««« Raccolta “Poesie sparse” (1890/1933)
12. Mariandin Gogò
Da Folchetto, anno IV, n. 274, 4 ottobre 1894.
L’ho presente ancor: chiamavasi
Mariandin Gogò, buffone,
come ei dir solea “per ferrea
volontà della nazione”.
Magro egli era e lungo; in aria
il suo crine aureo, ricciuto
si spandea con arte; vitreo
avea l’occhio e il piglio arguto.
Ma la bocca, usa a sorridere,
d’un anello era piú stretta:
perle, i denti; labbra rosee…
ah, la bocca era perfetta!
E da lei come l’eloquio
dolcemente ognor fluía!
Induceva al caldo plauso
qual per forza di malía.
Però avea per braccia pertiche.
e le spalle anguste tanto,
che il crin d’oro sparso in aria
le avanzava d’ogni canto.
Mariandin al colto publico
presentava un can birbone
o Borbon, barbon che dicasi,
“nato cane in Albione”.
Rispondea la vecchia bestia
al bel nome di Lulú
e Gogò narrava ai popoli
della terra, come fu
ch’ei se l’ebbe: – Un dí ridottomi
là sú a Londra, la citta’
ove, è noto, ha casa propria
la signora Civiltà;
la città pei cui lunghissimi
corsi molto calpestati
puoi vedere in maggior numero
cani e cagne ammaestrati;
una vecchia magra, nivea
Miss, che stava a la finestra,
mi fe’ cenno, ma ben cauta,
che salissi. Era maestra
di non so che, di proverbii:
la sapeane senza fine,
e vivea forse imboccandoli
ai bambini, a le bambine.
Io salii. Picchiai. La nivea
Miss m’accolse freddamente,
e m’offri Lulú, squadrandomi
di su i cerchi della lente
“Mariandin Gogò, prendetelo;
questo è cane molto ardito;
molto io l’amo; ho torto! Dandogli,
come faccio, il ben servito,
ahi, mi sgorgano due lacrime
(ecco, sgorgano, vedete?)
sú dal cuor! Ma è necessario
che se’n vada: or sú, prendete!
La decenza inglese vietami
ch’io lo tenga, amico mio,
per de l’altro in casa. È orribile,
ma che far, che far poss’io,
s’egli ha osato – horresco referens!
(che vuol dir che mi fa orrore) –
abbajar ne la Basilica
di San Paolo a un buon pastore,
e le falde del soprabito
addentare al piú famoso
tra la schiera dei filosofi?…
E altro ha osato, ch’io non oso
di ridir, ma figuratevi
Mariandin, ch’ei, cane inglese,
osò dietro a cagna correre,
pfui! cattolica, irlandese…
Sú, sú, via Gogò, prendetelo!
Là giú in Francia ve’l portate.
Quello è il suo paese! In libero
modo lí lo ammaestrate;
quando poi, piú giú, in Italia
voi sarete di ritorno,
ai tedeschi biondi e ceruli
lo mostrate. E addio. Buon giorno.”
Io, con questo directorium,
non so ben che dir volesse
quella Miss vecchia, magrissima;
ma che il cane l’intendesse,
sospettai, sospetto. Dubbio
non v’ha certo, che la Francia
Lulú amò, quanto può bestia
che possegga buona pancia;
ragion anzi ho ben di credere,
ch’egli l’ami ancora, il boja…
Lo sapeste, qui in Italia,
Lulú mio come s’annoja!
Io presento solo a titolo
d’assai raro non so che
questo cane malinconico
come un vecchio e nobil re.
Però che, per mia disgrazia,
da tant’anni che l’ho a mano,
ei, com’usa la sua patria,
non sa far che l’indiano.
Né con lui posso permettermi
scherzo alcuno eccetto questo,
che per altro è innocentissimo:
di posargli – col pretesto
ch’io far debbo il giro a mungervi
qualche spicciolo – il berretto
di buffone in capo. Ei guardami,
e par dica: “Tel permetto.,
ma il perché vo’ che tu sappia:
perché in cuore io son francese,
e la grande arte di vivere
ho imparato in quel paese.”
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