Nenè e Ninì – Audio lettura 4

image_pdfvedi in PDF

Legge Giuseppe Tizza
«Sì, perché in fondo, via, era vedovo, ma appena: si poteva dire che quasi non aveva avuto tempo d’essere ammogliato. E quanto ai figliuoli, sì, c’erano, ma non erano suoi.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 31 marzo 1912, poi in La trappola, Treves, Milano 1915.

Nenè e Ninì audiolibro
Paul Seignac (1826–1904), Castagne arrostite

Nenè e Ninì

Legge Giuseppe Tizza

******

             Nené aveva un anno e qualche mese, quando il babbo le morì. Ninì non era ancor nato, ma già c’era: si aspettava.

             Ecco: se Ninì non ci fosse stato, forse la mammina, quantunque bella e giovane, non avrebbe pensato di passare a seconde nozze: si sarebbe dedicata tutta alla piccola Nené. Aveva da campare sul suo, modestamente, nella casetta lasciatale dal marito e col frutto della sua dote.

             Il pensiero d’un maschio da educare, così inesperta come lei stessa si riconosceva e senza guida o consiglio di parenti né prossimi né lontani, la persuase ad accettar la domanda d’un buon giovine, che prometteva d’esser padre affettuoso per i due poveri orfanelli.

             Nené aveva circa tre anni e Ninì uno e mezzo, quando la mammina passò a seconde nozze.

             Forse per il troppo pensiero di Ninì, non badò che si potesse dare il caso d’aver altri figliuoli da questo secondo marito. Ma non trascorse neppure un anno, che si trovò nel rischio mortale d’un parto doppio. I medici domandarono chi si dovesse salvare, se la madre o le creaturine. La madre, s’intende! E le due nuove creaturine furono sacrificate. Il sacrifizio però non valse a nulla, perché, dopo circa un mese di strazii atroci, la povera mammina se ne morì anche lei, disperata.

             Così Nené e Ninì restarono orfani anche di madre, con uno che non sapevano neppure come si chiamasse, né che cosa stesse a rappresentar lì in casa loro.

             Quanto al nome, se Nené e Ninì lo volevano proprio sapere, la risposta era facile: Erminio Del Donzello, si chiamava; ed era professore: professore di francese nelle scuole tecniche. Ma quanto a sapere che cosa stesse più a far lì, ah non lo sapeva nemmeno lui, il professor Del Donzello.

             Morta la moglie, morte prima di nascere le sue creature gemelle: la casa non era sua, la dote non era sua, quei due figliuoli non erano suoi. Che stava più a far lì? Se lo domandava lui stesso. Ma se ne poteva forse andare?

             Lo chiedeva con gli occhi rossi e quasi smarriti nel pianto a tutto il vicinato che, dal momento della disgrazia, gli era entrato in casa, da padrone, costituendosi da sé tutore e protettore de’ due orfanelli. Di che lui, forse, si sarebbe dichiarato gratissimo, se veramente il modo non lo avesse offeso.

             Sì, sapeva che molti, purtroppo, giudicano dall’apparenza soltanto, e che i giudizii che si davano di lui forse erano iniqui addirittura, perché, effettivamente, la figura non lo ajutava troppo. La eccessiva magrezza lo rendeva ispido, e aveva il collo troppo lungo e per di più fornito d’un formidabile pomo d’Adamo, la sola cosa grossa in mezzo a tanta magrezza; e ruvidi i baffi, ruvidi i capelli pettinati a ventaglio dietro gli orecchi; e gli occhi armati di occhiali a staffa, poiché il naso non gli si prestava a reggere un più svelto pajo di lenti. Ma, perdio, da quel suo collo così lungo egli credeva di saper tuttavia cavar fuori una seducentissima voce e accompagnare le sue frasi dolci e gentili con molta grazia di sguardi, di sorrisi e di gesti, con le mani costantemente calzate da guanti di filo di Scozia, che non si levava neanche a scuola, impartendo le sue lezioni di francese ai ragazzini delle tecniche, che naturalmente ne ridevano.

             Ma che! Nessuna pietà, nessuna considerazione per lui, in tutto quel vicinato, per la sua doppia sciagura. Pareva anzi che la morte della moglie e delle sue creaturine gemelle fosse giudicata da tutti come una giusta e ben meritata punizione.

             Tutta la pietà era per i due orfanelli, di cui in astratto si considerava la sorte. Ecco qua: il patrigno, adesso, senza alcun dubbio, avrebbe ripreso moglie: una megera, certo, una tiranna; ne avrebbe avuto chi sa quanti figliuoli, a cui Nené e Ninì sarebbero stati costretti a far da servi, fintanto che, a furia di maltrattamenti, di sevizie, prima l”una e poi l’altro, sarebbero stati soppressi.

             Fremiti di sdegno, brividi d’orrore assalivano a siffatti pensieri uomini e donne del vicinato; e impetuosamente i due piccini, in questa o in quella casa, erano abbracciati e inondati di lagrime.

             Perché il professor Erminio Del Donzello, ora, ogni mattina, prima di recarsi a scuola, per ingraziarsi quel vicinato ostile e dimostrar la cura e la sollecitudine che si dava de’ due orfanelli, dopo averli ben lavati e calzati e vestiti se li prendeva per mano, uno di qua, l’altra di là, e li andava a lasciare ora in questa ora in quella famiglia tra le tante che si erano profferte.

             Era – s’intende – in ciascuna di queste famiglie più delle altre caritatevoli e in pensiero per la sorte dei piccini, almeno una ragazza da marito; e tutte, senza eccezione, queste ragazze da marito sarebbero state mammine svisceratamente amorose di quei due orfanelli; perfida tiranna, spietata megera sarebbe stata solo quell’una, che il professor Erminio Del Donzello avrebbe scelto tra esse.

             Perché era una necessità ineluttabile, che il professor Erminio Del Donzello riprendesse moglie. Se l’aspettava di giorno in giorno tutto il vicinato, e per dir la verità ci pensava sul serio anche lui.

             Poteva forse durare a lungo così? Quelle famiglie si prestavano con tanto zelo di carità ad accogliere i piccini, per adescarlo; non c’era dubbio. Se egli avesse fatto a lungo le viste di non comprenderlo, tra un po’ di tempo gli avrebbero chiuso la porta in faccia; non c’era dubbio neanche su questo. E allora? Poteva forse da solo attendere a quei due piccini? Con la scuola tutte le mattine, le lezioni particolari nelle ore del pomeriggio, la correzione dei compiti tutte le sere… Una serva in casa? Egli era giovine, e caldo, quantunque di fuori non paresse. Una serva vecchia? Ma lui aveva preso moglie perché la vita di scapolo, quell’andare accattando l’amore, non gli era parso più compatibile con la sua età e con la sua dignità di professore. E ora, con quei due piccini…

             No, via: era, era veramente una necessità ineluttabile.

             L’imbarazzo della scelta, intanto, gli cresceva di giorno in giorno, di giorno in giorno lo esasperava sempre più.

             E dire che in principio aveva creduto che dovesse riuscirgli molto difficile trovare una seconda moglie, in quelle condizioni! Gliene bisognava una? Ne aveva trovate subito dieci, dodici, quindici, una più pronta e impaziente dell’altra!

             Sì, perché in fondo, via, era vedovo, ma appena: si poteva dire che quasi non aveva avuto tempo d’essere ammogliato. E quanto ai figliuoli, sì, c’erano, ma non erano suoi. La casa, intanto, fino alla maggiore età di questi, ch’erano ancor tanto piccini, era per lui, e così anche il frutto della dote, il quale insieme col suo stipendio di professore faceva un’entratuccia più che discreta.

             Questo conto se l’erano fatto bene tutte le mamme e le signorine del vicinato. Ma il professor Erminio Del Donzello era certo che si sarebbe attirate addosso tutte le furie dell’inferno, se avesse fatto la scelta in quel vicinato.

             Aveva soprattutto, e con ragione, paura delle suocere. Perché ognuna di quelle mamme disilluse sarebbe certo diventata subito una suocera per lui; tutte quante si sarebbero costituite mamme postume della sua povera moglie defunta, e nonne di quei due orfanelli. E che mamma, che nonna, che suocera sarebbe stata, ad esempio, quella signora Ninfa della casa dirimpetto, che più delle altre gli aveva fatto e seguitava a fargli le più pressanti esibizioni d’ogni servizio, insieme con la figliuola Romilda e il figlio Toto!

             Venivano tutti e tre, quasi ogni mattina, a strappargli di casa i piccini, perché non li conducesse altrove. Via, uno almeno! ne desse loro uno almeno, o Nené o Ninì; meglio Nené, oh cara! ma anche Ninì, oh caro! E baci e chicche e carezze senza fine.

             Il professor Erminio Del Donzello non sapeva come schermirsi; sorrideva, angustiato; si volgeva di qua e di là; si poneva innanzi al petto le mani inguantate; storceva il collo come una cicogna:

             –    Vede, cara signora… carissima signorina… non vorrei che… non vorrei che…

             –    Ma lasci dire, lasci dire, professore! Lei può star sicuro che come stanno da noi, non stanno da nessuno! La mia Romilda ne è pazza, sa? proprio pazza, tanto dell’una quanto dell’altro. E guardi il mio Toto! Eccolo là… A cavalluccio, eh Ninì? Gioja cara, quanto sei bello! To’, caro! to’, amore!

             Il professor Erminio Del Donzello, costretto a cedere, se n’andava come tra le spine, voltandosi a sorridere di qua e di là, quasi a chiedere scusa alle altre vicine.

             Ma nelle ore che lui, sempre coi guanti di filo di Scozia, insegnava il francese ai ragazzi delle scuole tecniche, che scuola facevano quelle vicine là, e segnatamente la signora Ninfa con la figliuola Romilda e il figlio Toto, a Nené e Ninì? che prevenzioni, che sospetti insinuavano nelle loro animucce? e che paure?

             Già Nené, che s’era fatta una bella bamboccetta vispa e tosta, con le fossette alle guance, la boccuccia appuntita, gli occhietti sfavillanti, acuti e furbi, tutta scatti tra risatine nervose, coi capelli neri, irrequieti, sempre davanti agli occhi, per quanto di tratto in tratto se li mandasse via con rapide, rabbiose scrollatine, s’impostava fieramente incontro alle minacce immaginarie, ai maltrattamenti, ai soprusi della futura matrigna, che le vicine le facevano balenare; e, mostrando il piccolo pugno chiuso, gridava:

             – E io l’ammazzo!

             Subito, all’atto, quelle le si precipitavano addosso, se la strappavano, per soffocarla di baci e di carezze.

             – Oh cara! Amore! Angelo! Sì, cara, così! Perché tutto è tuo, sai? La casa è tua, la dote della tua mammina è tua, tua e del tuo fratellino, capisci? E devi difenderlo, tu, il tuo fratellino! E se tu non basti, ci siamo qua noi, a farli stare a dovere, tanto lei che lui, non dubitare, ci siamo qua noi per te e per Ninì!

             Ninì era un badalone grosso grosso, pacioso, con le gambette un po’ a roncolo e la lingua ancora imbrogliata. Quando Nené, la sorellina, levava il pugno e gridava: – E io l’ammazzo! – si voltava piano piano a guardarla e domandava con voce cupa e con placida serenità:

             – L’ammassi davero?

             E, a questa domanda, altri prorompimenti di frenetiche amorevolezze in tutte quelle buone vicine.

             Dei frutti di questa scuola il professor Erminio Del Donzello si accorse bene, allorché, dopo un anno di titubamenti e angosciose perplessità, scelta alla fine una casta zitella attempata, di nome Caterina, nipote d’un curato, la sposò e la portò in casa.

             Quella poverina pareva seguitasse a recitar le orazioni anche quando, con gli occhi bassi, parlava della spesa o del bucato. Pur non di meno, il professor Erminio Del Donzello, ogni mattina, prima d’andare a scuola, le diceva:

             –   Caterina mia, mi raccomando. So, so la tua mansuetudine, cara. Ma procura, per carità, di non dare il minimo incentivo a tutte queste vipere attorno, di schizzar veleno. Fa’ che questi angioletti non gridino e non piangano per nessuna ragione. Mi raccomando.

             Va bene; ma Nené, ecco, aveva i capelli arruffati: non si doveva pettinare? Ninì, mangione, aveva il musetto sporco, e sporchi anche i ginocchi: non si doveva lavare?

             –    Nené, vieni, amorino, che ti pettino. E Nené, pestando un piede:

             –    Non mi voglio pettinare!

             – Ninì, via, vieni tu almeno, caro caro: fa’ vedere alla sorellina come ti fai lavare.

             E Ninì, placido e cupo, imitando goffamente il gesto della sorella:

             – Non mi vollo lavare!

             E se Caterina li costringeva appena, o s’accostava loro col pettine o col catino, strilli che arrivavano al cielo! Subito allora le vicine:

             – Ecco che comincia! Ah, povere creature! Dio di misericordia, senti, senti! Ma che fa? Ih, strappa i capelli alla grande! Senti che schiaffi al piccino! Ah che strazio, Dio, Dio, abbiate pietà di questi due poveri innocenti!

             Se poi Caterina, per non farli strillare, lasciava Nené spettinata e sporco Ninì:

             – Ma guardate qua questi due amorini come sono ridotti: una cagnetta scarduffata e un porcellino !

             Nené, certe mattine, scappava di casa in camicia, a piedi nudi; si metteva a sedere su lo scalino innanzi all’uscio di strada, accavalciando una gambetta su l’altra e squassando la testina per mandarsi via dagli occhi le ciocche ribelli, rideva e annunziava a tutti:

             – Sono castigata!

             Poco dopo, piano piano, scendeva con le gambette a roncolo Ninì, in carnicina e scalzo anche lui, reggendo per il manico l’orinaletto di latta; lo posava accanto alla sorellina, vi si metteva a sedere, e ripeteva serio serio, aggrondato e con la lingua grossa:

             – So’ cattigato!

             Figurarsi attorno le grida di commiserazione e di sdegno delle vicine indignate!

             Eccoli qua, ignudi! ignudi! Che barbarie, con questo freddo! Far morire così d’una bronchite, d’una polmonite due povere creaturine! Come poteva Dio permetter questo? Ah si, di nascosto, è vero? essi, di nascosto, erano scappati dal letto? E perché erano scappati? Segno che i due piccini chi sa com’erano trattati! Ah, già, niente… Gente di chiesa, figuriamoci! Diamo il supplizio senza fare strillare! Oh Dio, ecco le lagrime adesso, ecco le lagrime del coccodrillo !

             Una santa, anche una santa avrebbe perduto la pazienza. Quella povera donna sentiva voltarsi il cuore in petto, non solamente per la crudele ingiustizia, ma anche per lo strazio di veder quella ragazzetta, Nené, così bellina, crescere come una diavola, messa su da quelle perfide pettegole, sguajata, senza rispetto per nessuno.

             –   La casa è mia! La dote è mia!

             Signore Iddio, la dote! Una piccina alta un palmo, che strillava e levava i pugni e pestava i piedi per la dote!

             Il professor Erminio Del Donzello pareva in pochi mesi invecchiato di dieci anni.

             Guardava la povera moglie, che gli piangeva davanti disperata, e non sapeva dirle niente, come non sapeva dir niente a quei due diavoletti scatenati.

             Era inebetito? No. Non parlava, perché si sentiva male. E si sentiva male, perché… perché proprio portavano con sé questo destino, quei due piccini là!

             Il padre era morto; e la mamma, per provvedere a loro, s’era rimaritata ed era morta. Ora… ora toccava a lui.

             N’era profondamente convinto il professor Erminio Del Donzello.

             Toccava a lui!

             Domani, la sua vedova, quella povera Caterina per dare a Nené e a Ninì una guida, un sostegno, sarebbe passata, a sua volta, a seconde nozze, e sarebbe morta lei allora; e a quel secondo marito toccherebbe di riammogliarsi; e così, via via, un’infinita sequela di sostituti genitori sarebbe passata in poco tempo per quella casa.

             La prova evidente era nel fatto, ch’egli si sentiva già molto, molto male.

             Era destino, e non c’era dunque né da fare né da dir nulla.

             La moglie, vedendo che non riusciva in nessun modo a scuoterlo da quella fissazione che lo inebetiva, si recò per consiglio dallo zio curato. Questi, senz’altro, le impose d’obbedire al proprio dovere e alla propria coscienza, senza badare alle proteste infami di tutti quei malvagi. Se con la bontà quei due piccini non si riducevano a ragione, usasse pure la forza!

             Il consiglio fu savio; ma, ahimè, non ebbe altro effetto, che affrettar la fine del povero professore.

             La prima volta che Caterina lo mise in pratica, Erminio Del Donzello, ritornando da scuola, si vide venire con le mani in faccia quel Toto della signora Ninfa seguito da tutte le vicine urlanti con le braccia levate.

             La moglie s’era dovuta asserragliare in casa. E c’erano guardie e carabinieri innanzi alla porta.

             Tutto il vicinato aveva apposto le firme a una protesta da presentare alla Questura per le sevizie che si facevano a quei due angioletti.

             L’onta, la trepidazione per lo scandalo enorme furono tali e tanta la rabbia per quella ostinata, feroce iniquità, che Erminio Del Donzello si ridusse in pochi giorni in fin di vita, per un travaso di bile improvviso e tremendo.

             Prima di chiuder gli occhi per sempre, si chiamò la moglie accanto al letto e con un fil di voce le disse:

             –   Caterina mia, vuoi un mio consiglio? Sposa, sposa quel Toto, cara, della signora Ninfa. Non temere; verrai presto a raggiungermi. E lascia allora che provveda lui, insieme con un’altra, a quei due piccini. Stai pur certa, cara, che morrà presto anche lui.

             Nené e Ninì, intanto, in casa d’una vicina, avevano trovato una gattina mansa e un pappagalletto imbalsamato, e ci giocavano, ignari e felici.

             –   Mao, ti strozzo! – diceva Nené.

             E Ninì, voltandosi, con la lingua imbrogliata: – Lo strossi davero?

Nené e Ninì – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Nené e Ninì – Audio lettura 2 – Legge Enrica Giampieretti
Nené e Ninì – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
Nené e Ninì – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

««« Indice Audio letture

Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com

Shakespeare Italia

image_pdfvedi in PDF
Skip to content