Introduzione alle novelle
di Luigi Pirandello
Novelle per un anno
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza
Pirandello come autore a vita. Sciascia, considerandolo quasi una chiave universale di ingresso, ha scritto un Alfabeto pirandelliano, stilando delle voci essenziali, dalla A alla Z. Naturalmente non esistono chiavi universali, e Sciascia, tentato a leggere la realtà con le lenti dell’illustre corregionale e quasi compaesano, esprimeva un mito della sua formazione culturale. Se ne può comunque ricavare una suggestione. Pirandello, come pochi altri scrittori, proprio lui che ha affermato che la vita o la si vive o la si racconta, ha cercato di far coincidere vita e racconto, si è impegnato in un raccontare continuo, a coprire tendenzialmente quasi tutti tutti gli spazi dell’esistenza, perché alla fine la vita, quella che rimane e ha un senso e un valore, che cosa altro è se non racconto della vita?
Non è dunque soltanto questione di una vena inesauribile, di una capacità quasi ascetica di lavoro. Il problema è quello di una visione, e di una vocazione, che la accende. Man mano che il materiale si accumulava, si ponevano problemi di organizzazione strutturale, ed editoriale. Come presentarlo al pubblico, senza provocare uno smarrimento?
I romanzi sono sette. Ma le novelle danno l’impressione di non finire mai, come le tessere di un mosaico enorme e tuttavia aperto. Pirandello valutò l’opportunità di varie soluzioni, in rapporto allo scorrimento e alla durata temporale. Per notti, esisteva il precedente di Shahrazàd e delle Mille e una notte, un’eredità della tradizione araba che avrebbe potuto assumere da siciliano orgoglioso. In fin dei conti, Shahrazàd racconta per non morire e, a questo scopo, l’ideale sarebbe stato scrivere delle Novelle per sempre. La distribuzione per giornate apparteneva alla novellistica occidentale, a cominciare dal Decamerone. Optò per la formula Novelle per un anno, progettando di scandire la raccolta complessiva in dodici volumi, di trenta novelle ciascuno, ma l’editore preferì spezzare in ventiquattro, per evitare forse l’impressione del troppo pieno e guadagnare invece il vantaggio di una liberalità diffusa.
Insomma, nel vasto territorio della produzione novellistica pirandelliana si possono seguire delle piste, privilegiare dei criteri, ma ogni tentativo di schematizzare all’interno presenta il difetto di fermare, nella trama dei rapporti, ciò che invece si pone come fluido. L’opera sta lì intera e, come la Bibbia consultata magicamente dai personaggi di Jorge Amado, si presta ad essere letta, anzi interpellata, volta per volta, con la casualità creativa dell’occasione.
Pirandello compose il suo primo racconto nel 1884, a diciassette anni. Si intitola Capannetta ed è assolutamente senza pretese, ma fa da battistrada con larghissimo margine alla successiva produzione novellistica e dà perciò un segnale genetico. Si tratta infatti di un bozzetto rusticano, sul tema della classica “fuitina” di due giovani innamorati, che – guarda caso – si chiamano Màlia e Jeli. Un omaggio in contemporanea a Capuana e a Verga. Di qui, infatti, si parte. Beato lo scrittore che ha un paese da raccontare. E Pirandello questo paese lo ha, eccome. Un paese, la Sicilia, che è un’isola e un mondo; e in termini più circoscritti, Girgenti e la sua cintura territoriale, talora coperta o allusa da coordinate di una geografia fantastica. Questa è la matrice che impronta l’identità e fornisce persino un senso all’operazione della scrittura. Pirandello è immerso in quella profondità, attraversa fondali della storia e dell’esistenza, a un certo punto si scopre ricco di un bagaglio di valore incalcolabile. La Sicilia è questo immenso giacimento mitico e storico, a cui attinge per esperienza diretta, e poi per privilegio della memoria, collettiva e individuale. E anche quando ne sarà lontano, la cassaforte si renderà accessibile alla sua chiave, nel ciclo dei ritorni personali oppure anche dei racconti degli amici e dei consulenti, guardiani del recinto magico, come il Colapisci della leggenda. Succede per questa via che Girgenti, afflitta da molti mali, si riscatta su altro piano, con una testimonianza artistica strepitosa; e anche dopo Pirandello, per generosità della fonte e per effetto di trascinamento, lungo l’intero Novecento, ribattezzata Agrigento, da luogo marginale e depresso, a tutt’oggi fanalino di coda nelle classifiche nazionali del reddito pro capite, assurge con la sua tradizione sempre rinnovata a vera e propria capitale letteraria. E questo è un miracolo della letteratura.
Per l’ingresso nel labirinto della novellistica di Pirandello può essere utile portare in superficie un suo sentimento fondamentale, legato all’educazione religiosa. Girgenti affonda sotto il controllo di un antico regime bianco, un paese di corvi, cioè – come scrive polemicamente nei Vecchi e i giovani – di preti. Nella novella La Madonnina viene raccontata simbolicamente una conversione, ma una conversione dolorosa, al contrario. La famiglia di Guiduccio vanta tradizioni risorgimentali, il padre è laico, e anzi anticlericale. Un giorno, irritato dal suono delle campane arriva addirittura a spararvi contro, danneggiandone una e sollevando l’indignazione popolare. Il padre Fiorica vorrebbe riportare al gregge la pecorella smarrita, e soprattutto la pecorella giovane, Guiduccio appunto, che è sensibile al richiamo e in effetti potrebbe seguire una strada alternativa a quella del sacrilego genitore. A questo scopo il sacerdote, per zelo e buona propaganda, trucca una riffa e fa in modo che il fanciullo risulti il vincitore di una Madonnina di cera custodita in una campana di cristallo che, secondo il rito, verrà trasferita tra manifestazioni di festa dall’altare alla casa del fortunato. Senonché Guiduccio aveva ceduto le sue polizzine ad altri più bisognosi e non può per conseguenza esser stato sorteggiato senza un imbroglio evidente. Il disinganno è troppo forte e il rifiuto irrimediabile: Guiduccio diserterà per sempre la chiesa.
Novelletta, come è facile intuire, su cui è impossibile costruire una dimostrazione, ma, nella sua debolezza, pur indicativa di un percorso autobiografico. Ci racconta con discrezione di un richiamo infantile, persino di un possibile destino diverso ma, nel concreto, di una delusione storica, insuperabile. Dentro la cultura italiana è la scelta di un isolamento e di un contrasto nei confronti delle istituzioni. Nella Madonnina la polemica è ancora limitata ai ministri del culto, ma la ferita si allarga e sanguina. Pirandello vive tutte le fasi del dubbio tra volontà di emancipazione, rinuncia e sconfitta, umana e troppo umana. Nell’Avemaria di Bobbio il confine tra filosofia, fede, superstizione si presenta strettissimo e mobile. Basta un mal di denti a riaprire la crisi, in un senso o in quello diametralmente opposto. Con altri grandi artisti e filosofi del suo tempo, lo scrittore soffre una condizione di orfanità, un negativo storico, che presuppone e reclama un positivo mitico, all’origine. Nelle pagine di Il vecchio Dio sono espressi liricamente questa nostalgia e questo bisogno di un conforto superiore, in un’epoca dei lumi che sembra aver risolto ogni problema. Mentre la solitudine dell’uomo viene ancor più sanzionata. Il signor Aurelio è un vecchio che è tornato bambino, e in chiesa ci entra, e vi sogna la stagione d’oro delle sue antiche illusioni. Ma il sagrestano lo caccia.
Non c’è dunque nessuna arroganza, semmai una dignità e un desiderio di coerenza per se stessi. Ma ci si muove in un terreno minato. Pirandello non esita a sfogare la sua indignazione contro il mercato degli ideali, contro l’asservimento degli interessi e delle coscienze. Nella Lega disciolta la protesta è così radicale che il personaggio esasperato decide di passare il guado, abbandona la cristianità e si consegna addirittura al campo nemico, facendosi musulmano. Ma soprattutto nel Signore della Nave Pirandello, descrivendo una festa popolare, formula una condanna impressionante contro la barbarie di una cultura superstiziosa, contro l’ipocrisia di una società che in nome della religione e del sacro celebra la violenza. E qui l’antinomia è drastica, tra ragione presunta e bestialità, tra uomo e porco, tra l’uomo che si degrada e l’animale sacrificato che si innalza. E l’ultima novella su questa materia, se non ci si fa fuorviare dalle prescrizioni del genere letterario, è il lapidario testamento dello scrittore, quella sua decisione di escludere funerali solenni e pubblici,e invece di essere ridotto a cenere, da conservarsi possibilmente in un’urna greca dentro un sasso della campagna siciliana. Certo, non evangelicamente una buona novella, ma un messaggio in conclusione, che illumina retrospettivamente sullo spirito tormentato di una ricerca.
La ricognizione in area siciliana si colloca a vario livello. Una tematica storico-sociale che trova in Pirandello un testimone di prima mano, anche per ragioni strettamente biografiche, è quella che costeggia la zolfara. Nell’economia agraria del latifondo, a struttura ancora medievale, la miniera introduce una novità sconvolgente. In un’isola riarsa dal sole, di cui l’Etna è un’icona fondamentale, la zolfara è un corrispettivo di magma senza slancio verso il cielo, è anzi uno sprofondo, un fuoco delle viscere che esaspera il caldo della terra, un Inferno. E coloro che vi lavorano sono i dannati. I villani, avvezzi alla totalità fertile della terra, considerano quelle voragini delle buche del diavolo,e il fumo che fuoriesce il segno di una devastazione in atto, l’inizio di un’epidemia. Il moralismo contadino è, se valutiamo guardando in avanti, una manifestazione elementare di coscienza ecologica, di fronte al drammatico problema dell’inquinamento. Nella novella Il «fumo» protagonista è un proprietario che non vuole cedere alle lusinghe del profitto e resiste, a oltranza, convinto che l’integrità naturale della terra costituisca il valore assoluto. Mala dinamica delle trasformazioni sociali ed economiche, insieme al gioco delle rivalità, arriva a piegare la determinazione dell’individuo. Don Mattia Scala, dunque un altro Mattia dopo Pascal, nonostante una strenua opposizione si risolve alla fine per vendetta contro gli altri e contro gli eventi avversi all’atto irreparabile, distruttivo e autodistruttivo, che nega il senso e la fedeltà di un’esistenza, come un Sansone che accetta di morire con tutti i filistei. Su quella campagna che non sarà mai più come prima, dopo essere stata intatta per secoli, transita don Mattia disperato e trafitto da rimorso, mentre la luna si alza a diffondere la sua luce d’argento sugli ulivi centenari, assorti in un sogno misterioso, ma ormai destinati al veleno delle esalazioni.
Ed ecco il personaggio-tipo, toccato da una vena di pazzia, lucido e insieme delirante, in guerra con il mondo e con se stesso, attore di un rovesciamento,che diventa la cifra dell’umorismo pirandelliano pur in un clima di tragedia. L’altro figlio è una novella di robusto impianto, trascurata dalla critica per quel fondo veristico e ottocentesco che la nega alle elaborazioni sperimentali della nuova fase teorica, ma che conserva il carattere di un passaggio essenziale e rivelativo della nostra storia culturale. Scritta nel 1905, è un documento prezioso per intendere la realtà italiana, in particolare meridionale, dopo l’unificazione politica e nel tornante del secolo. La storia nazionale qui è sottratta all’agiografia letteraria, retoricamente maestra di rimozione. Il testo rompe invece la consegna del silenzio e rappresenta un Sud dilaniato da una forbice: da un lato l’emigrazione, dall’altro il brigantaggio, come risposte delle popolazioni alla crisi dello Stato italiano e valvola di sfogo nella lotta per la sopravvivenza. Lo specifico della vicenda: Maragrazia è una madre che ha perso le pupille dei suoi occhi, due figli emigrati in Sud America da quattordici anni e che da allora non danno più notizie. La madre addolorata non riescea elaborare il lutto e si ostina a spedire lettere ai due scomparsi, che per suo conto scrive Ninfarosa, una vedova bianca del villaggio. Per questo rifiuto della realtà orribile, Maragrazia è emarginata come pazza dalla collettività, la quale è sana in quanto invece vi soggiace. La novella inscena il viaggio come corteo funebre e l’emigrazione come morte sostanziale, nel momento da tragedia greca in cui interi paesi sono svuotati dal grande esodo. La svolta: Maragrazia scopre che la sua scrivana la ingannava, limitandosi a disegnare scarabocchi su quei fogli da lettera ritenuti inutili. Quindi rinasce la speranza di ripristinare la comunicazione. Nel frattempo, il medico che si è impietosito di quel caso viene a sapere che la donna ha un altro figlio. Un figlio che spasima d’amore, ma che lei respinge. Perché? Al tempo della spedizione di Garibaldi,i peggiori delinquenti erano stati rimessi in libertà e, tra questi, un capobanda bestiale e il suo luogotenente, che aveva stuprato la donna, dopo l’uccisione del marito. Il figlio respinto è nato da quella violenza e per giunta assomiglia al padre in maniera impressionante, con una connotazione lombrosiana.
L’altro figlio fu ridotto in atto unico nel 1923, alla vigilia del primo viaggio di Pirandello in America. In questo modo, la lettera della madre poté essere idealmente recapitata; e la colonia dei figli emigrati venne a sapere che la madre-terra non li aveva mai dimenticati.
Alto patetico che pur ha il doppio merito di smentire coraggiosamente una vulgata nazionale di comodo e di stabilire tra le due sponde dell’oceano un ponte, che nei decenni successivi sarà ben poco attraversato.
Il problema della lettera come strada maestra per la letteratura. Nella novella La cattura si affronta di nuovo la piaga del brigantaggio: un piccolo possidente di campagna viene sequestrato, da disgraziati che per scrivere la lettera con la richiesta di riscatto devono ricorrere alla loro vittima. Sono così ignoranti che quando portano gli strumenti per scrivere, non sanno nemmeno che la matita deve avere la punta. Si intravede che il brigantaggio intanto è un prodotto di un’ignoranza disastrosa, che è una forma estrema di povertà; e se ne deducono le responsabilità delle istituzioni latitanti. La novella presenta con struggente efficacia il rovesciamento pirandelliano: nella nudità dell’esistenza, il sequestratore, dovendo provvedere all’alimentazione del recluso, diventa paradossalmente il sequestrato, e viceversa. La vittima, abbandonata dalla comunità familiare, si trasforma in padre e maestro dei suoi persecutori. La ruota della sorte gira e distribuisce a caso le parti.
Ma la zona più vitale e artisticamente realizzata di questo traboccante repertorio novellistico è quella meno ideologica e più esistenziale, legata alla festa contadina, come nel caso di La giara, in cui il conflitto pirandelliano non è assente ma tuttavia sembra rilassarsi in un momento di grazia eccezionale, e legata in genere alla materia antropologica e anche folclorica delle tradizioni popolari. Abbiamo contemplato un’alba lunare in Il «fumo»; e il motivo poetico della luna testimone è ritornante in tante pagine. Tra tutte, un’attenzione particolare in questa breve sintesi meritano Ciàula scopre la luna e Male di luna. La prima ci riporta alla zolfara, richiama il fantasma nobile di Rosso Malpelo. Ma mentre Malpelo è intelligente, in quanto ha imparato la lezione della strada e del burrone, anzi è Malpelo proprio per questo, Ciàula è un mentecatto, una figura zoomorfa. Tra le sue risorse non c’è né violenza da restituire né speranza. Eppure, la sua risalita dagli inferi di animale eliofobico, sino ad ammirare in superficie quel sole della notte che è la luna, rimane come un ultimo e poetico segno di dignità nella memoria. E giustamente il taglio perfetto di questa novella è privilegiato dalle antologie. Più tenebrosa Male di luna, sottopone alla sorpresa del lettore un caso di licantropia, che si manifesta nella forma teatrale di un attacco epilettico. L’ululato alla luna da parte di Batà è un canto complesso: di dolore e protesta, di preghiera e di bestemmia. È anche l’adorazione infelice di un amante in ginocchio davanti al suo sogno irraggiungibile. Il lettore potrà ascoltarlo in un episodio di Kàos, la versione cinematografica dei fratelli Taviani. Pirandello mette mano alla leggenda popolare,arcaica e simbolica, ma la reinterpreta alla sua maniera: l’uomo-lupo,processato dal paese assente per una colpa che è il suo destino, è una creatura mitica, ma soprattutto un caso di scissione di personalità: non ancora uno, nessuno e centomila, ma uno e due, alto e basso corporale, apparenza e sostanza, uomo e bestia.
Al filone demo-antropologico appartengono anche testi noti come La casa del Granella e Il figlio cambiato, che sviluppano tematiche delle credenze e superstizioni popolari sulla frontiera dello spiritismo. Ma se si tenta una sintesi di questa inesausta esplorazione, ci si accorge, passando da una novella all’altra, che Pirandello manifesta una sensibilità particolare a personaggi segnati da uno stigma, e arriva a comporre una straordinaria galleria della diversità nel multiforme teatro della vita. Tra questi umiliati eroi negativi della diversità, spesso comici all’esterno e tragici dentro, basti citare il Chiàrchiaro della Patente, il sado-masochista presunto iettatore che, vittima di una persecuzione, decide di assumere quella maschera e quel ruolo che la comunità ostile gli ha assegnato. E trattando di diversità, non manca nemmeno la figura per eccellenza del diverso: il Catellani-Levi di Un «goj», l’ebreo convertito che subisce a lungo le angherie del suocero fondamentalista cattolico sinché, per rimorso dell’homo judaicus che sonnecchiava in lui e in rivolta, scompagina nella notte di Natale le statuine del presepe rovesciando quelle immagini di pacificazione in un’allegoria del conflitto universale. Qui la contrapposizione ormai è tra mentalità e culture di religioni differenti, nello scenario rovinoso della prima guerra mondiale.
Un «goj» è del 1918 e fuoriesce dall’area siciliana. È ambientato infatti a Roma, e incidentalmente getta uno sguardo nel chiuso dell’aristocrazia nera. Roma è l’altro e il dopo rispetto alla Sicilia, e ovviamente impone allo scrittore uno sforzo, anche stilistico, di familiarizzazione. Una figura ritornante di diversità giovanile è ancora in Il chiodo, ambientata in America, e da questo esito estremo, che conserva tuttavia la ruvidezza di un abbozzo, si può ricavare la difficoltà dello scrittore di identificarsi in un altro contesto.
La radice e lo sradicamento, il lontano e il lontano da dove. Pirandello nella novella Lontano ha tentato di vedere il mondo e la Sicilia stessa dall’altra parte, esattamente dal Nord. Un esercizio arduo di fuoriuscita, per lui che da giovane studente pur aveva avuto l’avventura di studiare a Bonn e che da scrittore celebre sempre più era sollecitato a rimisurare proporzioni e a fare un bilancio. Nella tensione tra la genesi e l’approdo Pirandello si trova solitario e senza bagaglio. Non torna, ma è convinto che chi è rimasto ha più ragione di chi è partito. In Lumie di Sicilia, dentro un racconto di emigrazione breve, dal paesello siciliano a Roma, assomiglia alla cantante che ha tradito, ma si schiera dalla parte di Micuccio glorioso di nient’altro che della sua fedeltà e delle sue lumìe.
Ma è nel Capretto nero che questa dialettica si carica di implicazioni e di contraddizioni insanabili e paralizzanti. Quale il rapporto tra il gentile capretto nero e la bestia disgustosa che ne deriva? Il passato, l’infanzia, quella Sicilia che è la metafora della terra di ciascuno, sono davvero quelli vissuti nel tempo dell’ingenuità e dell’illusione, oppure rivisitati con occhio critico rivelano una fisionomia differente e incompatibile? E se sì, bisogna procurare il disinganno o prolungare l’illusione consolatoria? Interrogativi che mettono in discussione i fondamenti di una vita e delegano una risposta possibile proprio alla scrittura. Del resto, la prospettiva sempre più tentante e panoramica è quella “inattuale”, come si può desumere da un testo quale Rimedio: la Geografia.
Lui stesso nel labirinto, Pirandello sfoga il suo bisogno di libertà imboccando strade già percorse, con variazioni negli ambienti della piccola e media borghesia,e cercandone di nuove, mentre la corrosiva maturità intellettuale confligge con la spinta originaria. In La vita nuda, del 1922, nella cornice romana degli artisti, si concretizza il dramma teorico del rapporto tra vita e forma, simboleggiato nella creazione di una statua, antropomorfica ma inerte, celebrativa e funeraria. E in Quand’ero matto… la struttura narrativa si contamina in sequenze saggistiche, laddove il punto di vista del folle, oggetto di una lunga, intrepida inchiesta, viene rivendicato in prima persona. E sulla traccia di un monologo drammatico, soccorrono i Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me.
A forza di investigare, lo scrittore si sente sotto assedio. I personaggi bussano alla porta, supplici o petulanti. È la Tragedia di un personaggio del 1911, mentre datano al 1915 i Colloquii con i personaggi. Primo personaggio tra tutti, archetipo, la madre, e la madre morta. Fuori la guerra, e dopo la guerra il fascismo. I personaggi come ombre senza corpo si agitano e vengono a perorare il tempo della rivoluzione teatrale.
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La struttura dell’opera, il titolo e il motivo del tempo
da Questioni di forma in “Novelle per un anno”
Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza
La ricercata struttura di Novelle per un anno, alla quale Pirandello lavorò a lungo rivedendo e disponendo in un nuovo ordine racconti precedentemente pubblicati, pur sembrando disponibile a rivelare una chiave, resta sostanzialmente priva di significato. Comprendere i criteri che animano la selezione dei singoli volumi, individuare percorsi al loro interno, tentare accostamenti tematici, ricavare significato dalla contiguità delle vicende narrate, risultano operazioni destinate a stringere il vuoto. L’ordine esteriore, rigido, ripetitivo, resta senza spiegazione. L’autore stesso, nell’Avvertenza all’edizione del 1922, aveva d’altronde scoraggiato l’indagine strutturale:
mi affretto ad avvertire che le novelle di questi ventiquattro volumi non vogliono essere singolarmente né delle stagioni, né dei mesi, né di ciascun giorno dell’anno. Una novella al giorno per tutto un anno, senza che dai giorni, dai mesi o dalle stagioni nessuna abbia tratta la sua qualità.
Come è stato messo in rilievo da Lugnani, la nuova sistemazione dei materiali non segue criteri cronologici o tematici, e, anche se la libera e caotica mescolanza di motivi e situazioni, che l’autore sembra aver perseguito con la massima cura, pare aprirsi occasionalmente all’individuazione di un filone interpretativo o di un accostamento passibile di senso, emergono sempre prove a sostegno di ipotesi interpretative diverse, se non opposte, e si viene così facilmente smentiti, per la presenza di elementi o di interi racconti che vanificano una prospettiva lineare, se non unitaria, di lettura. Sembra che l’autore abbia insomma puntato prevalentemente a questo: suggerire con ogni mezzo strutturale e tematico l’idea dell’unità del significato, per poi rivelarne la vanità e l’irrealizzabilità.
Appare evidente che, a spingere l’autore ad un’insistenza, a fini demistificanti, su aspetti legati alla struttura dell’opera, sia stata la consolidata tendenza, nell’ambito della novellistica, a caricare la forma di significato. Ripetutamente, per cogliere la portata dell’operazione di rottura portata avanti da Pirandello, si è fatto ricorso al Decameron, la cui disposizione ordinata, inscritta in una cornice e, in misura consistente, orientata verso un fine, pur essendo capace di determinare un canone per intere generazioni di epigoni, si propone all’autore siciliano come un modello da capovolgere, da svuotare di significato. Se Boccaccio rivela, anche attraverso una scelta strutturale – lo scorrere ordinato dei giorni in una prospettiva di crescita umana, o almeno di mantenimento di quelle virtù che il contatto con la peste e il conseguente prevalere dell’interesse particolare potrebbero pregiudicare – di possedere una visione del mondo, di cui il dominio della materia è conseguenza, Pirandello, pur suggerendo attraverso il titolo una prospettiva cronologica – e quindi un possibile percorso e di crescita – elude ogni ricerca in tale direzione attraverso una disposizione dei materiali che sembra studiata appositamente per frustrarla. Così, l’accostamento casuale e caotico di un materiale eterogeneo, l’assenza di ogni spessore temporale, di senso del passato che reclude Novelle per un anno in un eterno, soffocante presente, rivela il carattere cangiante e plurimo del “sistema” pirandelliano, e il suo conseguente vanificare ogni prospettiva unitaria di spiegazione, ideologica o semplicemente comportamentale.
Il modello formale che Boccaccio ha dato alla novellistica, bastato su una ordinata collocazione temporale, geometrica dei materiali narrativi, è insomma recuperato, ma al solo fine di una sua negazione. In Novelle per un anno la disposizione determinata da un criterio numerico non rivela così controllo e ordine; la dimensione temporale suggerita dal titolo non riesce a farsi storia, processo, e il susseguirsi caotico di fatti, parole e idee resta fine a se stesso, e mai viene inserito in una prospettiva più ampia, che ne riscatti l’assoluta vanità.
La novella che chiude l’ultimo volume, Una giornata, sembra proporre al lettore una riflessione conclusiva sul motivo della temporalità. Una giornata rappresenta l’unica eccezione alla legge che vuole il titolo del volume ricavato dalla prima novella; non sappiamo se ciò sia riconducibile alla volontà dell’autore – il vol. XV, come già accennato è stato pubblicato postumo nel 1937 – ma è indubbio che la posizione forte, strategica direi, del testo ne suggerisce una lettura che ne metta in adeguato rilievo il carattere programmatico e filosofico. La giornata che ci viene presentata è quella di un uomo che, lacerato dal bisogno di capire, vive una esperienza di totale e frustrante estraneità: davanti agli altri che lo salutano ma che lui non riconosce, nei confronti di spazi e ambienti che nulla per lui rappresentano, nei confronti di se stesso, di cui lo specchio offre al protagonista un’immagine sconosciuta, verso i figli, che crescono e diventano vecchi sotto i suoi occhi. Il tempo non è più una categoria propria dell’uomo: lo scialo delle ore, nonostante il disperato tendere verso una conoscenza, resta incomprensibile e privo di riscatto, una totale e irriducibile estraneità segna la vita. E tale idea della temporalità permea l’intera opera, il cui squadernare una caotica galleria di fatti, dolorosamente irriducibili a un senso, per un intero, ipotetico “anno” di letture, non costituisce che l’estensione a sistema dell’esperienza del protagonista di Una giornata.
Rispetto al modello decameroniano, scompare comprensibilmente anche la cornice, e con essa l’idea di un luogo estraneo alla modernità, in cui sono ancora possibili comunicazione linguistica e condivisione dell’esperienza, condizioni e, nello stesso tempo, obbiettivi dell’interscambio narrativo. In definitiva, anche l’allusione pirandelliana alla compiutezza, secondo cui le novelle in “tanti piccoli specchi riflettono [la vita] intera”, sembra rivelare non un dominio della materia e la consapevolezza di una possibile spiegazione – una lettura dell’opera in tale direzione risulterebbe frustrata – bensì una semplice sommatoria di fatti triti e di solitudini umane, il cui denso susseguirsi è premessa di un risultato quantitativo che mai viene armonizzato e ricondotto a vera unità.
Premessa informativa
Nel 1922, quando uscì Scialle nero, come primo di quelli che dovevano essere, nelle intenzioni, i ventiquattro volumi di Novelle per un anno, Pirandello volle farlo precedere da un’«Avvertenza», che ritenne tanto importante da ripubblicarla nei successivi dodici volumi, fino alla raccolta Candelora del 1928.
Lo spirito unitario, che doveva aver presieduto alla programmazione della silloge, vi risulta espresso esplicitamente dall’autore, che addirittura afferma: «Avrei desiderato che tutt’intera la raccolta fosse contenuta in un volume solo». Fu, invece, costretto, per esigenze editoriali, ad accettarne la suddivisione in ventiquattro libri, ciascuno dei quali avrebbe dovuto contenere quindici novelle. Potè pubblicarne soltanto quattordici, il quindicesimo è uscito postumo.
A quei quindici volumi s’è poi aggiunta, come sedicesimo, l’Appendice; essa comprende le novelle non incluse dall’autore nei primi quattordici volumi, né inserite dai curatori, subito dopo la sua morte, nella raccolta Una giornata, oltre alle novelle ritrovate da Manlio Lo Vecchio Musti nella ricerca effetuata per incarico della Mondadori sui periodici ai quali Pirandello collaborava abitualmente. In complesso l’Appendice (edizione «I Meridiani») è composta di ventisei novelle. E poiché la raccolta II vecchio Dio ne contiene dodici invece che quindici, e la raccolta Berecche e la guerra soltanto otto, l’intero corpo delle Novelle per un anno raggiunge il numero di duecentoquarantuno racconti, che è comunque un traguardo da primato nel quadro della novellistica italiana.
C’è da chiedersi come mai Pirandello abbia concepito e incominciato a realizzare nel 1922 un così vasto disegno (prevedeva per lo meno trecentosessanta racconti) proprio mentre la sua attività teatrale era tanto intensa: dal 1922 al 1928 corre, tra l’altro, il periodo delle rielaborazioni dei suoi drammi. Già la sua esigenza di proporre in maniera unitaria il teatro lo aveva indotto nel 1918 a mettere insieme undici commedie in un’unica raccolta dal titolo Maschere nude. Anche per la silloge dei racconti non si trattava soltanto di raccogliere novelle già pubblicate. L’autore precisa nell’«Avvertenza»: «Ogni volume ne conterrà non poche nuove, e di quelle già edite alcune sono state rifatte da cima a fondo, altre rifuse e ritoccate qua e là, e tutte insomma rielaborate con lunga e amorosa cura».
Era dunque un programma molto impegnativo e anche un atto di fede nella narrativa e nelle proprie capacità inventive per raggiungere il traguardo fissato, mentre era incalzato dal successo delle sue commedie in Italia e all’estero.
Forse la ragione di tanta cura e di tanto amore per le sue novelle è che in esse, riunite «in un sol corpo», vede riflessa finalmente «intera», come in tanti specchi, la sua visione del mondo. Lo dice, nel periodo finale dell’«Avvertenza»: nell’atto di scusarsi con i lettori, l’autore esprime la speranza che «vorranno usargli venia, se dalla concezione ch’egli ebbe del mondo e della vita troppa amarezza e scarsa gioja avranno e vedranno in questi tanti piccoli specchi che la riflettono tutta».
Ma non si può fare a meno di pensare anche ad un’altra ragione che lo teneva legato alle sue novelle: in esse poteva esprimere direttamente pensieri e sentimenti, dare rapida e compiuta misura alle sue invenzioni e alle sue intuizioni, senza la temuta mediazione di attori e registi che potevano travisarli. Era questo per luì un vero problema.
Renato Barilli ( R. Barrili, Pirandello, una rivoluzione culturale?, Milano, Mursia, 1986, pp. 145 ss. ) ha intitolato La resistenza alla chiamata un capitolo sul ritardo di Pirandello a rispondere in pieno alla sua vocazione di drammaturgo rinviata fin oltre la soglia dei quarant’anni. Tra le ragioni che ponevano ostacoli al suo nativo talento teatrale è questo assillo del rapporto fra autore, personaggi, attori, capocomico, spettatori che turbava la sua coscienza fino a farlo decidere d’approfondirlo in tutti i possibili casi di contrasto. E significativo che Pirandello per la mondadoriana terza edizione di Maschere nude, di cui potè seguire dal 1933 al 1936 i primi sei volumi, e che rappresenta l’unitaria raccolta dei suoi drammi, abbia voluto in apertura proprio la «Trilogia del teatro nel teatro» che quei contrasti ha saputo efficacemente tradurre in drammatica rappresentazione.
Il teatro, si sa, lievitava in tutta la sua opera narrativa, in particolare nelle novelle che forniranno soggetti e spunti a molti suoi drammi. I personaggi delle sue storie parlano informa diretta, talora interloquiscono con il lettore, proclamano le loro verità e le loro pene quasi emergendo da uno scenario. Questo modo di far teatro indirettamente, di dar vita quasi ad un teatro raccontato, privo di filtri estranei doveva essere per lui stimolo a una creazione vivace e libera in cui trovare appagamento, se vi si è adagiato a lungo in maniera quasi esclusiva e se non ha voluto più distaccarsene quando il teatro era diventato la sua principale occupazione. Una lettura attenta delle Novelle per un anno consente di spaziare nel vasto universo pirandelliano che vi si specchia per intero, come lo stesso autore afferma. E di cogliere punti di riferimento a commedie e romanzi, che forniscono una più compiuta conoscenza del nostro grande scrittore.
Ogni libro, in questa edizione, viene presentato con introduzioni che precisano le date di pubblicazione di ciascuna novella, in ordine rigorosamente cronologico, e le notizie sull’eventuale sviluppo teatrale. In questo modo abbiamo inteso facilitare il lettore a collocare nel tempo i «piccoli specchi» della concezione pirandelliana del mondo e della vita perché possano vederla con chiarezza, senza anacronistici sviamenti, e per aiutarlo in eventuali ricerche sul processo delle esperienze poetiche e intellettuali di un così alto interprete della coscienza contemporanea.
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