Mentre il cuore soffriva – Audio lettura 3

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Legge Valter Zanardi
«Gli occhi potevano guardare e non vedere. Se appena appena vedevano, eran subito distratti dalla cosa veduta e condannati a volgersi altrove senza attenzione. Ma essi, con la coda, senza parere, seguivano il giuoco delle gambe o delle mani.»

Prime pubblicazioni: E domani, lunedì, Treves, Milano 1917, poi nella raccolta Candelora, Bemporad, Firenze, 1928.

Mentre il cuore soffriva
Vincent van Gogh, Ritratto di un paziente, 1889

Mentre il cuore soffriva

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Cominciarono le dita della mano sinistra. Prima, il mignolo che, come il più piccolo, era anche il più irrequieto, e sempre era stato un tormento per il povero languido anulare che aveva la sventura di stargli vicino; ma un po’ anche per le altre tre dita.

             Buffo di forma, con l’ultima falangetta attaccata male, storta in dentro, dura, quasi inflessibile, pareva un dito col torcicollo fisso.

             Ma di questo difetto non s’era mai afflitto. Anzi se n’era sempre servito per non lasciare in pace un momento i suoi compagni di mano e, quasi se ne gloriasse, spesso anche si levava ritto, come per dire a tutti:

             «Ecco, vedete? sono così!».

             Invece di nascondere per pudore quella falangetta storpia sotto il polpastrello dell’anulare, gliela imponeva prepotente sul dorso o, costringendolo a star su, in una posizione incomodissima, si allungava a imporla sul medio o sull’indice, o andava con l’unghietta sbilenca a stuzzicar l’unghiona dura del pollice tozzo.

             Ma questo, alle volte, seccato e stanco, gli s’opponeva con violenza, saltandogli addosso su la prima falange, e lo teneva sotto premendolo con l’ajuto delle tre altre dita fin quasi a stracollarlo.

             Non si dava per vinto.

             Così premuto, grattava al pollice il polpaccio come per dirgli:

             «Vedi? Posso muovermi! Stai peggio tu che io».

             E difatti il pollice, preso come in una morsa, presto lo lasciava andare.

             Quel giorno però erano tutti d’accordo.

             Che quel mignolo buffo fosse così dispettoso e prepotente e non si stesse quieto un momento, piaceva anzi alle altre quattro dita, che avevano una gran paura d’intorpidirsi nello smemorato abbandono in cui da circa una settimana tutto il corpo era lasciato.

             Non solamente le dita delle mani, ma anche quelle dei piedi, imprigionate, e i piedi tutt’interi e le gambe e, su su, il busto, le spalle, le braccia, il collo e, nella testa, le guance, le labbra, le pinne del naso, gli occhi, le sopracciglia, la fronte, avvertivano confusamente in quell’abbandono così a lungo protratto una minaccia oscura e paurosa, a cui per proprio conto cercavano di sottrarsi.

             Da più giorni la vita s’era come alienata da loro per concentrarsi cupamente in una profonda, misteriosa intimità, dalla quale erano esclusi, tenuti estranei e come lontani, quasi non dovesse affatto riguardarli la decisione che in quell’intimità profonda e misteriosa nascostamente si maturava.

             Eran lasciati lì da più giorni, su un seggiolone di Vienna presso la finestra, in attesa che la decisione fosse matura. E in quell’attesa essi, non sapendo che fare, per non intorpidirsi nell’abbandono, giocavano per conto loro. Giocavano veramente come pazzi.

             Bisognava veder le gambe come ballavano, ora l’una ora l’altra, ora tutt’e due insieme, con la punta dei piedi a terra e il tallone sospeso per modo che il tendine brandisse! come poi, stanche di quel giuoco, s’allungavano per farne un altro, che consisteva in un aprirsi e chiudersi ritmato, prima col piede sinistro sul destro, e poi col destro sul sinistro, per star sotto una volta per uno, senza soperchierie! E anche le scarpe col loro cigolio prendevano parte a quel giuoco.

             Ma più di tutti giocavano le mani, ora intrecciando le dita, ora infrontandole per le punte e movendole così a leva, per modo che prima si stirassero fino a combaciare l’un dito con l’altro e poi si staccassero molleggiando. Oppure giocavan separatamente l’una e l’altra mano; ma, quasi sempre, ciò che faceva l’una, l’altra rifaceva, se la destra un tamburellio su la gamba destra, lo stesso tamburellio la sinistra su la gamba sinistra, come se non potesse farne a meno; un frullo o uno schiocco la destra, lo stesso frullo e lo stesso schiocco, poco dopo, la sinistra; oppure, sempre per giuoco, l’una stringeva le dita dell’altra e viceversa, o gliele pizzicava per poi carezzargliele con uno strofinio delicato, lento lento; o si metteva a grattare dove non c’era prurito, così che il dito grattato si ribellava con uno scatto violento e avveniva allora come una zuffa tra le due mani, uno stropicciamento convulso, troncato alla fine con l’afferrarsi l’una e l’altra e tenersi per un pezzo strette strette imprigionate. Poi l’una, ecco, si levava o per andare a stirare il lobo d’uno degli orecchi, o nella bocca il labbro inferiore, o la borsa gonfia sotto l’occhio, o per grattare senza bisogno il mento irto di barba non rifatta da parecchi giorni.

             Più pietosi di tutti erano gli occhi, le sopracciglia, la fronte. Avrebbero voluto giocare anch’essi; ma dalla cupa tensione dello spirito erano tenuti attoniti – gli occhi – o in una dura e truce fissità; le sopracciglia, aggrottate; la fronte, contratta.

             Gli occhi potevano guardare e non vedere. Se appena appena vedevano, eran subito distratti dalla cosa veduta e condannati a volgersi altrove senza attenzione. Ma essi, con la coda, senza parere, seguivano il giuoco delle gambe o delle mani; suggerivano a queste, di sfuggita, di prendere, per esempio, dal tavolinetto presso il seggiolone il tagliacarte, per cominciare con esso un altro giuoco. E le mani non se lo lasciavano dire due volte: cominciavano quel giuoco, sotto sotto, quasi di nascosto, per divertimento degli occhi, facendo girare e rigirare in tutti i versi quel tagliacarte.

             Talvolta sospendevano il giuoco per richiamare a loro l’attenzione dello spirito con un mezzo violento: facendosi male. Il terribile mignolo della mano sinistra ficcava la falangetta sbilenca in uno dei forellini del piano del seggiolone di Vienna e, non potendo più tirarsi fuori, obbligava l’uomo a piegarsi tutto da un lato per trovare il verso d’estrarlo senza scorticature e senza sciupare il piano del seggiolone. Subito il pollice e poi tutt’e cinque le dita dell’altra mano si davano a compensarlo con carezzine e strofinamenti amorosi del male che s’era fatto per il bene di tutti. Tal’altra il pollice e l’indice della mano destra pizzicavano la gamba per fare avvertire a quell’uomo che – se aveva il cuore che gli soffriva dentro – aveva pure quella gamba e sensibilissima anch’essa, cioè capacissima di soffrire come gamba, d’un pizzicotto; di soffrire, ecco, quel bruciorino fitto… più fitto… più fitto… No? non voleva avvertirlo? E allora, niente! L’indice stropicciava la gamba come per cancellarle la sofferenza inutilmente inflitta; poi tutt’e due le mani la prendevano e la accavalciavan su l’altra perché si spassasse un poco a dondolare il piede.

             Oh guarda! Nello specchio dell’armadio, disposto ad angolo dall’altra parte della finestra, appariva e spariva la punta di quel piede dondolante, con una virgola di luce su la mascheretta di coppale.

             Altro giuoco. Gli occhi aggrottati lo seguivano, aspettavano fissi all’angolo dello specchio, che apparisse la punta del piede; ma pur fingevano di non accorgersene, sapendo che se avessero minimamente mostrato di farvi attenzione, l’uomo tutt’assorto nel suo intimo dolore, con uno sbuffo avrebbe fatto finir quel dondolio e prendere al corpo un’altra positura.

             Chi sa! Forse non sarebbe stato male…

             Appoggiando il gomito sul bracciuolo destro del seggiolone e allungando un po’ il collo, tutta la testa si sarebbe mostrata nello specchio; e sarebbe bastato questo, cioè la vista della propria faccia, per far balzare in piedi, sdegnato e feroce, quell’uomo.

             Quasi quasi… No, via, non conveniva. Meglio seguitare a giocare, non stuzzicare la fiera volontà nemica, penetrata nella profonda, misteriosa intimità, ove la decisione oscura e paurosa si maturava. C’era il rischio che questa volontà, vedendo lo squallore della faccia stralunata, il capo calvo, quelle borse gonfie sotto gli occhi, quella barba non rifatta da tanti giorni, improvvisamente opponesse alla violenza un’altra violenza. Non conveniva.

             Ma ormai la tentazione di quello specchio era troppo forte; non più per il corpo, adesso, ma per quella volontà nemica, la quale, ecco, costringeva gli occhi a fissarlo biecamente.

             Maledetto il piede, che dapprima, dondolandosi, vi s’era riflesso! Ma gli occhi, piuttosto… maledetti gli occhi che lo avevano scorto!

             Ora, ecco… – (no no! il corpo reluttava) – ma la volontà nemica lo costringeva a levarsi dal seggiolone e a presentarsi là, davanti a se stesso, nello specchio.

             Eccolo!

             Quanto disprezzo, quant’odio addensava quella volontà nemica negli occhi! Con quale maligna voluttà scopriva in quella povera faccia i guasti irrimediabili del tempo, le lente, sgraziate alterazioni dei tratti, la pelle sulle tempie, attorno agli zigomi, lisa e ingiallita, gli affossamenti, le rigonfiature, la calvizie umiliante, la meschinità ridicola e affliggente di quei pochi capelli superstiti, raffilati quasi a uno a uno sul cranio lucido, più roseo della fronte tutta secata di aspre rughe.

             E la faccia, che non poteva non riconoscer veri quei guasti, ma che tuttavia per l’addietro era usa a presentarsi innanzi allo specchio pietosamente nel modo più favorevole, ora, quasi non comprendendo il perché di quell’esame così minuzioso, così acuto e spietato, restava come mortificata e attonita davanti a se stessa, come rassegata in una smorfia frigida, tra di schifo e di compassione. Ma gli occhi, ecco, si provavano a far notare (non per iscusa però, non per opporsi all’accertamento, del resto ben noto, di quei guasti), ma così, quasi per proprio conto, si provavano a far notare che quelle borse gonfie, intanto, no, ecco, non ci sarebbero state, avrebbero potuto non esserci, o non essere almeno così pronunziate, se quattro notti – quattro notti – non fossero passate insonni, tra violente smanie e vaneggiamenti. E poi, quella barba cresciuta… Ma perché?

             Ecco, una mano si levava adunca ad afferrar le guance flaccide e irsute.

             Perché? perché tant’odio contro quell’aspetto di povero malato? Soffriva? di che soffriva?

             All’improvviso, un tremor convulso partiva dalle viscere contratte, e gli occhi – quegli occhi – si riempivano di lagrime.

             Su, via, le mani, subito, subito in cerca d’un fazzoletto… in questa… no, nell’altra tasca… nemmeno? Le chiavi, allora… il mazzetto di chiavi per aprire il primo cassetto del canterano, ov’erano i fazzoletti… subito!

             Oh! Là… – il fazzoletto, sì – la mano ne pigliava uno, tra i tanti riposti là, – ma lo pigliava quasi meccanicamente, andando a tasto tra gli altri capi di biancheria, mentre gli occhi, in fondo al cassetto, in un angolo… sì, la piccola rivoltella… (Con questa, sì…) Come se ne stava quieta, là nascosta, col suo manichino d’osso, liscio, bianco, emergente dalla custodia di feltro grigio…

             L’altra mano, quasi di nascosto, si levava a richiudere il cassetto per impedire agli occhi di seguitare a fissar quella cosa lì, piccola come un giocattolo, ma da lasciar per ora nel cassetto, così come stava, quieta e nascosta.

             Il mazzetto di chiavi rimaneva appeso alla toppa e ciondolante.

             Dalla finestra sul giardino entrava la dolce frescura della sera imminente. La pietà improvvisa, onde quelle lagrime erano sgorgate, ne provava un refrigerio ineffabile. I polmoni, oppressi dall’angoscia, s’allargavano in lunghi sospiri, il naso sorsava le ultime lagrime. E l’uomo ritornava a sedere sul seggiolone, col fazzoletto su gli occhi. Stava un pezzo così; poi abbandonava le mani su le gambe, e la sinistra, ecco, s’avvicinava alla destra che teneva il fazzoletto, ne prendeva un lembo e timidamente, come per riprendere il giuoco, col pollice e l’indice si metteva a scorrerlo fino alla punta.

             «Passiamo il tempo così», pareva dicesse quella mano, «ma sarebbe ora veramente d’andare a cena; almeno a cena, poiché oggi, a mezzogiorno, non s’è desinato… Prima d’andare a cena, però…»

             E la mano, levandosi di nuovo, ma non più adunca, riafferrava le guance per grattar l’ispidume dei peli rinascenti.

             «Che barbacela! Bisognerebbe rifarla per non far voltare la gente, entrando nella trattoria…»

             Cosa strana! Anche la mente pareva scherzasse per proprio conto; vagolava, parlava tra sé di cose aliene, senza nesso tra loro; seguiva immagini note, che si presentavano, non richiamate affatto; aeree ma precise, fuori della coscienza; e dava suggerimenti, pur sicura di non essere ascoltata.

             A un tratto, però, avveniva come dianzi, per la tentazione dello specchio: la volontà nemica, come in agguato d’ogni moto istintivo, d’ogni suggerimento che tendesse ad avversarla, lo ghermiva di sorpresa, lo faceva suo per ritorcerlo subito contro il corpo.

             La barba, sì. Presto presto. E poi un bagno…

             «Un bagno? come? di sera? perché?»

             Perché sì. Pulito, da capo a piedi. E cambiato tutto: maglia, mutande, calzini, camicia… tutto. Bisognava che, dopo, il corpo fosse trovato pulito. Intanto, la barba, subito!

             Contrariamente al loro primo desiderio, le mani si sentivano ora messe a servizio della volontà nemica per un atto che, da normale e consueto che era, diventava un’impresa oscura, decisiva e quasi solenne.

             Sul cassettone era il pennello, la scatoletta della pasta di sapone, il rasojo… Ma bisognava prima versar l’acqua nella catinella, prendere l’accappatojo… Non sapevano più con precisione le mani quel che bisognasse far prima. Prima l’accappatojo, sì…

             Nel tondo specchietto a bilico, tirato innanzi sul piano di marmo del cassettone, appariva di tra gli sgonfi del candido accap’patojo l’ispida faccia. Dio, come stravolta! quasi aguzzata tutta negli occhi attoniti, truci: irriconoscibile. Ed ecco, le mani, impaurite da quegli occhi, allungavano le dita tremolanti al pennello, scoperchiavano la scatoletta della pasta di sapone; ne prendevano una ditata, la inserivano tra i peli del pennello bagnato; cominciavano a insaponar le guance, il mento, la gola…

             Godevano altre volte gli occhi e gli orecchi nel vedere e nell’udire il bollichio e il friggio della spuma, fresca, bianchissima, crescente morbida in volute bambagiose su le guance, sul mento; e le dita si compiacevano di quel godimento degli occhi e degli orecchi, e s’indugiavano con voluttà nel far gonfiare la saponata con altre volute più boffici e dense.

             Ma ora, no. Ora tremavano; e i polpastrelli avevano quasi perduto il tatto. Tremavano d’armarsi del rasojo, così non più sicure com’erano di sé; guidate, come sarebbero tra poco, da quegli occhi spaventosi.

             Il petto ansava; il cuore stesso, che pur soffriva in sé ed era la causa di tutto, batteva ora in tumulto; solo un sottil filo di respiro entrava, quasi fischiando, acuto, per una delle nari, dilatata. Le mani aprivano il rasojo.

             Per fortuna, il corpo, aderendo al cassettone, avvertiva a un tratto su la bocca dello stomaco una pressione dolorosa. Era il mazzetto di chiavi rimasto appeso lì alla toppa del primo cassetto.

             La mano destra, allora, quasi di sua iniziativa, o piuttosto, obbedendo a un istintivo moto di ribrezzo per l’arma volgarissima già impugnata, posava il rasojo sul marmo del cassettone e, invece di estrarre la chiave incomoda dalla toppa, tirava un po’ fuori il cassetto, ne cavava la rivoltella e la poneva sul piano di marmo, discosta.

             Era questo un venire a patti con la volontà nemica. Posando la rivoltella sul cassettone, la mano diceva a quella volontà:

             «Ecco, c’è questa per te. Non hai detto con questa! E lasciami dunque rifar la barba in pace!».

             L’ansito del petto cessava, la mano non più tremante, riprendeva svelta e quasi con gioja il pennello, giacché la spuma s’era ormai tutta rappresa, frigida, tra i peli.

             Allontanato il pericolo, alleggerito il respiro, le dita lavoravano con voluttà insieme col pennello a far ricrescere la saponata; poi, con la massima sicurezza, riprendevano il rasojo, lo passavano su la guancia destra, a tratti netti; su la sinistra; e infine, senz’ombra d’esitazione, su la gola, tornando come prima a compiacersi del godimento che gli orecchi prendevano del fitto raschìo.

             Gli occhi, a poco a poco, avevano perduto l’espressione truce, ma s’erano ora, quasi subito, velati d’una enorme stanchezza, dietro alla quale lo sguardo smarrito esprimeva una bontà pietosa, quasi infantile, lontana. Si chiudevano da sé, quegli occhi di bimbo. E la stanchezza repentinamente invadeva, appesantiva tutte le membra. La volontà però aveva un ultimo guizzo sinistro, e prima che il corpo, così all’improvviso vuoto di forze, cascante, si trascinasse fino alla poltrona a pie del letto, imponeva alla mano di prendere con sé la rivoltella per posarla lì a pie del letto stesso, accanto alla poltrona; come a dire che concedeva, sì, al corpo un po’ di riposo, ma che intanto non dimenticava il patto.

             L’ultimo barlume del giorno smoriva squallido, umido, alla finestra; l’ombra, poi man mano il bujo, la tenebra entravano nella camera, e il rettangolo della finestra ora vaneggiava men nero, prossimo e lontanissimo, punto da un infinito formicolio di stelle.

             Il corpo, tutto il corpo dormiva ora col capo appoggiato ai piedi del letto, un braccio proteso verso la piccola rivoltella.

             Senza avvertire il freddo della notte, ch’entrava dalla finestra aperta, dormì quel corpo nell’incomoda positura fino a che il barlume primo del nuovo giorno, più squallido, più umido dell’ultimo del giorno precedente, non diradò appena appena con un brulichio indistinto l’ombra nel vano di quella finestra.

             Ma non si svegliarono le membra; il primo a svegliarsi fu il cuore, roso da un tormento che il corpo non sapeva. Si svegliò per avvertire una vacuità spaventevole, sospesa nella sua tetraggine, e un senso d’afrezza cruda, atroce, ch’emanava quasi da una realtà non vissuta e ov’era impossibile vivere. Ecco, bisognava approfittare di quest’attimo, che il corpo indolenzito era ancora invaso dal torpore del sonno. Sì, sì, ecco, la volontà poteva piombare su quella mano ancora inerte sul letto, farle impugnare la rivoltella… Subito! Estratta dal fodero, così, qua, un attimo, in bocca, sì, qua, qua… con gli occhi chiusi… così… – ah, quel grilletto, come duro!… su, forza… ec… co… sì.

             Nel corpo traboccato pesantemente a terra, dopo il rimbombo, le dita delle mani, cedendo lo sforzo violento nel quale s’erano serrate, e riaprendosi, già morte, lentissimamente da sé, con quel mignolo sbilenco della sinistra innanzi a tutte, pareva chiedessero:

             «E perché?».

Mentre il cuore soffriva – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Mentre il cuore soffriva – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Mentre il cuore soffriva – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
Mentre il cuore soffriva – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza 

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