Legge Giuseppe Tizza.
«Che senso di smanioso tormento, quali fitte di rimorso le aveva cagionato il non sapere, il non poter dire neanche a se stessa a chi appartenesse veramente il nuovo essere che cominciava a viverle in grembo.»
Prime pubblicazioni: Il Ventesimo, 23 dicembre 1906, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914.
Nel dubbio
Voce di Giuseppe Tizza
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Nella sala terrena del grazioso villino in cima al poggio, gaja di luce e del tenero verde dei bambù sorgenti da un antico sarcofago, gaja dello sprillo d’una fontanella di marmo, la vecchia minuscola marchesa donna Angeletta Dinelli, seduta presso una piccola lucida scrivania di ghisa nichelata, sonò per la terza volta il campanello, tenendo tuttavia sul naso gli occhiali e in mano la lettera della figliuola, che scriveva da Roma.
La testolina incuffiata della marchesa tremolava quella mattina più del solito con tutti i riccioli argentei che le pendevano intorno alla fronte, e anche le piccole mani deformate miseramente dall’artritide e riparate da mezzi guanti di lana.
– Ma il commendatore? – domandò con vocetta agra di stizza alla cameriera che si presentò su la soglia.
– Avvertito, signora marchesa. Finiva di vestirsi. Ha detto che sarebbe venuto giù subito.
– Subito? Come i vecchi, doveva dire.
– Se crede…
– No, lascia, verrà.
E donna Angeletta tornò a rileggere per la quarta volta la lettera, mentre una voce cornea dietro la tenda della finestra ripeteva:
– Verrà… Federico, Federico… Povero Coca… verrà… Com-men-da-to-re… La stupidissima bestia sul trespolo pareva volesse canzonare la marchesa,
imitandone i tre toni di voce, con cui ella soleva chiamare il commendator Morozzi: quello frettoloso, confidenziale (Federico, Federico), quello di commiserazione un po’ derisoria(Povero Coca) e l’ultimo, grave, e per così dire, di parata (Com-men-da-to-re).
Pareva; perché il pappagallo poi aveva questo di buono, che non capiva nulla; e non si sognava dunque neppure di canzonar la padrona. Che sugo, del resto, ci sarebbe stato, anche per un pappagallo, a canzonare una vecchina già presso ai sessant’anni, che se un tempo aveva dato pretesto a ciarle non al tutto maligne in società, da tanti anni ormai viveva ritirata e tranquilla come una tartarughina in quella sua amena e solitaria villetta umbra?
Veramente donna Angeletta Dinelli, da tanto tempo vedova, avrebbe potuto sposare il commendator Federico Morozzi. Non l’aveva fatto, perché in realtà viveva con lui senza troppo scandalo quasi maritalmente anche quando era in vita il marchese, il quale, dopo la nascita dell’unica figliuola, se n’era scappato a prender aria a Parigi: tant’aria che n’era scoppiato quattr’anni dopo; e non ci sarebbe stato niente, proprio niente di male, se in questi quattr’anni non avesse dato fondo alle sue rendite e a buona parte di quelle di lei.
Donna Angeletta era come una bambola, allora: e se non avesse avuto accanto il Morozzi, senza dubbio si sarebbe ridotta all’elemosina, con la figliuola. L’affetto, lo zelo, la protezione del commendatore per la minuscola marchesa erano stati molto apprezzati in Roma; e quasi quasi, era sembrato non solamente scusabile, ma logico e inevitabile che qualcuno lì, in quella casa, si fosse messo a far da uomo sul serio, perché tanto lei, la marchesa, quanto lui, il marchesino, nel presentarsi la prima volta in società avevano fatto la figura d’una coppia di ragazzetti parati per ischerzo a far da sposini, per una graziosa mascherata carnevalesca.
Senza l’intervento del commendatore, uomo serio, chi sa come sarebbero andati a finire quei due bambocci! Già s’era veduto: il marchesino, quando a un certo punto aveva voluto far l’uomo, era andato a rompersi il collo a Parigi.
Ammirabile era adesso per tutti l’esempio che quei due vecchi, il commendatore e la marchesa, offrivano d’una così lunga e perfetta fedeltà d’amore, della compagnia piena di squisite attenzioni che entrambi a quell’età si tenevano ancora, in quel loro dolce ritiro.
Egli si dava tuttavia amorosissima cura della persona e voleva che anche lei se ne desse, in difesa, anzi a dispetto del tempo. Voleva che questo non gliela guastasse troppo, la sua povera bambola vecchierella, non approfittasse troppo dell’estrema gracilità di lei. Quelle povere manine! Se avesse potuto riparargliele, come già aveva fatto coi capelli! Perché non erano mica veri quei ricciolini argentei sotto la cuffia… Ma il cuore, il cuore sopra ogni altra cosa, avrebbe voluto ripararle, il cuore che le s’avvizziva troppo. Si offendeva tanto il commendator Morozzi, se donna Angeletta s’insaccava nelle spalle e, socchiudendo gli occhi, sospirava:
– Ormai, caro, ormai…
Che ormai! che ormai! Come un giovane innamorato, nelle tepide sere di primavera, egli voleva passeggiare a braccetto con lei, sotto la luna, pei viali inghiajati del giardino davanti la villa. Alto e robusto, doveva chinarsi un po’ da una parte per dar braccio a lei così piccina. Pareva che davvero credesse, che ancora la luna dal cielo facesse lume per loro e per loro odorassero le rose del giardino e scampanellassero i grilli lontani.
La vecchiaja a poco a poco rilascia tutto ciò che la giovinezza si era preso del mondo. Giovani, crediamo infatti che sia nostra ogni cosa, nostro o fatto per noi tutto il mondo. Vecchi, lasciamo che il mondo se lo prendano gli altri o credano di prenderselo; e ridiamo di questo inganno, d’un riso che non può non essere amaro, considerando che fu anche nostro e che ne fummo felici.
Così pensava ormai donna Angeletta che, se non questa, molte cose aveva già imparato dal suo vecchio amico, oltre a quelle altre che gli anni e i malanni le avevano fatto entrare a poco a poco nella testolina incuffiata, mentre negli ozii invernali si carezzava i mezzi guanti di lana protettori delle povere mani. E perciò spesso sospirava:
– Povero Cocò!
Tanto spesso, che il pappagallo aveva già imparato a ripeterlo così bene per conto suo.
Finalmente il Morozzi entrò nella sala, stropicciandosi le grosse mani pelose:
– Eccomi qua, eccomi qua…
Dopo il bagno, una passeggiatina svelta svelta in giardino… No? Perché no, quella mattina?
E il commendator Morozzi tese gl’indici e, con un gesto che gli era solito, li accostò pian pianino fino a toccarsi le punte insegate dei maschi baffoni grigi, come per accertarsi se stessero a posto.
Non poteva star fermo un minuto; a costringerlo, alzava una gamba, o spingeva un gomito, o stirava una spalla, o storceva la bocea, o contraeva una guancia, e poi dalli con gl’indici a toccarsi le punte dei baffi, facendo il bocchino.
– Nudo, nudo, nudo, cara mia; carissima mia, nudo! Potevo venir giù? – rispose frettolosamente al rimprovero di donna Angeletta.
Le si accostò, si chinò su lei, le tolse dal naso gli occhiali, come se volesse baciarla senza farglielo vedere, e:
– Che abbiamo? che è avvenuto?
– Nelda, – disse donna Angeletta, ponendogli una mano sul petto per tenerlo discosto. – Guarda che letterona…
– A me? a te?
– A me, confidenziale. Da’, da’ gli occhiali… Dove li hai messi? Il Morozzi glieli porse; donna Angeletta tornò a inforcarseli, e…
– Mammina mia bella, – cominciò a leggere, – promettimi prima di tutto che non farai leggere questa lettera al commendatore…
– Brava! – esclamò questi, accigliandosi.
– Scrivo a te solamente, – seguitò ella, – e voghlio che tu laceri la lettera appena avrai finito di leggerla. Si tratta…
Donna Angeletta s’interruppe; guardò di su gli occhiali il Morozzi, e:
– Non te la leggo, per ubbidire, – disse. – Si tratta che io dovrei fingere di non aver ricevuto questa lettera, e che, discorrendo così… tra noi, mi venisse a un tratto la curiosità di sapere se Giulio…
– Ah, – esclamò egli aggrondato, offeso, – si tratta di suo marito?
– Già… Ma non ci capisco nulla, – disse donna Angeletta.
– Brava! Nulla ci capisci tu; nulla voglio saperne io, – soggiunse il Morozzi, – me ne vado subito in giardino!
– Aspetta! – esclamò donna Angeletta, accennando di levarsi. – Nelda scrive a me, non perché non si voglia confidare Con te, ma per non darti un dispiacere: me lo dice in fondo alla lettera espressamente. Sempre furie! Sempre fùrie !
– Che dispiacere? – domandò il Morozzi, voltandosi, di nuovo con gl’indici tesi su le punte dei baffi. – Le solite sciocchezze!
– Già! Perché tu sempre hai protetto Giulio, – rispose la marchesa.
– Protetto? io? – esclamò il commendatore. – Perché se lo merita, se mai… Sta’ pur sicura, bella mia, che non ha fatto nulla di male, Giulio; perché, se qualcosa avesse fatto di male, Nelda, la signora baronessa, avrebbe scritto a me, a me, a me, non a te, per farmi un piacere!
– E se non fosse cosa d’ora? – disse donna Angeletta. – Se si trattasse d’un vecchio peccataccio, che tu sai?
– La Zena? – domandò allora il Morozzi. – Si tratta di quella povera diavola?
– Ecco! – fece la Dinelli.
– Ma se è tutto finito, strafinito, arcifinito! Ancora? Perbacco! Se tutto era già finito due anni prima, due, due anni prima che Giulio sposasse la Nelda! A quella povera diavola avevo dato marito io…
– E il figlio? – domandò donna Angeletta, con un tono che lasciava intendere che qui lo aspettava.
– Il figlio? – disse il Morozzi, restando. – Che figlio? il figlio che Giulio ebbe da…?
– L’ebbe di sicuro? – tornò a domandare donna Angeletta. – Ecco il punto! Nelda vuol sapere proprio questo.
– Se Giulio ebbe un figlio? E perché?
– Perché… il perché non lo dice. Ma io temo che vogliano giocargli qualche tiro. Sapessi come insiste Nelda, perché tu prenda esattissime informazioni, fino ad acquistar la certezza assoluta che il figlio sia stato proprio di Giulio. Capirai che, avendo avuto da fare con una donna come…
– Che! che! che! – proruppe a questo punto il commendator Morozzi. – La Zena? Ma fammi il piacere! Quella povera figliuola? Diciassette anni aveva… figlia d’onesti contadini! Incapace! E poi, se il bambino è morto…
– Morto?
– Morì dopo due mesi.
– E allora? – disse donna Angeletta, non sapendo più che pensare.
– Da’ qua la lettera, – riprese con fare sbrigativo il commendatore. – Andiamo per le spicce.
S’accostò alla finestra per legger meglio. Doveva leggere a distanza, a braccio teso, perché – presbite – s’ostinava a credere di non aver punto bisogno degli occhiali. S’impostò lì in un atteggiamento eroico; ma a un tratto diede un balzo. Il pappagallo, dietro la cortina, per fargli a suo modo una carezza, gli aveva pinzato la mano con cui reggeva la lettera.
– Brutta bestiaccia! – gridò. – Parola d’onore, le tiro il collo qualche volta… Tutti e due, donna Angeletta e il pappagallo, gli risposero con lo stesso tono:
– Povero Cocò!
– Permetti? – disse allora il Morozzi su le furie. – Vado a leggere in giardino.
E uscì a passi concitati.
Rideva ancora, rideva forte, quando, di lì a mezz’oretta, rientrò in sala, agitando la lettera.
– Ma non hai capito nulla? proprio nulla?
Donna Angeletta lo guardò un pezzetto, un po’ urtata da quel riso, perplessa, ma già inchinevole a sorridere anche lei della propria costernazione.
– Tu hai capito?
– Io? Ma perfettamente! – esclamò il commendatore. – E così chiara la ragione della lettera… Si capisce dal tono, scusa! Di’ un po’, quanti anni sono che Nelda è maritata?
– Quattro, a ottobre.
– E niente figliuoli! – soggiunse subito il Morozzi. – Nelda non somiglia mica a te! Nelda, dico… se non mi passa, è alta quanto me, e… dico, florida, robusta come me… Non si persuade, che possa mancare per lei. Capisci adesso?
– D’aver figliuoli?
Il Morozzi le rispose con un gesto espressivo delle mani, e aggiunse:
– Ma s’è ricordata, com’ella dice, che da ragazza «colse a volo» qualche discorso tra me e te, sul conto di Giulio, qualche accenno a quel trascorso giovanile di lui, alla nascita di quel bambino… Vedi che ne parla così, senza darci alcun peso, mentre insiste molto invece su le ricerche scrupolose da fare per venir bene in chiaro se il figlio fosse proprio di Giulio… Ne dubita, è evidente! E perché ne dubita?
Tornò a rider forte il commendator Morozzi e concluse:
– Sciocchezze! sciocchezze! sciocchezze!
– Risponderò allora… – prese a dire donna Angeletta. E il commendatore:
– Risponderai così: Sciocchezze, dice Federico; dice che… già no! non dico nulla, io, poiché la signora baronessa s’è vergognata di rivolgersi a me: ma glielo puoi dire tu, da te, forte, che è una sciocchissima creatura! Non sono ancora quattr’anni! Godete finché siete giovani, senza pensieri! I figliuoli verranno… S’è dato il caso d’aver figliuoli anche dopo quindici anni. E quanto a Giulio dille che non mi faccia il torto di dubitare d’un marito che le ho scelto io! Il figliuolo era proprio suo e ci posso metter le mani sul fuoco, perché quella Zena, povera figliuola… ma figurarsi! So io quel che mi ci volle per rimediare… Suo, suo, suo; si metta il cuore in pace la signora Nelda e aspetti…
– Paziente e fiduciosa…
– Ecco, benissimo, così! Paziente e fiduciosa.
Quattro giorni dopo, arrivò da Roma a donna Angeletta Dinelli, quest’altra letterina breve breve della figliuola:
Mammina mia bella,
Due paroline in fretta e furia per non tenerti in pensiero.
Che predicone m’hai fatto, tu mammina mia piccola e cara! E fuor di luogo, sai ?
Non tenere più in alcun conto la mìa lettera precedente, che tu avrai lacerata. Te l’ho scritta… non so più neanch’io bene perché. Fisime!
Sappi che già… non vorrei dirtelo ancora, ma temo, temo forte che, da due mesi, tu abbia cominciato a esser nonnina, ecco!
Aspetta ancora un po’ per annunziarlo al Commendatore.
Un bacio in fretta dalla tua
NELDA
– E allora? – domandò il commendator Morozzi, sgranando tanto d’occhi, appena donna Angeletta ebbe finito di leggere. – Tutto quell’impegno di sapere se Giulio aveva proprio avuto un figliuolo?
Donna Angeletta si portò alla fronte una di quelle sue povere mani; poi, sotto lo sguardo di lui ancor pieno di stupore, disse:
– Chi sa che storie, pazzerella… E non disse altro.
Ma questa volta aveva capito lei, invece.
Che cosa? Non volle dirlo; se lo chiuse in cuore, per non amareggiare invano dopo tanti anni il suo povero Cocò.
Era sicurissimo infatti, il povero Cocò, che la Nelda fosse sua figlia; e lei non aveva mai detto una sillaba per toglierlo da questa sicurezza. Ma ne era ugualmente sicura lei?
Conviveva allora anche col marito, col marchesino…
Che senso di smanioso tormento, quali fitte di rimorso le aveva cagionato il non sapere, il non poter dire neanche a se stessa a chi appartenesse veramente il nuovo essere che cominciava a viverle in grembo; a chi dovesse lei stessa le ansie trepide, i dolori della maternità, da cui, pur caduta, quantunque in peccato, si sentiva dinanzi a se stessa nobilitata; a chi avrebbe dovuto domani le gioje che dal frutto delle proprie viscere le sarebbero venute! E che strazio anche dipoi, nel vedere, nel sentire la propria creatura ignara tendere le manine e dir babbo a chi forse non era tale!
Ah, per perversa che sia una moglie, e quantunque nemica, a torto o a ragione, del proprio marito, vorrebbe aver sempre la certezza che appartiene a questo il frutto delle proprie viscere, non foss’altro per non sentir lo strazio della menzogna incosciente su le tenere e pure labbra della propria creaturina!
Ora Nelda…
Ma poteva confidar queste cose donna Angeletta Dinelli al commendator Federico Morozzi?
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