Natale sul Reno – Audio lettura

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Legge Valter Zanardi
«Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…»

Prima pubblicazione: Roma letteraria, anno IV, n. 24, 25 dicembre 1896.

Natale sul Reno
Immagine dal Web

Natale sul Reno

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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Bonn am Rhein, 1890

                           – La mamma, – gridò Jenny entrando esultante nella mia camera e battendo le mani – la mamma acconsente per te!

             Mi voltai a guardarla con aria stupita dal canto del fuoco, in cui stavo da circa un’ora tutto ristretto in me dal freddo, con le mani e i piedi al caldo alito del camino, e l’anima… oh, l’anima, chi sa dir dove se ne vada in certi momenti, quasi alienata dai sensi, inerti, mentre gli occhi par che guardino e pur non vedono?

             – Uh! – riprese tosto Jenny, come assiderata dal mio freddo. – Mi sembri un vecchio! Figuriamoci, se la neve fosse davvero caduta qui!

             E così dicendo, mi scompigliò su la testa i capelli.

             Io le presi ambo le mani bellissime, e le tenni a lungo tra le mie:

             – Te le riscaldo, aspetta! A che acconsente la mamma?

             – A festeggiare il Santo Natale! – esclamò Jenny, riprendendo la vivacità, con cui era entrata in camera mia, e nascondendo in quella la confusione che provava nel sentirsi stringere le mani da me. – Compreremo un bell’abetino, alto… alto… lasciami dir come…

             – Come? – le domandai io sorridendo, tenendole vieppiù strette le mani. Ma ella ne svincolò una, e fece tosto:

             – Alto così !

             – Oh brava! Sarà bello…

             – Quanto tu sei brutto… Non si scherza, sai, su queste cose… Lasciami quest’altra mano… A che pensavi?

             Chiusi gli occhi e alzai le spalle, traendo un lungo sospiro per le nari.

             Zufolava il vento attraverso la gola arsa del camino, o sentivo io veramente, lontano lontano, il suono lento nasale cadenzato d’una zampogna? Veniva quel suono dalle parole di pianto che avevo dentro di me, e che certo, per il groppo che mi stringeva la gola, prima che la via delle labbra, avrebbero trovato quella degli occhi? Era gonfia quella zampogna lontana dei profondi sospiri della mia intensa malinconia? E quel fuoco innanzi a me non era la gregal fiammata di fasci d’avena innanzi a un rustico altarino in una piazza della mia lontanissima città natale, nelle rigide sere della pia novena? Tintinnava l’acciarino? Sonava davvero, lontano lontano, la zampogna?

             Come talvolta, anzi spesso, in questa società arriviamo finanche a vergognarci della dignità dell’anima nostra, così un certo pudore, falso pudore, ci vieta di rivelare anche a una gentile persona, intima nostra, certi sentimenti che, sembrandoci troppo squisiti e quasi puerili per la delicata loro innocenza, sospettiamo potrebbero essere accolti con dileggio o, nella migliore ipotesi, non apprezzati, essendo nati in noi da specialissime condizioni di spirito. Per ciò non dissi a Jenny quel che pensavo.

             – Questo vento mi opprime! – dissi invece. – Non posso più sentirlo… Tutto il giorno così, a lamentarsi entro la mia stanza per la gola del camino… Di sera poi, tu intendi, nel silenzio, nella solitudine, riesce proprio intollerabile…

             – Ho capito! – fece allora Jenny, prendendo una seggiola. – Eccomi accanto a te, brontolone! Via, via, un altro tizzo per me, nel camino! Aspetta!… lo pi­glio io: tu sei tutto imbacuccato… Ecco fatto! Dunque la mamma acconsente, hai inteso! E acconsente per te! Son due anni, te l’ho detto, che non si festeggia più il Natale in casa nostra. Quest’anno vogliamo compensarcene: figurati come saranno liete le bambine!…

             Le tre bambine, a cui Jenny alludeva, erano sue sorelle uterine. Il Natale non si festeggiava da due anni in casa L*** in segno di lutto per la violenta morte del secondo marito della signora Alvina, madre di Jenny. Il signor Fritz L***, dopo una vita disordinatissima, s’era ucciso con un colpo di rivoltella alla tempia, in Neuwied su la riva destra del Reno. Jenny mi aveva narrato più volte i truci particolari di questo suicidio, seguito a una serie di orribili scene in famiglia, e mi aveva rappresentato con tanta evidenza la figura e i modi del patrigno, che a me sembrava quasi di averlo conosciuto. Avevo letto la sua ul­tima lettera alla moglie, da Neuwied, ove erasi recato per porre in effetto l’or­rendo proposito; e non ricordavo d’aver letto mai parole d’addio e di penti­mento più belle e più sincere. È fama che da Neuwied si goda, meglio che da ogni altro punto delle contrade del Reno, il levar del sole. «Ho veduto tutto e tutto provato», scriveva alla moglie il marito, «tranne una cosa sola: in quarant’anni di vita non ho mai veduto nascere il sole. Assisterò domani dalla riva a questo spettacolo, che la notte serenissima mi promette incantevole. Vedrò nascere il sole, e sotto il bacio del suo primo raggio chiuderò la mia vita.»

             – Domani compreremo l’albero… – continuò Jenny. – Il tino c’è, è su nell’abbaino, e debbono esserci dentro i lumicini colorati, i festelli variopinti, come li ha lasciati lui l’ultima volta. Perché, sai, l’albero ogni vigilia, lo adornava lui, di nascosto, nella sala giù, accanto a quella da pranzo; e come sa­peva adornarlo bene per le sue bambine! Diventava buono una volta all’anno, di queste sere qui.

             Jenny, turbata dal ricordo, volle nascondere il volto appoggiando la fronte sul bracciuolo della mia poltrona, e certo, in silenzio, pregò.

             – Cara Jenny! – feci io, intenerito, posando una mano sul suo capo biondo. Quando ella si rialzò dalla preghiera, aveva gli occhi pieni di lacrime; e, sedendo novamente accanto a me, disse;

             – Diventiamo buoni tutti, quando è prossima la Santa Notte, e perdoniamo! Divento buona anch’io che pur dico sempre di non sapergli perdonare lo stato in cui ci ha ridotte… Non ne parliamo! Domani, dunque, senti; andrò prima da Frau R***, qui accanto, per una grembiata d’arena del suo giardino: ne riempiremo il tino e v’infiggeremo l’abete, che ci porteranno domattina per tempo, prima che le bambine si sian levate da letto. Non debbono accorgersi di nulla loro! Poi usciremo insieme per comprare i dolci e i regalucci da appendere ai rami, e pomi e noci: i fiori ce li darà Frau R*** dalla sua serra… Vedrai, vedrai, come sarà bello il nostro albero… Sei contento?

             Io feci più volte cenno di sì col capo. E Jenny sorse in piedi.

             – Lasciami andar via, adesso… A domani! Altrimenti il tuo vicino farà cattivi pensieri sul conto mio. E lì, sai, in camera sua, e avrà certo udito, che sono entrata da te…

             – Ci sarà anche lui per la festa? – domandai io contrariato.

             – Oh no! Vedrai, egli se n’andrà a far baldoria co’ suoi degni socii… Addio; a domani!

             Jenny scappò via in punta di piedi, richiudendo pian piano l’uscio. E io ri­caddi in preda ai miei tristi pensieri, finché il grido lamentoso intollerabile del vento non mi cacciò dal canto del fuoco. Andai presso la finestra, e schia­rendo con un dito il vetro appannato, mi misi a guardar fuori: nevicava, nevi­cava ancora, turbinosamente.

             Quel guardar fuori attraverso il tratto lucido nell’appannatura mi ridestò d’improvviso un ricordo degli anni miei primi, quand’io, credulo fanciullo, la notte della vigilia, non pago del grande presepe illuminato entro la stanza, spiavo così, se in quel cielo pieno di mistero apparisse veramente la nunzia cometa favoleggiata…

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             Comprammo il domani l’albero sacro alla festa; poi salimmo nell’abbajno per veder quanta parte degli ornamenti rimasti lassù potesse ancora servirci, prima d’uscire a comprarne di nuovi.

             Era in un canto buio il vecchio abetino di tre anni addietro, tutto stecchito, come uno scheletro.

             – Ecco, – disse Jenny – questo è l’ultimo albero, ch’egli adornò. Lasciamolo lì, dove lui l’ha lasciato; così non avrà in tutto la sorte dell’abetino di Giovan Cristiano Andersen, che finì tagliuzzato sotto una caldaia. Ecco qui il tino. Vedi: è pieno; speriamo che l’umido non abbia tolto il lucido e il colore ai globetti di vetro, ai lumicini.

             Era ogni cosa in buono stato.

             Più tardi, io e Jenny uscimmo insieme a comprare i giocattoli e i dolci.

             Chi sa quanto contribuiscano, pensavo andando, il freddo intenso, la nebbia, la neve, il vento, lo squallore della natura a render la festa del Natale in questi paesi più raccolta e profonda, più soavemente malinconica e poetica e reli­giosa, che da noi!

             La sera appena le bambine furono a letto, sgombrata la stanza accanto alla sala da pranzo, io e Jenny facemmo portar giù dalla serva il tino; lo collo­cammo presso un angolo e lo riempimmo d’arena intorno al fusto dell’albero.

             Lavorammo fino a tarda notte a parar l’abetino, che pareva contento di tutti quegli ornamenti, e che si prestasse riconoscente alle nostre cure amorose, protendendo i rami per regger le collane di carta dorata e argentata, i festelli, i globetti, i lumicini, i panierini di dolci, i giocattoli, le noci.

             «No, queste noci, no!», pensava forse l’abetino. «Queste noci non m’appar­tengono: sono frutti d’un altr’albero.»

             Ingenuo abetino! Tu non sai ch’è l’arte nostra più comune, questa di farci belli di quel che non ci appartiene, e che noi non abbiamo scrupolo, troppo spesso, d’appropriarci il frutto dei sudori altrui…

             – Aspetta: la cometa! – esclamò Jenny, quando l’albero fu tutto parato. – Dimenticavamo la cometa!

             E in cima all’albero io appiccicai, con l’ajuto della scaletta, una stella di carta dorata.

             Ammirammo a lungo l’opera nostra; poi chiudemmo a chiave l’uscio della stanza, perché nessuno il domani vedesse prima di sera l’albero adorno, e an­dammo a letto ripromettendoci pel domani in compenso del freddo, della ve­glia e della fatica, le lodi della madre e la gioia delle bambine.

             Invece… Oh no, no, per Jenny che aveva tanto lavorato, per le sue povere bambine, non doveva la sera dopo mettersi a piangere, come fece, quella buona signora Alvina alla vista dello splendido albero illuminato su quel tap­peto di fiori !

             Era andato così bene, fino all’ultimo servito, il pranzetto della vigilia con quella torta di prugne e l’oca infarcita di ballotte! Poi le bambine s’eran messe dietro l’uscio della stanza, ove sorgeva l’albero, e con le manine diacce con­giunte in atto di preghiera avevano intonato il coro dolcissimo e malinconico:

             Stille Nacht, heilige Nacht…

             Non dimenticherò mai più quell’albero di Natale, ch’io adornai per altri più che per me, e quella festa terminata in pianto; né mai, mai si cancellerà dagli occhi miei il gruppo di quelle tre bambine orfane aggrappate alla veste della madre e imploranti il babbo! il babbo! mentre l’albero sacro, carico di giocat­toli, illuminava di luce misteriosa quella stanza cosparsa di fiori.

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