Non è una cosa seria – Audio lettura

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Legge Lisa Caputo
«Perazzetti non era uomo volgare; anzi dichiarava d’avere una stima altissima dell’umanità, di tutto quanto essa, a dispetto della bestia originaria, ha saputo fare; ma Perazzetti non riusciva a dimenticare che l’uomo, il quale è stato capace di crear tante bellezze, è pure una bestia che mangia»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 7 gennaio 1910. Breve novella che riprende la situazione centrale di La signora Speranza, poi in La giara, Bemporad, Firenze 1928.

Non è una cosa seria
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Non è una cosa seria

Legge Lisa Caputo

Da LibriVox.org

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             Perazzetti? No. Quello poi era un genere particolare.

             Le diceva serio serio, che non pareva nemmeno lui, guardandosi le unghie adunche lunghissime, di cui aveva la cura più meticolosa.

             È vero che poi, tutt’a un tratto, senz’alcuna ragione apparente… un’anatra, ecco, tal’e quale! scoppiava in certe risate, che parevano il verso di un’anatra; e ci guazzava dentro, proprio come un’anatra.

             Moltissimi trovavano appunto in queste risate la prova più lampante della pazzia di Perazzetti. Nel vederlo torcere con le lagrime agli occhi, gli amici gli domandavano:

             –    Ma perché? E lui:

             –    Niente. Non ve lo posso dire.

             A veder ridere uno così, senza che voglia dirne la ragione, si resta sconcertati, con un certo viso da scemi si resta e una certa irritazione in corpo, che nei così detti «urtati di nervi» può diventar facilmente stizza feroce e voglia di sgraffiare.

             Non potendo sgraffiare, i così detti «urtati di nervi» (che sono poi tanti, oggidì) si scrollavano rabbiosamente e dicevano di Perazzetti:

             – E pazzo!

             Se Perazzetti, invece, avesse detto loro la ragione di quel suo anatrare… Ma non la poteva dire, spesso, Perazzetti; veramente non la poteva dire.

             Aveva una fantasia mobilissima e quanto mai capricciosa, la quale, alla vista della gente, si sbizzarriva a destargli dentro, senza ch’egli lo volesse, le più stravaganti immagini e guizzi di comicissimi aspetti inesprimibili; a scoprirgli d’un subito certe strane, riposte analogie, a rappresentargli improvvisamente certi contrasti così grotteschi e buffi, che la risata gli scattava irrefrenabile.

             Come comunicare altrui il giuoco istantaneo di queste fuggevoli immagini impensate?

             Sapeva bene Perazzetti, per propria esperienza, quanto in ogni uomo il fondo dell’essere sia diverso dalle fittizie interpretazioni che ciascuno se ne dà spontaneamente, o per inconscia finzione, per quel bisogno di crederci o d’esser creduti diversi da quel che siamo, o per imitazione degli altri, o per le necessità e le convenienze sociali.

             Su questo fondo dell’essere egli aveva fatto studii particolari. Lo chiamava l’«antro della bestia». E intendeva della bestia originaria acquattata dentro a ciascuno di noi, sotto tutti gli strati di coscienza, che gli si sono a mano a mano sovrapposti con gli anni.

             L’uomo, diceva Perazzetti, a toccarlo, a solleticarlo in questo o in quello strato, risponde con inchini, con sorrisi, porge la mano, dice buon giorno e buona sera, dà magari in prestito cento lire; ma guai ad andarlo a stuzzicare laggiù, nell’antro della bestia: scappa fuori il ladro, il farabutto, l’assassino. E vero che, dopo tanti secoli di civiltà, molti nel loro antro ospitano ormai una bestia troppo mortificata: un porco, per esempio, che si dice ogni sera il rosario.

             In trattoria, Perazzetti studiava le impazienze raffrenate degli avventori. Fuori, la creanza; dentro, l’asino che voleva subito la biada. E si divertiva un mondo a immaginare tutte le razze di bestie rintanate negli antri degli uomini di sua conoscenza: quello aveva certo dentro un formichiere e quello un porcospino e quell’altro un pollo d’India, e così via.

             Spesso però le risate di Perazzetti avevano una ragione, dirò così, più costante; e questa davvero non era da spiattellare, là, a tutti; ma da confidare, se mai, in un orecchio pian piano a qualcuno. Confidata così, vi assicuro che promoveva inevitabilmente il più fragoroso scoppio di risa. La confidò una volta a un amico, presso al quale gli premeva di non passare per matto.

             Io non posso dirvela forte; posso accennarvela appena; voi cercate d’intenderla a volo, giacché, detta forte, rischierebbe, tra l’altro, di parere una sconcezza e non è.

             Perazzetti non era uomo volgare; anzi dichiarava d’avere una stima altissima dell’umanità, di tutto quanto essa, a dispetto della bestia originaria, ha saputo fare; ma Perazzetti non riusciva a dimenticare che l’uomo, il quale è stato capace di crear tante bellezze, è pure una bestia che mangia, e che mangiando, è costretto per conseguenza a obbedire ogni giorno a certe intime necessità naturali, che certamente non gli fanno onore.

             Vedendo un pover’uomo, una povera donna in atto umile e dimesso, Perazzetti non ci pensava affatto; ma quando invece vedeva certe donne che si davano arie di sentimento, certi uomini tronfii, gravidi di boria, era un disastro: subito, irresistibilmente, gli scattava dentro l’immagine di quelle intime necessità naturali, a cui anch’essi per forza dovevano ogni giorno ubbidire; li vedeva in quell’atto e scoppiava a ridere senza remissione.

             Non c’era nobiltà d’uomo o bellezza di donna, che si potesse salvare da questo disastro nell’immaginazione di Perazzetti; anzi quanto più eterea e ideale gli si presentava una donna, quanto più composto a un’aria di maestà un uomo, tanto più quella maledetta immagine si svegliava in lui all’improvviso.

             Ora, con questo, immaginatevi Perazzetti innamorato.

             E s’innamorava, il disgraziato, s’innamorava con una facilità spaventosa! Non pensava più a nulla, s’intende, finiva d’esser lui, appena innamorato; diventava subito un altro, diventava quel Perazzetti che gli altri volevano, quale amava foggiarselo la donna nelle cui mani era caduto, non solo, ma quale amavano foggiarselo anche i futuri suoceri, i futuri cognati e perfino gli amici di casa della sposa.

             Era stato fidanzato, a dir poco, una ventina di volte. E faceva schiattar dalle risa nel descrivere i tanti Perazzetti ch’egli era stato, uno più stupido e imbecille dell’altro: quello del pappagallo della suocera, quello delle stelle fisse della cognatina, quello dei fagiolini dell’amico non so chi.

             Quando il calore della fiamma, che lo aveva messo per così dire in istato di fusione, cominciava ad attutirsi, ed egli a poco a poco cominciava a rapprendersi nella sua forma consueta e riacquistava coscienza di sé, provava dapprima stupore, sbigottimento nel contemplare la forma che gli avevano dato, la parte che gli avevano fatto rappresentare, lo stato d’imbecillità in cui lo avevano ridotto; poi, guardando la sposa, guardando la suocera, guardando il suocero, ricominciavano le terribili risate, e doveva scappare – non c’era via di mezzo – doveva scappare.

             Ma il guajo era questo, che non volevano più lasciarlo scappare. Era un ottimo giovine, Perazzetti, agiato, simpaticissimo: quel che si dice un partito invidiabile.

             I drammi attraversati in quei suoi venti e più fidanzamenti, a raccoglierli in un libro, narrati da lui, formerebbero una delle più esilaranti letture dei giorni nostri. Ma quelle che per i lettori sarebbero risa, sono state pur troppo lagrime, lagrime vere per il povero Perazzetti, e rabbie e angosce e disperazione.

             Ogni volta egli prometteva e giurava a se stesso di non ricascarci più; si proponeva di escogitare qualche rimedio eroico, che gl’impedisse d’innamorarsi di nuovo. Ma che! Ci ricascava poco dopo, e sempre peggio di prima.

             Un giorno, finalmente, scoppiò come una bomba la notizia, ch’egli aveva sposato. E aveva sposato nientemeno… Ma no, nessuno in prima ci volle credere! Pazzie ne aveva fatte Perazzetti d’ogni genere; ma che potesse arrivare fino a tal punto, fino a legarsi per tutta la vita con una donna come quella.

             Legarsi? Quando a uno dei tanti amici, andato a trovarlo in casa, gli scappò detto così, per miracolo Perazzetti non se lo mangiò.

             – Legarsi? come legarsi? perché legarsi? Stupidi, scemi, imbecilli tutti quanti! Legarsi? Chi l’ha detto? Ti sembro legato? Vieni, entra qua… Questo è il mio solito letto, sì o no? Ti sembra un letto a due? Ehi, Celestino! Celestino!

             Celestino era il suo vecchio servo fidato.

             –   Di’, Celestino. Vengo ogni sera a dormire qua, solo?

             –   Sissignore, solo.

             –   Ogni sera?

             –   Ogni sera.

             –   Dove mangio?

             –   Di là.

             –   Con chi mangio?

             –   Solo.

             –   Mi fai tu da mangiare?

             –   Io, sissignore.

             –   E sono sempre lo stesso Perazzetti?

             –   Sempre lo stesso, sissignore.

             Mandato via il servo, dopo questo interrogatorio, Perazzetti concluse, aprendo le braccia:

             –    Dunque…

             –    Dunque non è vero? – domandò quello.

             –    Ma sì, vero! verissimo! – rispose Perazzetti. – L’ho sposata! L’ho sposata in chiesa e allo stato civile! Ma che per questo? Ti pare una cosa seria?

             –    No, anzi ridicolissima.

             –    E dunque! – tornò a concludere Perazzetti. – Escimi dai piedi! Avete finito di ridere alle mie spalle! Mi volevate morto, è vero? col cappio sempre alla gola? Basta, basta, cari miei! Ora mi sono liberato per sempre! Ci voleva quest’ultima tempesta, da cui sono uscito vivo per miracolo.

             L’ultima tempesta a cui alludeva Perazzetti era il fidanzamento con la figlia del capodivisione al Ministero delle finanze, commendator Vico Lamanna; e aveva proprio ragione di dire Perazzetti che ne era uscito vivo per miracolo. Gli era toccato di battersi alla spada col fratello di lei, Lino Lamanna; e poiché di Lino egli era amicissimo e sentiva di non aver nulla, proprio nulla contro di lui, s’era lasciato infilzare generosamente come un pollo.

             Pareva quella volta – e ci avrebbe messo chiunque la mano sul fuoco – che il matrimonio dovesse aver luogo. La signorina Ely Lamanna, educata all’inglese – come si poteva conoscere anche dal nome – schietta, franca, solida, bene azzampata (leggi «scarpe all’americana»), era riuscita senza dubbio a salvarsi da quel solito disastro nell’immaginazione di Perazzetti. Qualche risata, sì, gli era scappata guardando il suocero commendatore, che anche con lui stava in aria e gli parlava alle volte con quella sua collosità pomatosa… Ma poi basta. Aveva confidato con garbo alla sposa il perché di quelle risate; ne aveva riso anche lei; e, superato quello scoglio, credeva anche lui, Perazzetti, che quella volta finalmente avrebbe raggiunto il tranquillo porto delle nozze (per modo di dire). La suocera era una buona vecchietta, modesta e taciturna, e Lino, il cognato, pareva fatto apposta per medesimarsi in tutto e per tutto con lui.

             Perazzetti e Lino Lamanna diventarono infatti fin dal primo giorno del fidanzamento due indivisibili. Più che con la sposa si può dire che Perazzetti stava col futuro cognato: escursioni, cacce, passeggiate a cavallo insieme, insieme sul Tevere alla società di canottaggio.

             Tutto poteva immaginarsi, povero Perazzetti, tranne che questa volta il «disastro» dovesse venirgli da questa troppa intimità col futuro cognato, per un altro tiro dell’immaginazione sua morbosa e buffona.

             A un certo punto, egli cominciò a scoprire nella fidanzata una rassomiglianza inquietante col fratello di lei.

             Fu a Livorno, ai bagni, ov’era andato, naturalmente, coi Lamanna.

             Perazzetti aveva veduto tante volte Lino in maglia, alla società di canottaggio; vide ora la sposa in costume da bagno. Notare che Lino aveva veramente un che di femineo, nelle anche.

             Che impressione ebbe Perazzetti dalla scoperta di questa rassomiglianza? Cominciò a sudar freddo, cominciò a provare un ribrezzo invincibile al pensiero d’entrare in intimità coniugale con Ely Lamanna, che somigliava tanto al fratello. Gli si rappresentò subito come mostruosa, quasi contro natura, quella intimità, giacché vedeva il fratello nella fidanzata; e si torceva alla minima carezza ch’ella gli faceva, nel vedersi guardato con occhi ora incitanti e aizzosi, ora che s’illanguidivano nella promessa d’una voluttà sospirata.

             Poteva intanto gridarle Perazzetti:

             – Oh Dio, per carità, smetti! finiamola! Io posso essere amicissimo di Lino, perché non debbo sposarlo; ma non posso più sposar te, perché mi parrebbe di sposare tuo fratello?

             La tortura che soffrì questa volta Perazzetti fu di gran lunga superiore a tutte quelle che aveva sofferto per l’innanzi. Finì con quel colpo di spada, che per miracolo non lo mandò all’altro mondo.

             E appena guarito della ferita, trovò il rimedio eroico che doveva precludergli per sempre la via del matrimonio.

             – Ma come – voi dite – sposando?

             Sicuro! Filomena: quella del cane. Sposando Filomena, quella povera scema che si vedeva ogni sera per via, parata con certi cappellacci carichi di verdura svolazzante, tirata da un barbone nero, che non le lasciava mai il tempo di finir certe sue risatelle assassine alle guardie, ai giovanottini di primo pelo e ai soldati, per la fretta che aveva – maledetto cane – d’arrivare chi sa dove, chi sa a qual remoto angolo bujo…

             In chiesa e allo stato civile la sposò; la tolse dalla strada; le assegnò venti lire al giorno e la spedì lontano, in campagna, col cane.

             Gli amici – come potete figurarvi – non gli dettero più pace per parecchio tempo. Ma Perazzetti era ritornato ormai tranquillo, a dirle serio serio, che non pareva nemmeno lui.

             – Sì, – diceva, guardandosi le unghie. – L’ho sposata. Ma non è una cosa seria. Dormire, dormo solo, in casa mia; mangiare, mangio solo, in casa mia; non la vedo; non mi dà alcun fastidio… Voi dite per il nome? Sì: le ho dato il mio nome. Ma, signori miei, che cosa è un nome? Non è una cosa seria.

             Cose serie, a rigore, non ce n’erano per Perazzetti. Tutto sta nell’importanza che si dà alle cose. Una cosa ridicolissima, a darle importanza, può diventare seriissima, e viceversa, la cosa più seria, ridicolissima. C’è cosa più seria della morte? Eppure, per tanti che non le danno importanza…

             Va bene; ma tra qualche giorno lo volevano vedere gli amici. Chi sa come se ne sarebbe pentito!

             – Bella forza! – rispondeva Perazzetti. – Sicuro che me ne pentirò! Già già comincio a esserne pentito…

             Gli amici, a questa uscita, levavano alte le grida: – Ah! lo vedi?

             – Ma imbecilli, – rimbeccava Perazzetti, – giusto quando me ne pentirò per davvero, risentirò il beneficio del mio rimedio, perché vorrà dire che mi sarò allora innamorato di nuovo, fino al punto di commettere la più grossa delle bestialità: quella di prendere moglie.

             Coro:

             –    Ma se l’hai già presa! Perazzetti:

             –    Quella? Eh via! Quella non è una cosa seria. Conclusione:

             Perazzetti aveva sposato per guardarsi dal pericolo di prendere moglie.

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