Prime pubblicazioni: Settimanale Universale, 18 settembre 1898, poi in Una giornata, Mondadori, Milano 1937. «O perché mai nascevano certe erbe? Non per gli uomini, certo, né per le bestie, che non ne mangiavano… Nascevano perché Dio le voleva e la terra le faceva, senza curarsi del dispiacere che recava agli uomini prepotenti, i quali credono d’aver dominio su lei.» |
Novella dalla Raccolta “Una giornata” (1937)
Padron Dio – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Padron Dio – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
6. Padron Dio – 1898
Tanti anni fa, a un pittore non si sa donde venuto, egli che viveva da selvaggio su per le spalle dei monti, guardiano di mandrie, s’era prestato a far da modello per una pala d’altare, di cui quegli preparava i cartoni e altri studii preliminari.
Che parte fosse destinato a rappresentare in quel quadro sacro, non si era neppur curato di sapere: si era lasciato vestire di strana foggia e atteggiar d’un gesto violento, con una verga in mano. Ma, poco dopo, consacrata la chiesa nuova, e accorso egli con tutto il popolo alla prima funzione, vedendosi nella pala effigiato in uno dei giudici che colpivan Gesù legato alla colonna, s’era messo a gridar furibondo e a piangere e a strapparsi i capelli, pestando i piedi per terra:
– Levatemi di lì! Son cristiano!
Tratto fuori fra la confusione generale (risa di quelli che lo avevano ravvisato nella pala e domande e supposizioni disparate degli altri che non se n’erano accorti), non si era calmato e non aveva smesso la minaccia d’uccidere quel pittore insolente, finché dal vecchio mansionario della nuova chiesa non aveva ottenuto la promessa d’un ritocco alla immagine di quel giudeo per modo che ogni somiglianza con lui fosse cancellata. Non pertanto, il nomignolo di Giudè gli era rimasto; e ora, dopo tant’anni, chiamavasi Giudè lui stesso. Ma così il volto come la persona avevan perduto quell’espressione di dura fierezza per cui il pittore lo aveva scelto a rappresentar nella pala quella parte odiosa. Era vecchio ormai il Giudè e non più buono neppur da condurre al pascolo le mandrie: viveva di elemosina, senza mai chiederla, o meglio, chiedendola in un modo suo particolare. Spinto dalla fame, dopo aver vagato come un cane randagio per le pianure deserte, si appressava a una villa e al primo contadino in cui s’imbattesse diceva:
– Di’ al tuo padrone che c’è l’esattore.
Tutti adesso intendevano e sorridevano; ma la prima volta che il Giudè usò questa frase per la sua questua dové spiegarla. E la spiegò così: che noi tutti sulla terra siamo inquilini del Signore, il quale sarebbe per ciascuno allo stesso modo buon padrone di casa, se molti uomini non si fossero fatta della terra casa propria, senza volere intendere né riconoscere ch’essa dovrebbe invece esser casa comune. Debbono però questi tali ricordarsi che il Signore è pur padrone di un’altra casa, di là (e il Giudè aveva additato il cielo), della quale vuol che ciascuno paghi anticipata qui la pigione. I poveri la pagano coi patimenti quotidiani del freddo e della fame; basta ai ricchi, per pagarla, che facciano ogni tanto un po’ di bene. Ecco dunque perché egli era pei ricchi l’esattore.
Ottenuta l’elemosina in natura, si allontanava; e, andando, riconosceva qua e là per la campagna gli alberi che avrebbero dovuto esser suoi: suoi, perché quell’ulivo, quel ciliegio, quel nespolo, quel melograno eran nati per lui che tant’anni addietro, passando, aveva scavato e buttato il seme alla terra; e la terra, ecco, gli aveva dato l’albero; lo aveva dato a lui… Perché la terra sa forse a chi appartenga?
Ed egli per quegli alberi aveva affetto paterno: gli parevano i più belli e i più rigogliosi di tutta la campagna; e si fermava ad ammirarli a lungo e scoteva il capo folto di capelli grigi, ricci, quasi ferruginei. I rami sovraccarichi lo invitavano a cogliere almeno un frutto, poiché tutti eran suoi (ah, essi lo sapevano bene!) – ecco, e glieli offrivano… Ma lui, no: non cedeva alla tentazione; sospirando abbassava la mano che già s’era levata.
Così, per le campagne altrui, viveva senza tetto.
Dormiva la notte in un casale smantellato e abbandonato; si destava all’alba e si metteva a errar senza meta, per le solitudini immense e pur piene di tanta vita, in quel silenzio palpitante di foglie e d’ali, a ora a ora tentato dal trillo d’un uccello che s’allontanava.
Sdrajato per terra, s’immergeva in quel silenzio e guardava i fili d’erba che si movevano appena, di tanto in tanto, a un alito d’aura; guardava qualche lucertola che si beava del sole sopra una pietra, e le farfalle bianche che volitavan sicure in tanta pace.
O perché mai nascevano certe erbe? Non per gli uomini, certo, né per le bestie, che non ne mangiavano… Nascevano perché Dio le voleva e la terra le faceva, senza curarsi del dispiacere che recava agli uomini prepotenti, i quali credono d’aver dominio su lei; tanto è vero che, strappate, tornava a farle; e lì che nessuno le toccava, esse crescevano senza fine – come la terra le voleva…
«Dio ha voluto anche me», il Giudè pensava, «e intanto non ho un palmo di terra in cui mi possa stare, dicendo: è mio. Son come quest’erbacce, che nessuno vuole nel proprio campo. Solo dov’esse crescono indisturbate posso stare anch’io. Vuol dire che il padrone non c’è o non se ne cura.»
Parecchie volte era stato colpito da quest’idea. Conosceva certe terre abbandonate, per cui non passava mai anima viva, e nelle quali egli, dacché era vivo, cioè per tant’anni che non si ricordava il numero, aveva sempre veduto quell’erbacce; né mai alcuna traccia, anche lontana, di coltivazione; né mai alcun segno, anche antico, del dominio di qualcuno. Quelle terre adunque, da tempo almeno per lui immemorabile, appartenevano a se stesse, libere di produrre, non quel che gli uomini vogliono, ma quel che a loro piaceva.
«E se io», pensava il Giudè, «da un lembo qui nel mezzo, che nessuno se n’accorga, strappo le male erbe, e vi butto un pugno di frumento, non mi darà questa terra un po’ di grano? Lo darebbe a me come a chiunque… Il padrone, ammesso che ci sia, è chiaro che ha sempre rinunziato a trar da questo podere qualsiasi profitto. Non sarà lo stesso per lui se in un pezzetto qui in giro, invece di sterpi inutili, crescerà un po’ di grano per me? Egli, queste terre le ha abbandonate, né io me le piglio: farò soltanto che un breve tratto d’esse, almeno per una volta, invece di sterpi inutili produca grano… Del resto, chi è il padrone?»
Vinto da questa idea, il Giudè nelle sue questue si mise d’allora in poi a chiedere, oltre al tozzo di pane consueto, una manatella di frumento.
– O che ha rincarato la pigione padron Dio, Giudè? – gli domandavano scherzando i fattori delle ville, a cui egli si presentava da esattore.
Il Giudè, sorridendo umilmente, si stringeva nelle spalle:
– Se volete…
E intanto che raccoglieva così da seminare, apparecchiava lì, nella solitudine, il terreno – oh, alla meglio, sprovvisto com’era degli arnesi necessarii. Aveva soltanto un logoro marrello, tolto in prestito, col quale, zappettando, cavò prima via l’erbacce maligne; poi scavò, scavò quanto più a fondo gli permise la forza delle povere braccia sfibrate dagli stenti e dalla vecchiaia: e questo al terreno doveva bastare. Non al suo desiderio però, che gli faceva seguir con gli occhi invidiando l’opera degli aratri negli altri campi e i seminatori che gittavano il grano fiduciosi nel lavoro coscienziosamente fornito. Ah, egli non aveva nemmeno potuto incalcinare i semi, perché non involpassero: li aveva così, quasi alla ventura, consegnati alle zolle appena appena rimosse…
Vennero le prime acque, e il Giudè, udendo dal suo covo notturno scrosciar la pioggia, pensò che anche su quel suo lembo di terra in quel momento pioveva… Poi, con un gaudio che lo fece lagrimare, vide il grano sbullettare e poi dalla terra umida spuntar timide le prime pipite. Ah, ecco, ecco, la terra gli dava il grano! era suo! E si guardò intorno, quasi per difenderlo: era suo! Poi guardò il cielo donde l’acqua benefica era caduta anche per lui, anche per quel suo primo tesoro; ma la vista del cielo lo sconsolò: avrebbe voluto vederlo così basso da chiudere e nascondere quel piccolo lembo coltivato, perché nessuno lo scoprisse, lì, tra quelle erbacce intorno.
E man mano le pipite sfronzarono, accestirono. E ormai il Giudè non sapeva staccarsi più da quel pezzetto di terra, nonostante il freddo acuto e le intemperie: quasi covava con gli occhi quel suo grano; e nel veder l’aura avvivare di tremiti le tenere foglioline, tutta l’anima gli tremava.
Se non che, un giorno di quelli, non si sentì la forza di sbucare dal casale abbandonato in cui s’era fatto il covo.
Il sole era già alto, e il Giudè, seduto per terra, con le spalle al muro, le ginocchia abbracciate, guardava innanzi a sé, stordito ancora dai sogni della notte, e tremava tutto di freddo e i denti gli battevano.
Che era avvenuto? Dov’era il suo campicello? E i granai dov’erano? tutti quei granai pieni, con tanti e tanti misuratori allegri che davan via frumento, frumento, frumento, cantando e senza togliere con la rasiera il colmo dello stajo? E quella povera donna ch’era accorsa con un grembiule bucato, donde giù tutti i chicchi scorrevano così a sgorgo, che la grembiata si votava prima ch’ella raggiungesse la porta del granajo? Ah, la poverina tornava sempre indietro, daccapo, disperatamente, urtata, spinta tra la ressa degli altri poveri accorrenti senza fine, e mai nessun chicco le restava in grembo…
– Date via! date via! – incitava il Giudè i misuratori. – Così mi pago la pigione dell’altra casa del Signore, lassù…
E i granai non si votavano mai: dalle finestre in alto, sopra i mucchi addossati alle pareti, il frumento sgorgava, veniva giù come cascata d’acqua, continuamente, frusciando. E ora, ecco, quel fruscio continuo nel sogno gli era rimasto negli orecchi… Ah, la febbre! egli aveva la febbre, e tremava di freddo.
Si levò in piedi a stento: vacillava… Si trascinò fuor del casale diruto per ritornare al campicello lontano, ma dopo un breve tratto di cammino s’accasciò, in un completo abbandonamento di membra.
Si ritrovò dopo alcuni giorni, stupito e sgomento, su un lettuccio d’ospedale, in un lungo camerone silenzioso.
«Ah, è segno che son morto, se mi hanno accolto qui», pensò il Giudè.
La testa gli pesava come se fosse di piombo, e non aveva forza neanche d’aprir le palpebre. Quel filo d’anima che gli restava si rincantucciò sotto la superstiziosa paura che il luogo gl’ispirava; ed egli abbandonò disajutato il vecchio corpo affranto e inerte alle cure dei medici e degli infermieri, senza neppur domandare che male avesse.
Con gli occhi chiusi, tutto rannicchiato quasi per schermirsi dai brividi incalzanti della febbre, spingeva il pensiero lontano lontano, al campicello suo; e lì, sovr’esso, a poco a poco s’addormentava. E attorno a lui, allora, sentiva e vedeva il grano già accestito mandar su su su il gambo della spiga… ma troppo alto… non così, possibile? ogni gambo più alto d’un pioppo? Il Giudè, smaniando, voleva impedir quel rigoglio dispettoso e inverosimile, ma non poteva: i gambi gli si allungavano da ogni lato, visibilmente, fino a quell’altezza, l’uno dopo l’altro, e a poco a poco lo seppellivano. Ora, smaniando l’aria, il Giudè si rizzava, ma – o stupore! – anch’egli era più alto assai delle spighe… Si guardava attorno smarrito, poi guardava il cielo, ed ecco la luna, a portata della sua mano: alzava un braccio e la prendeva e con essa si metteva a falciare. Poi, tutt’a un tratto, il sogno crollava, e il Giudè si destava di soprassalto.
Vedeva allora in contrapposto venir su gracile e pallido e rado il suo grano e i poveri gambi acquattati dalla pioggia o spezzati dal vento… E sospirava: – L’aratro! ci voleva l’aratro!… –. Che certo la terra da quel suo logoro marrello non si era neppur sentita vellicare…
Intanto i giorni passavano, ma non le febbri al Giudè. Aveva perduto la memoria del tempo, e non chiedeva nemmeno in che stagione si fosse, per paura che gli rispondessero: è finita l’estate.
Si provava a levare un po’ il capo dal guanciale per guardar sopra gli altri letti l’ampia finestra in fondo al camerone: intravedeva appena il cielo limpido fiammante di sole. Ma forse era ancor primavera. «Chi sa però:», pensava il Giudè, «qualcuno forse, passando di là, avrà scoperto tra le erbacce il grano, e l’avrà fatto suo… Ma se poi nessuno lo scopre, non è anche peggio? Quella grazia di Dio si perderà, aspettando invano sotto il sole la falce. E la terra avrà dato il grano inutilmente…»
Come Dio volle però (e fu Dio, certo, dietro tante preghiere), il Giudè potè lasciar l’ospedale – uscir di prigione – guarito, sui primi del giugno.
Subito volò di lungo al suo campicello; scorse da lontano il biondeggiar del grano, ma a un tratto sentì mancarsi le gambe, cascarsi le braccia… Tutt’intorno alla messe quasi miracolosa (tanto era alta e folta!) correva una siepe; a un canto sorgeva un pagliajo, e un cane, udendo tra le erbacce oltre la siepe fruscio di passi, si mise a latrare.
Si affacciò dalla siepe il contadino di guardia, con una mano a riparo degli occhi.
– Oh, benvenuto, Giudè! T’aspettavo… Dimmi che vuoi tu ora qui.
Il Giudè, affranto dalla corsa e dal cordoglio, si pose a seder per terra, calandosi pian piano, appoggiato al lungo bastone.
– Non voglio nulla… – poi disse, rattenendo le lacrime. – Quieta il tuo cane. Son venuto soltanto per vedere codesto miracolo: il grano che t’è nato solo, e così bello, da sé…
– E di chi era la terra, Giudè?
– Era di quest’erbacce qui, che non fanno pane… – rispose il povero vecchio. – Dillo, dillo al tuo padrone…
E rimase a lungo lì, per terra, a guardar quelle spighe alte e piene, che, mosse dal vento, tentennando, pareva lo commiserassero.
Raccolta Una giornata 01 – Effetti di un sogno interrotto – 1937 02 – C’è qualcuno che ride – 1936 03 – Visita – 1936 04 – Vittoria delle formiche – 1936 05 – Quando s’è capito il giuoco – 1913 06 – Padron Dio – 1898 07 – La prova – 1935 08 – La casa dell’agonia – 1935 09 – Il buon cuore – 1937 10 – La tartaruga – 1936 11 – Fortuna di esser cavallo – 1935 12 – Una sfida – 1936 13 – Il chiodo – 1936 14 – La signora Frola e il signor Ponza suo genero – 1917 15 – Una giornata – 1917 |
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