sé e altro da sé.
La carriola
La novella inizia con la confessione del protagonista di un delitto il cui contenuto è rivelato soltanto nella parte finale. Egli, avvocato e professore di diritto, afferma che, compiendo tale delitto, riesce a provare la voluttà d’una divina e cosciente follia, che per un attimo lo rende libero. Un giorno durante un viaggio in treno rivolge gli occhi fuori dal finestrino e si mette a contemplare l’incantevole campagna davanti ai propri occhi. Fissa il mondo esterno e all’improvviso ha la percezione del «brulichio d’una vita diversa» e il ricordo di «desideri prima svaniti che sorti». Quando torna a casa, si ferma davanti alla porta di ingresso a osservare la targa che riporta il suo nome assieme ai titoli come se appartenessero a un’altra persona: per un attimo vede se stesso e la propria vita da fuori, e non si riconosce più, e capisce che non s’era mai riconosciuto. Quella persona che abita in quella casa e che conduce una vita apparentemente perfetta diventa ormai un nemico. Nonostante questa spaventosa scoperta, continua la sua vita lasciandosi trascinare, però, da una trasgressione particolare che funge da gesto liberatorio: ogni giorno prende la sua cagna per le zampe posteriori e le fa fare la carriola per un paio di passi. È proprio questo il delitto compiuto dal protagonista.
La narrazione, svolta in prima persona dal protagonista di cui non conosciamo il nome, può essere suddivisa in tre fasi: un inizio al presente che poi viene interrotto dall’episodio narrato al passato e alla fine la narrazione ritorna nuovamente al presente, quando viene svelato anche il delitto. Si tratta di una struttura narrativa evidentemente circolare.
All’inizio della novella egli accenna a un atto misterioso che compie, e che è segno della sua «cosciente follia». Quindi, già dal primo momento della narrazione siamo di fronte a due figure retoriche che ci introducono nel mondo del fantastico: l’ossimoro con «spaventosa gioia» e «cosciente follia»; e la reticenza, in quanto il narratore-personaggio parla soltanto di gravità dell’atto, di vendetta e di liberazione che ne consegue, tacendo invece sull’atto misterioso. Proprio in questa fase emerge un elemento molto importante: il richiamo di una presenza femminile (soltanto alla fine della novella sapremo che si tratta della sua cagna lupetta) che incute in lui grande angoscia.
Nella seconda fase della narrazione il narratore racconta l’episodio del viaggio e della porta, quando si rende conto di tutto il suo malessere: cagione dell’atto misterioso. Qui si nota la confusione e l’esitazione dell’avvocato:
Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai più a nulla: restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida. Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in un lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza (…). (…) Gli occhi a poco a poco mi si chiusero, senza che me n’accorgessi, e forse seguitai nel sonno il sogno di quella vita che non era nata. Dico forse, perché, quando mi destai, tutto indolenzito e con la bocca amara, acre e arida, già prossimo all’arrivo, mi ritrovai d’un tratto in tutt’altro animo, con un senso d’atroce afa della vita, in un tetro, plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose più consuete m’apparvero come votati di ogni senso, eppure, per i miei occhi, d’una gravezza crudele, insopportabile. [7]
[7] L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, vol. 3, tomo I, Milano, Mondadori, 1990, p. 555.
Il protagonista non riesce a percepire ciò che gli succede e tutto gli sembra un caso strano. Tale sentimento di straniamento comincia a partire dalla contemplazione del paesaggio durante il viaggio, ma si intensifica soprattutto davanti alla porta della propria casa, quando legge la targa su cui sono incisi il suo nome e i suoi titoli professionali.
Ebbene, fu nella sala della mia casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta. Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da’ miei attributi scientifici e professionali, vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia. Spaventosamente d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuoio sotto il braccio, l’uomo che abitava là in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d’un tratto d’essere stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell’uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia. [8]
[8] Ivi, p. 556.
In questa prospettiva la porta ha un ruolo significativo in quanto simboleggia l’ingresso in un mondo sconosciuto, in un’identità non sua, non reale ma costruita dagli altri e dalla società, nonché il valico che separa l’identità vera dalla maschera che gli è stata imposta. Dal momento in cui egli vede il proprio nome sulla porta, ciò che prima era una sensazione di stranezza diventa la certezza. La certezza di non appartenere, anzi, di non essere mai appartenuto a quella casa, a quella famiglia, cioè alla realtà in cui vive.
In questa seconda fase il protagonista si sente prigioniero di una forma, di un’immagine che la sua famiglia, i suoi clienti, la società hanno creato di lui. Si diventa testimoni della scoperta di un vero io del protagonista, della sua scissione d’identità, che non sente più sua la vita che sta conducendo da sempre. Il non conoscere se stesso in quel corpo e in quella forma viene esplicitato più volte durante la narrazione:
Commendatore, professore, avvocato, quell’uomo che tutti cercavano, che tutti rispettavano e ammiravano, di cui tutti volevan l’opera, il consiglio, l’assistenza, (…) – ero io? io? propriamente? ma quando mai? (…) E grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia: – Ma come? io, questo? io, così? ma quando mai? [9]
[9] Ivi, pp. 556, 559.
Nella terza e ultima fase della narrazione, l’avvocato svela che è la sua cagna a guardarlo con quegli occhi terrorizzati e spiega la sua trasgressione della carriola.
In questa novella, in cui Pirandello ha intessuto con cura elementi fantastici a partire dallo sguardo e dall’occhio, emerge il tema del doppio sotto la forma della scissione d’identità e del contrasto tra vita e forma/maschera, tra realtà e apparenza. Come nella maggior parte delle storie incentrate sul tema del doppio, anche qui la presa di coscienza avviene in un momento preciso ma del tutto inaspettato. Il viaggio reale sul treno assume, in tal modo, il significato di un viaggio trascendentale, ai confini tra realtà e allucinazione. E la porta su cui è inciso il nome del protagonista funge da specchio deformante, attraverso il quale egli non si riconosce; ma è in questo non riconoscimento che trova la possibilità di un’altra vita.
L’avvocato non solo si rende conto di essersi comportato, fino a quel momento, a seconda del volere degli altri, ma dichiara anche “nemica” la forma/maschera che non gli appartiene realmente. La dichiarazione di essere «un estraneo a me, un nemico» ci introduce nella psiche del protagonista, nella quale avviene la rottura fra l’io sociale e l’io psichico. È un nemico insopportabile, una minaccia per la sua esistenza, ma, nonostante ciò, alla fine, egli dovrà accettarlo. A questo proposito, ricorrendo allo schema teorizzato da Todorov in cui vengono classificate diverse accezioni del fantastico, è possibile collocare questa novella nel fantastico meraviglioso, poiché essa presenta elementi fantastici e termina con l’accettazione dell’insolito o del soprannaturale; il quale è espresso, qui, nel gesto liberatorio compiuto dal protagonista per sopperire alla confusione d’identità.
Inoltre, è possibile leggere questa accettazione anche dagli occhi della cagna che mette il protagonista in angoscia: il terrore negli occhi dell’animale indica, in un certo senso, il fatto che non si può uscire dal ruolo e dalla maschera che sono stati imposti.
Il protagonista finisce per accettare questa realtà amara, ma essa può essere sopportabile soltanto con un gesto insolito e folle: una trasgressione che gli procura una sensazione di libertà anche se soltanto per pochi minuti. La follia, costituendo uno dei temi ricorrenti nella poetica pirandelliana, in questa novella non conduce a nessuna liberazione concreta dalla maschera, ma rappresenta l’unico rimedio o, meglio, la necessaria fuga provvisoria da quella forma/maschera che altrimenti causerebbe la distruzione dell’individuo. Attraverso questo gesto di follia, che costituisce la rivincita della vita interiore sulla forma imposta, dell’individuo alienato sulla società tendenzialmente uniforme, il protagonista travalica i confini di quella vita a lui ormai sconosciuta:
…gli occhi mi sfavillano di gioia, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto ; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro. [10]
[10] Ivi, p. 561.
Il finale della novella sorprende il lettore in quanto nello svelamento del delitto prevalgono il senso umoristico e il contrasto tra il serio e il faceto, mentre, prima, la narrazione era accompagnata da un’atmosfera angosciosa e drammatica; la tanto attesa rivelazione dell’atto segreto riporta il lettore all’umorismo pirandelliano che fino alla fine della storia risulta assente.
Stefano Giogli, uno e due
La novella racconta la storia di Stefano che, innamoratosi perdutamente di Lucietta Frenzi dopo averla conosciuta durante una serata a casa di amici, decide di sposarla nel giro di pochi mesi. Stefano, avendo studiato medicina e imparato le varie funzioni e attività dello spirito, ha una ben fondata e solida consapevolezza e stima di sé. Ma gli sono bastati quell’incontro e i tre mesi di fidanzamento successivi per perdere se stesso e, insieme, tutte le proprie certezze. In seguito alle nozze, un giorno Stefano si rende conto del fatto che, a casa e nella loro vita di coppia, niente gli appartiene. Alla fine capisce che Lucietta, in quei tre mesi di fidanzamento, l’aveva cambiato in tutti i sensi, creando un altro Stefano che non corrispondeva a quello di prima, al vero Stefano. Egli, accorgendosi del suo doppio creato dalla moglie, lo vede come una minaccia per il suo io e se ne ossessiona a tal punto che, infine, finisce per essere terribilmente geloso del suo doppio.
La novella è narrata, al passato, in terza persona da un narratore onnisciente e esterno-palese che talvolta interviene per commentare i fatti e per esporre i propri ragionamenti al presente. Gli interventi del narratore all’interno della storia, però, sono un elemento determinante nella decodificazione della novella in chiave del fantastico e del doppio:
Diventò ferocemente geloso di se stesso. Di solito, la gelosia nasce dalla poca stima che uno fa di se medesimo, non in sé, ma nel cuore e nella mente di colei che ama; dal timore di non bastare a riempir di sé quel cuore e quella mente, e che una parte di essi rimanga fuori del nostro dominio amoroso e accolga il germe d’un pensiero estraneo, di un estraneo affetto. [11]
[11] Ivi, p. 1120.
Il narratore con tali interventi frequenti coinvolge anche se stesso nella narrazione e non permette al lettore di immergersi nella storia raccontata e questo dà origine a un distacco tra la storia narrata e il lettore stesso. Inoltre il narratore a un certo punto afferma che in realtà la manipolazione di Lucietta è del tutto normale, in quanto conseguenza dei comportamenti di Stefano. In tal modo viene a mancare l’esitazione del lettore tra il solito e non, dato che il narratore tende a giustificare gli atti di Lucietta che possono sembrare anormali, fornendone una spiegazione logica:
Ma lui stesso, Stefano Giogli, doveva riconoscere che quella di Lucietta era in fondo la più spontanea e naturale delle creazioni. Lasciata nella più ampia libertà di disporre a suo capriccio di tutti questi elementi, ella ne aveva cavato fuori un marito come le piaceva, si era creato quello Stefano Giogli che più le conveniva; gli aveva dato a suo talento gusti e piaceri e desideri e abitudini. [12]
[12] Ibidem.
Nonostante la presenza dominante del narratore e dei suoi interventi, l’elemento fantastico compare per la prima volta attraverso le seguenti parole del narratore, che sono i primi segnali della trasformazione e dell’alienazione subite da Stefano durante quei tre mesi: «Stefano Giogli sapeva bene d’aver smarrito del tutto la coscienza durante quei tre mesi del fidanzamento. Di ciò che aveva detto, ciò che aveva fatto, non aveva la più lontana memoria». [13]
[13] Ivi, p. 1118.
In questa novella la dimensione soprannaturale, che fino a un certo punto sembra mancare, si afferma poi grazie al tema del doppio, che emerge nella consapevolezza di Stefano del suo doppio creato dalla moglie.
Stefano non riesce a riconoscere se stesso nell’uomo cui la moglie si rivolge, parla, mostra l’affetto. È uno sconosciuto per lui. Ritroviamo, anche qua, la figura perturbante e minacciosa del doppio che Stefano vorrebbe eliminare. La definizione del doppio fornita da Massimo Fusillo evidenzia meglio la situazione in cui Stefano si trova nella storia:
Si parla di doppio quando, in un contesto spaziotemporale unico, cioè in un unico mondo possibile creato dalla finzione letteraria, l’identità di un personaggio si duplica: un uno diventa due; il personaggio ha dunque due incarnazioni: due corpi che rispondono alla stessa identità e spesso allo stesso nome. [14]
[14] M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1998, p. 8.
Stefano rivive questo incontro con il suo perturbante doppio ogni volta che vede intorno a sé qualcosa che non gli appartiene veramente, e capisce che non può essere più se stesso perché sua moglie ha creato per lui la maschera che deve assumere, e soltanto così lo può accettare. Il pronome in corsivo, presente nel testo originale, mette l’accento sul doppio:
Ebbene, sua moglie si era creata di lui una realtà che non corrispondeva per nulla, né interiormente né esteriormente, a quella che si era creata lui di sé: una realtà vera e propria; non un’ombra, uno spettro! E poi, avrebbe amato Lucietta il vero Stefano Giogli, diverso dal suo? [15]
[15] L. Pirandello, Novelle per un anno, op. cit., p. 1122.
Un altro intervento del narratore con una particolare similitudine con il «liquido vetro» allude al vero significato del doppio, ma allo stesso tempo anche a quello del fantastico, poiché il vetro rappresenta uno degli elementi, come lo specchio, il ritratto e l’occhio, che richiama la trasformazione del familiare nel poco familiare:
Cieco, abbagliato, come una farfalla attorno al lume, non ricordava altro di quei tre mesi che gli spasimi della cocentissima attesa suscitati dalle rosse, umide labbra di lei, da quei dentini fulgidi, da quel vitino snello da cui si slanciava con irresistibile fascino la voluttuosa procacità del seno e dei fianchi, da quegli occhi che ora ridevano chiari, or s’illanguidivano cupi, or quasi vaneggiavano, velati di lagrime di gioja, al fuoco che si sprigionava dai suoi. Ah che fuoco! Tutto l’esser suo s’era come fuso a quel fuoco; era diventato come un liquido vetro, a cui il soffio capriccioso di lei poteva dare quell’atteggiamento, quella piega, quella forma, che meglio le pareva e piaceva. [16]
[16] Ivi, p. 1118.
In questa novella, come in quella precedente, Pirandello mette in risalto il concetto di forma, intesa come la maschera imposta dagli altri. Ebbene le due novelle, nonostante condividano il tema del doppio e del fantastico, si differenziano nel modo di elaborare alcuni elementi narrativi, come per esempio la funzione del narratore. Analizzando la maggior parte dei testi fantastici, è possibile constatare che i narratori inaffidabili sono solitamente narratori in prima persona. Ciononostante, la prima novella, narrata in prima persona, risulta quella più attendibile fino al finale umoristico, che avverte il lettore del fatto inaspettatamente surreale; mentre la seconda, narrata in terza persona, non fornisce alcun riferimento che renda la storia credibile agli occhi del lettore; ciò è dovuto soprattutto alle tecniche utilizzate dal narratore. Una di queste è, senza dubbio, la regressione. Il narratore regredisce al livello dei personaggi e si esprime come loro, dal loro punto di vista:
E poi, avrebbe amato Lucietta il vero Stefano Giogli, uno Stefano Giogli diverso dal suo? Se così ella se lo era creato, non era segno che questo soltanto corrispondeva a’ suoi gusti, al suo desiderio? Non si sarebbe ella messa a cercare in altri il suo ideale, che ora credeva pienamente raggiunto in quello? Chi sa che tradimento le sarebbe parso! Ma come? Un altro? Chi era? No, no, no. Voleva il suo maritino, lei, quale se lo era foggiato. [17]
[17] Ivi, p. 1123.
L’utilizzo di tale tecnica fa sì che il lettore non consideri il narratore un intermediario neutro tra testo e destinatario, bensì un vero e proprio personaggio della novella, che contribuisce alla costruzione della finzione.
Inoltre, dall’analisi delle novelle si evince la rilevanza conferita dallo scrittore alla funzione del nome: nella prima novella non ci è dato sapere il nome dell’avvocato, invece nella seconda conosciamo sia nome sia cognome del protagonista. La precisazione e non del nome è determinata dall’affermazione precedente della vera identità dei personaggi: l’avvocato si trova con un’identità a lui imposta in quanto prima non aveva un’identità consolidata ed è soltanto nel momento del viaggio e della lettura del proprio nome sulla porta che raggiunge una presa di coscienza di una
vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desideri prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; (…). [18]
[18] Ivi, p. 555.
Invece, Stefano Giogli prima del matrimonio aveva già un’identità ben definita che poi viene manipolata dalla moglie. Il nome, insomma, serve a definire il rapporto della coscienza identitaria e della soggettività del personaggio tra prima e dopo il momento del ri-conoscimento di ognuno.
In questa prospettiva la percezione di perdita d’identità fa sì che i due protagonisti cadano in una sorta di «scacco gnoseologico» [19] e vivano degli attimi di squilibrio a livello conoscitivo.
[19] M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, op. cit., p. 274.
Questa crisi, alla fine, trova corrispondenza in due interpretazioni diverse del doppio per ciascuna delle novelle: nel caso dell’avvocato, si può parlare di uno sdoppiamento interiore: vedere la propria vita dall’esterno come se fosse vissuta da un altro. Invece, nel caso di Stefano, si nota l’avvertimento di non essere nessuno, l’impossibilità di identificarsi in un’identità diversa dalla propria, che provoca l’angoscia e la confusione identitaria. Tale presa di coscienza dell’inconsistenza dell’io lo rende straniero a se stesso, nemico di sé, costretto a vivere in un corpo e in una vita di cui percepisce, a un tratto, l’inautenticità. L’elemento comune ai due protagonisti è che sono intrappolati in un’esistenza di cui non sono loro a reggere il timone e che si trovano, contemporaneamente, dalla parte della repressione e del represso.
Tutte e due le novelle non hanno un finale compiuto: sono aperte all’immaginazione del lettore. Nonostante ciò, alla fine, mentre l’avvocato finisce per concedersi un gesto di follia per sentirsi libero dalla prigione in cui si trova, Stefano raggiunge una nuova concezione di se stesso e si ri-conosce in questa nuova realtà, lasciandosi quasi convincere dalla forma creata per lui dalla moglie. Come nella prima novella, anche nella seconda siamo nel campo del fantastico meraviglioso in cui l’elemento soprannaturale consiste soprattutto nell’accettazione del doppio creato dalla moglie e nella gelosia provata per il suo doppio (per Stefano). E alla fine tutti e due i protagonisti si rassegnano all’idea che un altro io costruito e imposto da altri sia possibile e, in un certo senso, obbligatorio. Ed è proprio questo il messaggio che Pirandello vuole trasmettere attraverso le novelle incentrate sul tema del fantastico-doppio: l’inevitabilità della maschera, dello sdoppiamento e della scissione d’identità per potersi adeguare a quella che chiamiamo la realtà.
Ebru Sarikaya
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