117. Nel gorgo – Novella

image_pdfvedi in PDF
Prime pubblicazioni: Aprutium, luglio-agosto 1913, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914.
«– No! Che rimorso? Non c’è da aver rimorsi, quando non s’è voluta la colpa… Tu non puoi intendere! Come non avrei potuto intenderlo io se, considerando quel che è avvenuto a tuo marito, non avessi pensato al mio!»

Novella dalla Raccolta “Dal naso al cielo” (1925)

Approfondimenti nel sito:
Sezione Teatro – Non si sa come – 1935

««« Introduzione alle novelle

Auf Deutsch – Im Wirbel

Aldo Sterchele, (1930 -2014 ), Nel gorgo, china. Immagine dal Web.

Nel gorgo – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Nel gorgo – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Nel gorgo – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri

14. Nel gorgo – 1913

             Al Circolo della racchetta non si parlò d’altro tutta la sera.

             Il primo a darne l’annunzio fu Respi, Nicolino Respi che n’era profondamente addolorato. Al solito, però, non riusciva a impedire che la commozione gli s’arricciasse sulle labbra in quel sorrisino nervoso che nelle discussioni più gravi, come nei momenti più difficili del giuoco, gli rendeva così caratteristico il visetto pallido, itterico, dai tratti taglienti.

             Gli amici gli si fecero intorno, ansiosi e costernati:

             –    Impazzito davvero?

             –    No, per ischerzo.

             Traldi, sprofondato sul divano con tutto il peso del corpaccio da pachiderma, fece più volte leva con le mani per tirarsi su a sedere più in punta, spalancando nello sforzo gli occhi bovini, venati di sangue, schizzanti dalle orbite. Domandò:

             –    Ma scusa, lo dici..: (ohi ohi…) lo dici, perché ha guardato anche te?

             –    Anche me? guardato? che vuoi dire? – domandò a sua volta, stordito, Nicolino Respi, rivolto agli amici. – Io sono arrivato questa mattina da Milano, e trovo qua questa bella notizia. Non so nulla, e non riesco ancora a comprendere come Romeo Daddi, perdio, il più placido, il più sereno, il più savio di tutti noi…

             –    L’hanno chiuso?

             –    Ma sì, vi dico! Oggi alle tre. Nella casa di salute a Monte Mario.

             –    O povero Daddi!

             –    E donna Bicetta? Ma come… Sarà stata lei, donna Bicetta?

             –    No! Lei, no! Lei, anzi, non voleva assolutamente! È accorso il padre, jeri l’altro, da Firenze.

             –    Ah, per questo…

             –    Già, e l’ha forzata a prender questo partito, anche per lui… Ma ditemi il fatto com’è! Tu, Traldi, perché m’hai domandato se Daddi aveva guardato anche me?

             Carlo Traldi s’era riaffondato beatamente nel divano, col capo buttato indietro, la pappagorgia esposta, paonazza, sudaticcia. Dimenando le gambette esili di ranocchia, che il pancione esorbitante gli faceva tener sempre oscenamente discoste, e umettandosi di continuo le labbra non meno oscenamente, rispose, astratto:

             –    Ah, già… Perché credevo che lo dicessi impazzito per questo.

             –    Come per questo?

             –    Ma sì! La pazzia gli s’è palesata così. Guardava tutti in un certo modo, caro mio… Ragazzi, non mi fate parlare: diteglielo voi come guardava il povero Daddi.

             Gli amici, allora, raccontarono a Nicolino Respi, che il Daddi, ritornato dalla villeggiatura, era apparso a tutti com’intronato, come assente da sé, con un sorriso vano su le labbra e gli occhi opachi, senza sguardo, appena qualcuno lo chiamava. Poi quello stordimento era sparito, s’era cangiato in una fissità acuta, strana. Fissava prima da lontano, obliquo; poi, a mano a mano, còme attirato da certi segni che credeva di scoprire in questo e in quello degli amici più intimi, specie in’coloro che frequentavano più assiduamente la sua casa (segni naturalissimi, perché tutti li infatti erano costernati di quel cangiamento improvviso e straordinario, così in contrasto con la tranquillità serena del suo carattere), a mano a mano s’era messo a spiare più da vicino, e negli ultimi giorni era divenuto addirittura insopportabile. Si parava di fronte ora all’uno “ora all’altro, posava le mani su le spalle e mirava negli occhi, affitto affitto.

             –    Corpo, che spavento! – esclamò a questo punto il Traldi, tirandosi di nuovo su, a sedere più in punta.

             –    Ma perché? – domandò, nervoso, il Respi.

             –    Senti questo, che vuol sapere il perché! – tornò a esclamare il Traldi. – Ah, dici il perché dello spavento? Caro mio, avrei voluto vederti alle prese con quello sguardo! Tu ti cangi la camicia ogni giorno, suppongo; sei sicuro d’avere i piedi puliti e i calzini non spuntati. Ma sei ugualmente sicuro di non aver nulla di sudicio dentro, nella coscienza?

             –    Oh Dio, direi…

             –    Va’ là, che non sei sincero!

             –    E tu sì?

             –    Io sì, ne sono sicurissimo! E credi che avviene a tutti, più o meno, di scoprirci majali in qualche momento di lucido intervallo! Da un pezzo in qua, quasi ogni sera, quando spengo la candela, prima di prender sonno…

             –    Tu invecchi, caro! tu invecchi! – gli gridarono a coro gli amici.

             –    Sarà perché invecchio, – ammise il Traldi. – Tanto peggio! Non è uno spasso prevedere che, alla fine, mi costituirò così, in questa stima di me stesso, di vecchio majale. Del resto, aspetta. Ora che t’ho detto questo, vogliamo fare una prova? Silenzio tutti, vojaltri!

             E Carlo Traldi si levò faticosamente in piedi; posò le mani su le spalle di Nicolino Respi, e gli gridò:

             – Guardami bene negli occhi. No, non ridere, caro! Guardami bene negli occhi… Aspetta! Aspettate… Silenzio…

             Tacquero tutti, intorno, sospesi e intenti a quello strano esperimento.

             Il Traldi coi grossi occhi ovati, venati di sangue, schizzanti dalle orbite, fissava acutissimamente quelli di Nicolino Respi e pareva col lustro maligno dello sguardo, a mano a mano più aguzzo e più intenso, gli frugasse nella coscienza e vi scoprisse nei più intimi nascondigli le cose più turpi e più atroci. A poco a poco, gli occhi di Nicolino Respi – quantunque, sotto, le labbra col solito risolino dicessero: «Via, mi presto a uno scherzo» – cominciarono a smorire, a intorbidarsi, a sfuggire, mentre, tra il silenzio degli amici, il Traldi con voce strana, senza smettere di fissare, senz’allentare d’un punto l’intensità dello sguardo, diceva vittoriosamente:

             –    Ecco… vedi?… vedi?…

             –    Ma va’ là! –! proruppe il Respi, non resistendo più e scrollandosi tutto.

             – Va’ là tu, che ci siamo capiti! – gridò il Traldi. – Tu sei più porco di me! E scoppiò a ridere. Risero anche gli altri, con un senso d’inatteso sollievo. E

             Traldi riprese:

             –   Ora questo è stato uno scherzo. Soltanto per uno scherzo uno di noi può mettersi a guardare un altro così. Perché tanto io quanto tu abbiamo in regola finora, dentro di noi, la macchinetta della civiltà, e lasciamo che la feccia di tutte le nostre azioni, di tutti i nostri pensieri, di tutti i nostri sentimenti ci si posi zitta zitta, di nascosto, in fondo alla coscienza. Ma fa’ che uno, a cui la macchinetta si sia guastata, si metta a guardarti come t’ho guardato io, non più per uno scherzo, ma sul serio, e ti rimuova, senza che te l’aspetti, dal fondo della coscienza tutta la posatura di quella feccia che hai dentro, e sappimi dire se non ti spaventi!

             Carlo Traldi, così dicendo, si mosse di furia per andar via. Tornò indietro e aggiunse:

             –    E sai come mormorava, sotto sotto, il povero Daddi, mirandoti negli occhi? Diteglielo voi, come mormorava! Io debbo scappare.

             –    «Che abisso… che abisso…»

             –    Così?

             –    Sì… che abisso… che abisso…

             Il crocchio, andato via il Traldi, si sciolse, e Nicolino Respi rimase turbato, in compagnia di due soli amici che seguitarono ancora per un pezzo a parlare della sciagura del povero Daddi.

             Circa due mesi fa, egli era andato a visitarlo nella sua villa presso Perugia. Lo aveva trovato tranquillo e sereno come sempre, insieme con la moglie e con un’amica di questa, Gabriella Vanzi, antica compagna di collegio, da poco tempo maritata a un ufficiale di marina, allora in crociera. Si era trattenuto tre giorni in villa, e in quei tre giorni, no, neppure una volta Romeo Daddi lo aveva guardato nel modo che il Traldi aveva detto.

             Se lo avesse guardato…

             Nicolino Respi fu colto da uno smarrimento, come di vertigine, e per appoggiarsi – sorridendo, pallidissimo – finse di volere introdurre confidenzialmente un braccio sotto il braccio d’uno di quei due amici.

             Che era stato? Che dicevano? La tortura? Che tortura? Ah, quella a cui il Daddi aveva sottoposto la moglie…

             –    Dopo eh? – gli scappò detto. E i due si voltarono a guardarlo.

             –    Come dopo?

             –    Ah… no, dicevo… dopo, quando gli si guastò la… la macchinetta.

             –    E sfido! Prima, no di certo!

             –    Perdio, erano un miracolo di concordia coniugale, di pace domestica! Certo qualcosa deve essergli accaduto, in villeggiatura.

             –    Ma sì, per lo meno qualche sospetto gli deve esser nato.

             –    Ma fate il piacere! Su la moglie? – scattò Nicolino Respi. – Questo, se mai, ha potuto essere effetto, non causa della pazzia! Soltanto un pazzo…

             –    D’accordo! d’accordo! – gli gridarono gli amici. – Una moglie come donna Bicetta!

             –    Insospettabile! Ma, d’altra parte…

             Nicolino Respi non potè più prestare ascolto a quei due. Soffocava. Aveva bisogno d’aria, di camminare all’aperto, solo. Prese un pretesto; andò via.

             Un dubbio angoscioso gli s’era insinuato nell’animo e glielo metteva in subbuglio.

             Nessuno meglio di lui poteva sapere che donna Bicetta Daddi era insospettabile. Da più d’un anno egli le aveva dichiarato il suo amore, l’aveva assediata con la sua corte, senza ottenere mai altro che un sorriso dolcissimo di compatimento per le sue pene perdute. Con quella serenità che viene dalla più ferma sicurezza di sé, senza né offendersi né ribellarsi, ella gli aveva dimostrato che sarebbe stata inutile ogni sua insistenza, poiché lei era innamorata tal quale, come lui, forse più di lui, ma di suo marito. Così essendo, se egli veramente la amava, doveva intendere che ella non avrebbe potuto in alcun modo venir meno al suo amore. Se questo non intendeva, era segno che non la amava. E allora?

             Ha talvolta l’acqua marina, in certi lidi solinghi, una limpidità così tersa e trasparente che, per quanto desiderio si abbia di immergersi in essa per averne il ristoro più delizioso, si prova quasi un sacro ritegno a intorbidarla.

             Questa impressione di limpidità e questo ritegno aveva provato sempre Nicolino Respi, accostandosi all’anima di donna Bicetta Daddi. Amava la vita, questa donna, d’un così quieto, attento e dolce amore! Solo in quei tre giorni trascorsi nella villa di lei presso Perugia, sopraffatto dal desiderio ardentissimo, aveva sforzato quel ritegno, aveva intorbidato quella limpidità, ed era stato duramente respinto.

             Ora il dubbio angoscioso era questo: che forse il turbamento, ch’egli le aveva cagionato in quei tre giorni, non s’era sedato dopo la sua partenza; era forse cresciuto così, che il marito se n’era accorto. Certamente, all’arrivo di lui nella villa, Romeo Daddi era sereno; e, dopo la partenza, in pochi giorni, era impazzito.

             Dunque, per lui? Dunque ella era rimasta profondamente turbata e vinta dalla sua aggressione amorosa?

             Ma sì, ma sì, come dubitarne?

             Tutta la notte Nicolino Respi si dibatté, si torse tra fiere smanie, ora strappato al rimorso da una maligna gioja impetuosa, ora strappato a questa gioja dal rimorso.

             La mattina seguente, appena gli parve l’ora opportuna, corse alla casa di donna Bicetta Daddi. Bisognava che la vedesse; bisognava che chiarisse subito, comunque, quel suo dubbio. Forse ella non lo avrebbe ricevuto; ma, a ogni modo, egli voleva presentarsi alla casa di lei, pronto ad affrontare o a subire tutte le conseguenze di quella situazione.

             Donna Bicetta Daddi non era in casa.

             Da un’ora, senza volerlo, senza saperlo, ella infliggeva il più crudele dei martini alla sua amica Gabriella Vanzi, a colei che era stata per tre mesi sua ospite in villa.

             Era andata da lei per cercare insieme, non la ragione, ahimè, ma il pretesto, l’incentivo almeno, di quella sua sciagura, là, nel tempo in cui s’era dapprima manifestata, durante quella villeggiatura, negli ultimi giorni di essa. Ella, per quanto avesse cercato, non riusciva a scoprir nulla.

             Da un’ora si ostinava a rievocare, a ricostruire, minuto per minuto, quegli ultimi giorni.

             –   Ti ricordi questo? Ti ricordi ch’egli la mattina scese in giardino senza prendere il suo cappellaccio di tela, e che chiamò per averlo buttato dalla finestra, e poi risalì, ridendo, con quel fascio di rose? Ti ricordi che volle ne portassi due con me; che poi m’accompagnò fino al cancello e m’ajutò a salire su l’automobile e mi disse che gli portassi da Perugia quei libri… aspetta… uno era… non so… trattava di sementi… ti ricordi? ti ricordi?

             Smarrita nell’affanno di quella rievocazione di tanti minuziosi particolari senza valore, non s’accorgeva dell’angoscia, dell’agitazione a mano a mano crescenti dell’amica.

             Già aveva rievocato, senza il minimo segno di turbamento, i tre giorni passati in villa da Nicolino Respi, e non s’era fermata neanche un minuto a considerare che il marito avesse potuto trovare un incentivo alla sua pazzia nella corte innocua di colui. Non era ammissibile. Era stato argomento di riso, fra loro tre, quella corte, dopo la partenza del Respi per Milano. Come supporlo? E poi, dopo quella partenza, egli, il marito, non era forse rimasto per più di quindici giorni tranquillo, sereno come prima?

             No, mai, neppure il minimo accenno del più lontano sospetto! In sette anni di matrimonio, mai! Come, dove avrebbe potuto trovare il pretesto? Ed ecco che, tutt’a un tratto, lì, nella pace di quella campagna, senza che nulla fosse accaduto…

             – Ah, Gabriella, Gabriella mia, credi, impazzisco, impazzisco anch’io. All’improvviso, riavendosi da questa crisi di disperazione, donna Bicetta

             Daddi, nel rialzare gli occhi lacrimosi in volto all’amica, scoprì che questa s’era lividamente indurita, come un cadavere, per resistere a uno spasimo insopportabile, e ansava con le nari dilatate, e la guatava con occhi cattivi. Oh Dio! Quasi con gli stessi occhi, con cui negli ultimi giorni s’era messo a guardarla suo marito. Si sentì raggelare, ne provò quasi terrore.

             – Perché… anche tu… perché… – balbettò tremante, – perché mi guardi anche tu… così?

             Gabriella Vanzi fece uno sforzo atroce per scomporre l’espressione, assunta a sua insaputa, in un sorriso benigno, di compatimento:

             – Io… ti guardo?… No… pensavo… Ecco, volevo dirti… sì, lo so, tu sei sicura di te… non hai nulla… tu… proprio nulla… nulla da rimproverarti?

             Donna Bicetta Daddi trasecolò: con gli occhi sbarrati, le mani su le guance, gridò:

             – Ma come?… ma tu mi dici adesso… anche le sue parole?… Come?… come puoi?…

             Il volto di Gabriella Vanzi si contraffece, gli occhi le s’invetrarono: – Io?

             – Tu, sì. Oh Dio… e ti smarrisci come lui… Che vuol dire? che vuol dire? Non aveva finito di gemere così, sentendosi come sprofondare a poco a

             poco, che si trovò tra le braccia, sul petto, l’amica.

             –    Bice… Bice… tu sospetti di me?… tu sei venuta qua, perché hai sospettato di me, è vero?

             –    No… no… ti giuro, Gabriella… no… Solo ora…

             –    Ora, è vero? sì… Ma hai torto, hai torto, Bice… perché tu non puoi capire…

             –    Che è stato?… Gabriella, su, dimmi, che è stato?

             –    Non puoi capire… non puoi capire… Io so la ragione perché tuo marito è impazzito… la so!

             –    La ragione? Che ragione?

             –    La so, perché è in me, anche in me, questa ragione d’impazzire… per quello che è avvenuto a noi due!

             –    A voi due?

             –    Sì… sì… a me e a tuo marito.

             –    Ah, dunque?

             –    No, no! Non come tu immagini! Tu non puoi capire… Senz’inganno, senza pensarlo né volerlo… in un attimo… Una cosa orribile, di cui nessuno può farsi colpa. Vedi come te ne parlo? come te lo posso dire? Perché io non ho colpa! E neanche lui! Ma appunto per questo… Senti, senti; e quando avrai saputo tutto, forse impazzirai anche tu, come sto per impazzire io, com’è impazzito lui… Senti! Tu hai rievocato il giorno che andasti a Perugia, in automobile, dalla villa, è vero? ch’egli ti diede due rose e ti disse dei libri…

             –    Sì.

             –    Ebbene: fu quella mattina!

             –    Che cosa?

             –    Tutto quello che è accaduto. Tutto e nulla… Lasciami dire, per carità! Faceva gran caldo, ti ricordi? Dopo averti veduta partire, io e lui riattraversammo il giardino… Il sole bruciava e lo stridio delle cicale stordiva… Rientrammo in villa: ci ponemmo a sedere nel salottino, accanto alla sala da pranzo. Le persiane erano serrate; gli scuri, accostati: era quasi bujo, là dentro; e la frescura immobile… (ti dico adesso la mia impressione, l’unica che potei avere, di cui mi ricordi, e mi ricorderò sempre; ma l’ebbe forse anche lui, identica… dovette averla, perché altrimenti non mi spiegherei più nulla!); fu quella frescura immobile, dopo tutto quel sole e quello stordimento delle cicale… In un attimo, senza pensarci, te lo giuro! mai, mai, né io né lui, certo… come per un’attrazione irresistibile di quel vuoto attonito, della frescura deliziosa di quella semioscurità… Bice, Bice… così, te lo giuro, in un attimo…

             Donna Bicetta Daddi scattò in piedi, sospinta da un impeto d’odio e di sdegno:

             –    Ah, per questo? – fischiò fra i denti, addietrando felinamente.

             –    No! non per questo! – le gridò Gabriella Vanzi, protendendo verso di lei le braccia in atto supplice e disperato. – Non per questo, non per questo, Bice! Tuo marito è impazzito per te, per te, non per me!

             –    E impazzito per me? Che vuoi dire? Per rimorso?

             –    No! Che rimorso? Non c’è da aver rimorsi, quando non s’è voluta la colpa… Tu non puoi intendere! Come non avrei potuto intenderlo io se, considerando quel che è avvenuto a tuo marito, non avessi pensato al mio! Sì, sì, io comprendo ora la pazzia di tuo marito, perché penso al mio, che impazzirebbe allo stesso modo, se gli accadesse quel che è accaduto al tuo, con me! Senza rimorso! Senza rimorso! E appunto perché senza rimorso… Capisci? È questa la cosa orribile. Non so come fartela intendere! Io la intendo, ripeto, soltanto se penso a mio marito e vedo me, così senza rimorso d’una colpa che non ho voluto commettere. Vedi come posso parlartene, senza arrossire? Perché io non so, Bice, non so proprio come sia tuo marito; com’egli certo non sa, non può sapere come sia io… E stato come un gorgo, capisci? come un gorgo, che si è aperto tra noi all’improvviso senz’alcun sospetto, e ci ha afferrati e travolti in un attimo, e subito s’è richiuso, senza lasciar di sé la minima traccia! Subito dopo, la coscienza nostra è tornata limpida e uguale. Noi non abbiamo pensato più, neppure per un istante, a ciò ch’era accaduto tra noi; il nostro turbamento è stato momentaneo; siamo scappati uno di qua, uno di là; ma appena soli, niente, come se nulla fosse stato: non solo innanzi a te, quando poco dopo sei ritornata in villa, ma anche innanzi a noi stessi. Ci siamo potuti guardare negli occhi e parlarci, come prima, tal quale, perché non era più in noi, ti giuro, alcun vestigio di ciò ch’era stato; nulla, nulla, neppure un’ombra di ricordo, neppure un’ombra di desiderio, nulla! Finito tutto. Sparito. Il segreto d’un attimo, sepolto per sempre. Ebbene, questo ha fatto impazzire tuo marito. Non la colpa, che nessuno di noi due ha pensato di commettere! Ma questo: il poter pensare che questo può accadere: che una donna onesta, innamorata di suo marito in un attimo, senza volerlo, per un improvviso agguato dei sensi, per la complicità misteriosa dell’ora, del luogo, cada nelle braccia d’un uomo; e, un minuto dopo, sia tutto finito, per sempre; richiuso il gorgo; sepolto il segreto; nessun rimorso; nessun turbamento; nessuno sforzo per mentire di fronte agli altri, di fronte a noi stessi. Ha aspettato un giorno, due, tre; non s’è sentito rimuover nulla dentro, né in tua presenza, né alla presenza mia; ha visto me, ritornata qual ero prima, tal quale, con te, con lui; ha veduto poco dopo, ti ricordi? arrivare in villa mio marito; ha veduto com’io l’ho accolto, con quale ansia, con quale amore… e allora l’abisso, in cui il nostro segreto era sprofondato per sempre, senza lasciar la minima traccia, lo ha attratto a poco a poco e gli ha travolto la ragione. Ha pensato a te; ha pensato che forse anche tu…

             –    Anch’io?

             –    Ah, Bice, non ti sarà mai accaduto, ti credo, Bice mia! Ma noi, io e lui, sappiamo per prova che può accadere, e che, come è stato possibile a noi, senza volerlo, può essere a chiunque! Avrà pensato che qualche volta, ritornando a casa, ti avrà trovata sola, in salotto, con qualche suo amico, e che in un attimo sarà potuto accadere a te, e a quel suo amico, ciò ch’era potuto accadere a me e a lui, allo stesso modo; che tu potessi chiudere in te, senz’alcuna tracciale nascondere senza mentire quello stesso segreto, ch’io chiudevo in me e nascondevo senza mentire a mio marito. E appena questo pensiero gli è entrato in mente, un bruciore sottile, acuto, ha cominciato a mordergli il cervello, nel vederti aliena, lieta, amorosa, con lui, com’io ero con mio marito; con mio marito che amo, ti giuro, più di me stessa, più di tutto al mondo! S’è messo a pensare: «Eppure, ecco, questa donna, che è così con suo marito, è stata per un momento tra le mie braccia! E forse anche mia moglie, dunque, in un momento… chi sa?… chi potrà mai sapere?…». Ed è impazzito. Ah! Zitta, Bice, zitta per carità!

             Gabriella Vanzi s’alzò, pallidissima, tremante.

             Aveva sentito schiudere di là, nella saletta d’ingresso, la porta. Suo marito rincasava.

             Donna Bicetta Daddi, nel vedere la sua amica d’un tratto ricomporsi, diventar rosea, con gli occhi limpidi, e sorridere, movendo incontro al marito, restò quasi annichilita.

             Nulla, ecco, era vero: nessun turbamento più, nessun rimorso, nessuna traccia…

             E donna Bicetta comprese perfettamente perché suo marito, Romeo Daddi, era impazzito.

Auf Deutsch – Im Wirbel

Raccolta Dal naso al cielo
01 – Dal naso al cielo – 1907
02 – Fuga – 1923
03 – Certi obblighi – 1912
04 – Ciàula scopre la luna – 1912
05 – Chi la paga – 1912
06 – Benedizione – 1910
07 – Male di luna – 1913
08 – Il figlio cambiato – 1902
09 – Lo storno e l’Angelo Centuno – 1910
10 – «Superior stabat lupus» – 1912
11 – Nel dubbio – 1906
12 – La corona – 1907
13 – Jeri e oggi – 1919
14 – Nel gorgo – 1913
15 – Musica vecchia – 1910

««« Introduzione alle novelle
««« Elenchi di tutte le novelle
««« Elenco delle raccolte

Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com

ShakespeareItalia

image_pdfvedi in PDF
Skip to content