Paura d’esser felice – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Ma, ahimè, speranze e desiderii e illusioni gli rinascevano, quasi a dispetto, irresistibilmente: erano i germi che la vita stessa gettava e che cadevano anche nel suo terreno, il quale, per quanto indurito dal gelo dell’esperienza, non poteva non accoglierli.»

Prime pubblicazioni: Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali, 31 gennaio 1911, col titolo Il saltamartino, poi sul Messaggero della domenica, 24 maggio 1918, poi in Un cavallo nella luna, Treves, Milano 1918.

Paura d esser felice audiolibro
Gustave Courbet (1819-1977), Le Désespéré, 1843-1845. Immagine dal Web.

Paura d’esser felice

Voce di Giuseppe Tizza

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             Prima che Fabio Feroni, non più assistito dal senno antico, si fosse indotto a prender moglie, per lunghi anni, mentre gli altri cercavano un po’ di svago dalle consuete fatiche o in qualche passeggiata o nei caffè, da uomo solitario com’era allora, aveva trovato il suo spasso nel terrazzino della vecchia casa di scapolo, ove, tra tanti vasi di fiori, eran pur mosche assai e ragni e formiche e altri insetti, della cui vita s’interessava con amore e curiosità.

             Soprattutto si spassava assistendo agli sforzi sconnessi d’una vecchia tartaruga, la quale da parecchi anni s’ostinava, testarda e dura, a salire il primo dei tre gradini per cui da quel terrazzo si andava alla saletta da pranzo.

             «Chi sa», aveva pensato più volte il Feroni, «chi sa quali delizie s’immagina di trovare in quella saletta, se da tant’anni dura questa sua ostinazione.»

             Riuscita con sommo stento a superare l’alzata dello scalino, quando già poneva su l’orlo della pedata le zampette sbieche e raspava disperatamente per tirarsi su, tutt’a un tratto perdeva l’equilibrio, ricadeva giù riversa su la scaglia rocciosa.

             Più d’una volta il Feroni, pur sicuro che essa, se alla fine avesse superato il primo, poi il secondo, poi il terzo scalino, fatto un giro nella saletta da pranzo, avrebbe voluto ritornare giù al battuto del terrazzo, l’aveva presa e delicatamente posata sul primo scalino, premiando così la vana ostinazione di tanti anni.

             Ma aveva con maraviglia sperimentato che la tartaruga, o per paura o per diffidenza, non aveva voluto mai profittare di quell’ajuto inatteso e, ritratte la testa e le zampe dentro la scaglia, se n’era per un gran pezzo rimasta lì come pietra, e poi, pian piano voltandosi, s’era rifatta all’orlo dello scalino, dando segni non dubbii di volerne discendere.

             E allora egli l’aveva rimessa giù; ed ecco poco dopo la tartaruga riprender l’eterna fatica di salir da sé quel primo scalino.

             – Che bestia! – aveva esclamato il Feroni, la prima volta.

             Ma poi, riflettendoci meglio, s’era accorto d’aver detto bestia a una bestia, come si dice bestia a un uomo.

             Infatti, le aveva detto bestia, non già perché in tanti e tanti anni di prova essa ancora non aveva saputo farsi capace che, essendo troppo alta l’alzata di quello scalino, per forza, nell’aderirvi tutta verticalmente, avrebbe dovuto a un punto perder l’equilibrio e cader riversa; ma perché, ajutata da lui, aveva rifiutato l’ajuto.

             Che seguiva però da questa riflessione? Che, dicendo in questo senso bestia a un uomo, si viene a fare alle bestie una gravissima ingiuria, perché si viene a scambiare per stupidità quella che invece è probità in loro o prudenza istintiva. Bestia, si dice a un uomo che non accetta l’ajuto, perché non par lecito pregiare in un uomo quella che nelle bestie è probità.

             Tutto questo in generale.

             Il Feroni poi aveva ragioni sue particolari di recarsi a dispetto quella probità, o prudenza che fosse, della vecchia tartaruga, e per un po’ si compiaceva delle ridicole e disperate spinte ch’essa tirava nel vuoto così riversa, e alla fine, stanco di vederla soffrire, le soleva allungare un solennissimo calcio.

             Mai, mai nessuno che avesse voluto dare a lui una mano in tutti i suoi sforzi per salire.

             E tuttavia, neppure di questo si sarebbe in fondo doluto molto Fabio Feroni, conoscendo le aspre difficoltà dell’esistenza e l’egoismo che ne deriva agli uomini, se nella vita non gli fosse toccato di fare un’altra ben più triste esperienza, per la quale gli pareva d’aver quasi acquistato un diritto, se non proprio all’ajuto, almeno alla commiserazione altrui.

             E l’esperienza era questa: che, ad onta di tutte le sue diligenze, sempre, com’egli era proprio lì lì per raggiunger lo scopo a cui per tanto tempo aveva teso con tutte le forze dell’anima, accorto, paziente e tenace, sempre il caso con lo scatto improvviso d’un saltamartino, s’era divertito a buttarlo riverso a pancia all’aria – proprio come quella tartaruga lì.

             Giuoco feroce. Una ventata, un buffetto, una scrollatina, sul più bello, e giù tutto.

             Né era da dire che le sue cadute improvvise meritassero scarsa commiserazione per la modestia delle sue aspirazioni. Prima di tutto, non sempre, come in questi ultimi tempi, erano state modeste le sue aspirazioni. Ma poi… – sì, certo, quanto più dall’alto, tanto più dolorose, le cadute – ma quella d’una formica da uno sterpo alto due palmi non vale agli effetti quella d’un uomo da un campanile? Oltre che la modestia delle aspirazioni, se mai, avrebbe dovuto far giudicare più crudele quel giochetto della sorte. Bel gusto, difatti, prendersela con una formica, cioè con un poveretto che da anni e anni stenta e s’industria in tutti i modi a tirar su e ad avviare tra ripieghi e ripari un piccolo espediente per migliorare d’un poco la propria condizione; sorprenderlo a un tratto e frustrare in un attimo tutti i sottili accorgimenti, la lunga pena d’una speranza pian pianino condotta quasi per un filo sempre più tenue a ridursi a effetto!

             Non sperare più, non più illudersi, non desiderare più nulla; andare innanzi così, in una totale remissione, abbandonato alla discrezione della sorte – l’unica sarebbe stata questa: lo capiva bene Fabio Feroni. Ma, ahimè, speranze e desiderii e illusioni gli rinascevano, quasi a dispetto, irresistibilmente: erano i germi che la vita stessa gettava e che cadevano anche nel suo terreno, il quale, per quanto indurito dal gelo dell’esperienza, non poteva non accoglierli, impedire che mettessero una pur debole radice e sorgessero pallidi, con timidità sconsolata nell’aria cupa e diaccia della sua sconfidenza.

             Tutt’al più, poteva fingere di non accorgersene; o anche dire a se stesso che non era mica vero ch’egli sperava questo, desiderava quest’altro; o che si faceva la più piccola illusione che quella speranza o quel desiderio potessero mai ridursi a effetto. Tirava via, proprio come se non sperasse né desiderasse più nulla, proprio come se non s’illudesse più per niente; ma pur guardando, quasi con la coda dell’occhio, la speranza, il desiderio, l’illusione soppiatta, e seguendoli serio serio, quasi di nascosto da se stesso.

             Quando poi il caso, all’improvviso, immancabilmente, dava a essi il solito sgambetto, egli n’aveva sì un soprassalto, ma fingeva che fosse una scrollatina di spalle e rideva agro e annegava il dolore nella soddisfazione sapor d’acqua di mare di non aver punto sperato, punto desiderato, di non essersi illuso per nientissimo affatto; e che perciò quel demoniaccio del caso questa volta, eh no, questa volta non gliel’aveva fatta davvero!

             – Ma si capisce! Ma si capisce! – diceva in questi momenti agli amici, ai conoscenti, suoi compagni d’ufficio, là nella biblioteca ov’era impiegato.

             Gli amici lo guardavano senza comprender bene che cosa si dovesse capire.

             – Ma non vedete? È caduto il Ministero! – soggiungeva il Feroni. – E si capisce!

             Pareva che lui solo capisse le cose più assurde e inverosimili, da che non sperando più, per così dire, direttamente, ma coltivando per passatempo speranze immaginarie, speranze che avrebbe potuto avere e non aveva, illusioni che avrebbe potuto farsi e non si faceva, s’era messo a scoprire le più strambe relazioni di cause e d’effetti per ogni minimo che; e oggi era la caduta del Ministero, e domani la venuta dello Scià di Persia a Roma, e doman l’altro l’interruzione della corrente elettrica che aveva lasciato al bujo per mezz’ora la città.

             Insomma, Fabio Feroni s’era ormai fissato in ciò che egli chiamava lo scatto del saltamartino; e, così fissato, era caduto in preda naturalmente alle più stravaganti superstizioni, che, distornandolo sempre più dalle sue antiche, riposate meditazioni filosofiche, gli avevan fatto commettere più d’una vera e propria stranezza e leggerezze senza fine.

             Prese moglie, un bel giorno, lì per lì, come si beve un uovo, per non dar tempo al caso di mandargli tutto a gambe all’aria.

             Veramente, egli guardava da un pezzo (al solito, con la coda dell’occhio) quella signorina Molesi, che stava presso la biblioteca: Dreetta Molesi, che più gli pareva bella e piena di grazia e più diceva a tutti ch’era brutta e smorfiosa.

             Alla sposina che, avendo una gran fretta anche lei, si lamentava della troppa fretta di lui, disse che aveva già tutto pronto da tempo: la casa, così e così, che ella però non doveva chiedere di visitare avanti, perché gliela riserbava come una bella sorpresa per il giorno delle nozze; e non volle dire neppure in che via fosse, temendo che di nascosto o con la madre o col fratello andasse a visitarla, tentata dalle minuziose descrizioni ch’egli le aveva fatto di tutti i comodi ch’essa offriva e della vista che si godeva dalle finestre, e dei mobili che aveva acquistati e disposti amorosamente nelle varie camerette.

             Discusse a lungo con lei sul viaggio di nozze: a Firenze? a Venezia? Ma quando fu sul punto, partì per Napoli, certo d’aver così gabbato il caso: d’averlo cioè spedito a Firenze e a Venezia da un albergo all’altro per guastargli le gioje della luna di miele, mentr’egli se le sarebbe godute, quieto e riparato, a Napoli.

             Tanto Dreetta quanto i parenti rimasero storditi di questa improvvisa risoluzione di partire per Napoli, quantunque già un poco avvezzi a simili repentini cambiamenti in lui sia d’umore sia di propositi. Non s’immaginavano che una ben più grande sorpresa li aspettava al ritorno dal viaggio di nozze.

             Dov’era la casetta, il nido già apparecchiato da tempo e descritto con tanta minuzia? Dov’era? Nel sogno che Fabio Feroni destinava, come tutti gli altri, al caso perché si spassasse a distruggerglielo a sua posta con qualcuna delle sue improvvise prodezze. Là, in due camerette ammobigliate, scelte lì per lì in treno, ritornando da Napoli, tra le tante disponibili negli annunzi d’affitti di un giornale, si vide condotta Dreetta appena giunta a Roma.

             L’ira, l’indignazione questa volta ruppero tutti i freni finora imposti dalla buona creanza e dalla poca confidenza. Dreetta e i parenti gridarono all’inganno, anzi peggio, all’impostura. Perché mentire così? far vedere una casa apparecchiata di tutto punto, piena di tutti i comodi, perché?

             Fabio Feroni, che s’aspettava quello scoppio, attese paziente che le prime furie svaporassero, sorridendo contento di quel suo martirio, e cercandosi con le dita nelle narici qualche peluzzo da tirare.

             Dreetta piangeva? i parenti lo ingiuriavano? Era bene, era bene che fosse così, per tutta la gioja ch’egli aveva or ora goduta a Napoli, per tutto l’amore che gli riempiva l’anima. Era bene che fosse così.

             Perché piangeva Dreetta? Per una casa che non c’era? Eh via, poco male! ci sarebbe stata!

             E spiegò ai parenti perché non avesse apparecchiato avanti la casetta e perché avesse mentito; spiegò che la sua menzogna, del resto, appariva tale un po’ anche per colpa loro, cioè delle troppe domande che gli avevano rivolte quand’egli sul principio aveva dichiarato d’aver tutto pronto da tempo e di voler fare alla sposina una bella sorpresa. Aveva pronto il denaro, ed eccolo lì; venti mila lire, risparmiate e raccolte in tanti anni e con tanti stenti; e la sorpresa che preparava a Dreetta era questa: di darle in mano quel denaro, perché pensasse lei, lei soltanto, a metter su il nido di suo gusto, come una necessità e non come un sogno. Ma, per carità! non seguisse ella in nulla e per nulla la descrizione immaginaria che lui gliene aveva fatta un tempo; tutto diverso doveva essere; scegliesse lei con l’ajuto della mamma e del fratello; egli non voleva saperne nulla; perché, se minimamente avesse approvato questa o quella scelta e se ne fosse compiaciuto, addio ogni cosa! E volle infine prevenirli che se speravano ch’egli delle loro compere e dell’assetto della casa e di tutto quanto si dichiarasse contento, se lo levassero pure dal capo, perché fin d’ora, a ogni modo, se ne dichiarava scontento, scontentissimo.

             Fosse per questo, fosse per la cordialità dei padroni di casa, buoni vecchi all’antica, marito e moglie con una figliuola nubile, Dreetta non s’affrettò più di comporsi il nido. Rimasero d’accordo coi padroni di casa, che avrebbero sloggiato alla nascita del primo figliuolo.

             Intanto i primi mesi di matrimonio furono un fiume di pianto nascosto per Dreetta, la quale, volendo vivere a modo del marito, ancora non s’era accorta ch’egli diceva tutto il contrario di quello che desiderava.

             Fabio Feroni in fondo desiderava tutto ciò che avrebbe potuto far contenta la sposina; ma sapendo che, se avesse manifestato e seguito quei desiderii, il caso li avrebbe subito rovesciati, per prevenirlo, manifestava e seguiva i desiderii contrarii: e la sposina viveva infelice. Quand’ella infine se n’accorse e cominciò a fare a suo modo, cioè tutt’al contrario di quel che diceva lui, la gratitudine, l’affetto, l’ammirazione di Fabio Feroni per lei raggiunsero il colmo. Ma il pover’uomo si guardò bene dall’esprimerli; si sentì felice anche lui, e cominciò a tremare.

             Così pieno di gioja, come fare a nasconderla? a dichiararsi scontento?

             E guardando la sua piccola Dreetta già incinta, gli occhi gli s’invetravano di lagrime; lagrime di tenerezza e di riconoscenza.

             Negli ultimi mesi la moglie, col fratello e la mamma si diede attorno, per metter su la casetta. La trepidazione di Fabio Feroni divenne in quei giorni più che mai angosciosa. Sudava freddo a tutte le espressioni di giubilo della sposina, soddisfatta della compera di questo o di quel mobile.

             – Vieni a vedere… vieni a vedere… – gli diceva Dreetta.

             Con tutte e due le mani egli avrebbe voluto turarle la bocca. La gioja era troppa; quella era anzi la felicità, la vera felicità raggiunta. Non era possibile che non accadesse da un momento all’altro una disgrazia. E Fabio Feroni si mise a guardare attorno e avanti e indietro con rapidi sguardi obliqui per scoprire e prevenir l’insidia del caso, l’insidia che poteva annidarsi anche in un granellino di polvere; e si buttava con le mani a terra, gattone, per impedire il passo alla moglie se scorgeva sul pavimento qualche buccia su cui il piedino di lei avrebbe potuto smucciare. Ecco, forse l’insidia era là, in quella buccia! O forse… ma sì, in quella gabbia lì, del canarino… Già una volta Dreetta era montata su un sediolino, col rischio di cadere, per rimetter la canapuccia nel vasetto. Via quel canarino! E alle proteste, al pianto di Dreetta, egli, tutt’arruffato, ispido, come un gatto fustigato:

             – Per carità, – s’era messo a gridare, – ti prego, lasciami fare! lasciami fare! E gli occhi sbarrati gli andavano di continuo in qua e in là, con una mobilità

             e una lucentezza che incutevano paura.

             Finché una notte ella non lo sorprese in camicia con una candela in mano, che andava cercando l’insidia del caso entro le tazzine da caffè capovolte e allineate sul palchetto della credenza nella sala da pranzo.

             – Fabio, che fai?

             E lui, ponendosi un dito su la bocca:

             – Ssss… zitta! Lo scovo! Ti giuro che questa volta lo scovo… Non me la fa! Tutt’a un tratto, o fosse un topo, o un soffio d’aria, o uno scarafaggio sui piedi nudi, il fatto è che Fabio Feroni diede un urlo, un balzo, un salto da montone, e s’afferrò con le due mani il ventre gridando che lo aveva lì, lì, il saltamartino, lì dentro, lì dentro lo stomaco! E dalli a springare, a springare in camicia per tutta la casa, poi giù per le scale e poi fuori, per la via deserta, nella notte, urlando, ridendo, mentre Dreetta scarmigliata gridava ajuto dalla finestra.

Paura d’esser felice – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
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