110. Male di luna – Novella

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Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 22 settembre 1913, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914, poi nella nuova edizione riveduta della raccolta dal titolo Tu ridi, Treves, Milano 1920 col titolo “Quintadecima”.
«E nel ritrarsi verso la porta, scorse anch’egli dalla grata della finestrella alta, nella parete di faccia, la luna che, se di là dava tanto male al marito, di qua pareva ridesse, beata e dispettosa, della mancata vendetta della moglie.»

Novella dalla Raccolta “Dal naso al cielo” (1925)

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male di luna
Immagine dal Web

Male di luna – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Male di luna – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Male di luna – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
Male di luna – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

7. Male di luna – 1913

             Batà sedeva tutto aggruppato su un fascio di paglia, in mezzo all’aja.

             Sidora, sua moglie, di tratto in tratto si voltava a guardarlo, in pensiero, dalla soglia su cui stava a sedere, col capo appoggiato allo stipite della porta, e gli occhi socchiusi. Poi, oppressa dalla gran calura, tornava ad allungare lo sguardo alla striscia azzurra di mare lontano, come in attesa che un soffio d’aria, essendo ormai prossimo il tramonto, si levasse di là e trascorresse lieve fino a lei, a traverso le terre nude, irte di stoppie bruciate.

             Tanta era la calura, che su la paglia rimasta su l’aja dopo la trebbiatura, l’aria si vedeva tremolare coni’ alito di bragia.

             Batà aveva tratto un filo dal fascio su cui stava seduto, e tentava di batterlo con mano svogliata su gli scarponi ferrati. Il gesto era vano. Il filo di paglia, appena mosso, si piegava. E Batà restava cupo e assorto, a guardare in terra.

             Era nel fulgore tetro e immoto dell’aria torrida un’oppressione così soffocante, che quel gesto vano del marito, ostinatamente ripetuto, dava a Sidora una smania insopportabile. In verità, ogni atto di quell’uomo, e anche la sola vista le davano quella smania, ogni volta a stento repressa.

             Sposata a lui da appena venti giorni, Sidora si sentiva già disfatta, distrutta. Avvertiva dentro e intorno a sé una vacuità strana, pesante e atroce. E quasi non le pareva vero, che da sì poco tempo era stata condotta lì, in quella vecchia roba isolata, stalla e casa insieme, in mezzo al deserto di quelle stoppie, senz’un albero intorno, senza un filo d’ombra.

             Lì, soffocando a stento il pianto e il ribrezzo, da venti giorni appena aveva fatto abbandono del proprio corpo a quell’uomo taciturno, che aveva circa vent’anni di più di lei e su cui pareva gravasse ora una tristezza più disperata della sua.

             Ricordava ciò che le donne del vicinato avevano detto alla madre, quando questa aveva loro annunziato la richiesta di matrimonio.

             – Batà? Oh Dio, io per me non lo darei a una mia figliuola.

             La madre aveva creduto lo dicessero per invidia, perché Batà per la sua condizione era agiato. E tanto più s’era ostinata a darglielo, quanto più quelle con aria afflitta s’erano mostrate restie a partecipare alla sua soddisfazione per la buona ventura che toccava alla figlia. No, in coscienza non si diceva nulla di male di Batà, ma neanche nulla di bene. Buttato sempre là, in quel suo pezzo di terra lontano, non si sapeva come vivesse; stava sempre solo, come una bestia in compagnia delle sue bestie, due mule, un’asina e il cane di guardia; e certo aveva un’aria strana, truce e a volte da insensato.

             C’era stata veramente un’altra ragione e forse più forte, per cui la madre s’era ostinata a darle quell’uomo. Sidora ricordava anche quest’altra ragione che in quel momento le appariva lontana lontana, come d’un’altra vita, ma pure spiccata, precisa. Vedeva due fresche labbra argute e vermiglie come due foglie di garofano aprirsi a un sorriso che le faceva fremere e frizzare tutto il sangue nelle vene. Erano le labbra di Saro, suo cugino, che nell’amore di lei non aveva saputo trovar la forza di rinsavire, di liberarsi dalla compagnia dei tristi amici, per togliere alla madre ogni pretesto d’opporsi alle loro nozze.

             Ah, certo, Saro sarebbe stato un pessimo marito; ma che marito era questo, adesso? Gli affanni, che senza dubbio le avrebbe dati quell’altro, non eran forse da preferire all’angoscia, al ribrezzo, alla paura, che le incuteva questo?

             Batà, alla fine, si sgruppò; ma appena levato in piedi, quasi colto da vertigine, fece un mezzo giro su se stesso; le gambe, come impastojate, gli si piegarono; si sostenne a stento, con le braccia per aria. Un mugolo quasi di rabbia gli partì dalla gola.

             Sidora accorse atterrita; ma egli l’arrestò con un cenno delle braccia. Un fiotto di saliva, inesauribile, gì’impediva di parlare. Arrangolando, se lo ricacciava dentro; lottava contro i singulti, con un gorgoglio orribile nella strozza. E aveva la faccia sbiancata, torbida, terrea; gli occhi foschi e velati, in cui dietro la follia si scorgeva una paura quasi infantile, ancora cosciente, infinita. Con le mani seguitava a farle cenno di attendere e di non spaventarsi e di tenersi discosta. Alla fine, con voce che non era più la sua, disse:

             –    Dentro… chiuditi dentro… bene… Non ti spaventare… Se batto, se scuoto la porta e la graffio e grido… non ti spaventare… non aprire… Niente… va’! va’!

             –    Ma che avete? – gli gridò Sidora, raccapricciata.

             Batà mugolò di nuovo, si scrollò tutto per un possente sussulto convulsivo, che parve gli moltiplicasse le membra; poi, col guizzo d’un braccio indicò il cielo, e urlò:

             – La luna!

             Sidora, nel voltarsi per correre alla roba, difatti intravide nello spavento la luna in quintadecima, affocata, violacea, enorme, appena sorta dalle livide alture della Crocea.

             Asserragliata dentro, tenendosi stretta come a impedire che le membra le si staccassero dal tremore continuo, crescente, invincibile, mugolando anche lei, forsennata dal terrore, udì poco dopo gli ululi lunghi, ferini, del marito che si scontorceva fuori, là davanti la porta, in preda al male orrendo che gli veniva dalla luna, e contro la porta batteva il capo, i piedi, i ginocchi, le mani, e la graffiava, come se le unghie gli fossero diventate artigli, e sbuffava, quasi nell’esasperazione d’una bestiale fatica rabbiosa, quasi volesse sconficcarla, schiantarla, quella porta, e ora latrava, latrava, come se avesse un cane in corpo, e daccapo tornava a graffiare, sbruffando, ululando, e a battervi il capo, i ginocchi.

             –   Ajuto! ajuto! – gridava lei, pur sapendo che nessuno in quel deserto avrebbe udito le sue grida. – Ajuto! ajuto! – e reggeva la porta con le braccia, per paura che da un momento all’altro, non ostante i molti puntelli, cedesse alla violenza iterata, feroce, accanita, di quella cieca furia urlante.

             Ah, se avesse potuto ucciderlo! Perduta, si voltò, quasi a cercare un’arma nella stanza. Ma a traverso la grata d’una finestra, in alto, nella parete di faccia, di nuovo scorse la luna, ora limpida, che saliva nel cielo, tutto inondato di placido albore. A quella vista, come assalita d’improvviso dal contagio del male, cacciò un gran grido e cadde riversa, priva di sensi.

             Quando si riebbe, in prima, nello stordimento, non comprese perché fosse così buttata a terra. I puntelli della porta le richiamarono la memoria e subito s’atterrì del silenzio che ora regnava là fuori. Sorse in piedi; s’accostò vacillante alla porta, e tese l’orecchio.

             Nulla, più nulla.

             Stette a lungo in ascolto, oppressa ora di sgomento per quell’enorme silenzio misterioso, di tutto il mondo. E alla fine le parve d’udire da presso un sospiro, un gran sospiro, come esalato da un’angoscia mortale.

             Subito corse alla cassa sotto il letto; la trasse avanti; l’aprì; ne cavò la mantellina di panno; ritornò alla porta; tese di nuovo a lungo l’orecchio, poi levò a uno a uno in fretta, silenziosamente, i puntelli, silenziosamente levò il paletto, la stanga; schiuse appena un battente, guatò attraverso lo spiraglio per terra.

             Batà era lì. Giaceva come una bestia morta, bocconi, tra la bava, nero, tumefatto, le braccia aperte. Il suo cane, acculato lì presso, gli faceva la guardia, sotto la luna.

             Sidora venne fuori rattenendo il fiato; riaccostò pian piano la porta, fece al cane un cenno rabbioso di non muoversi di lì, e cauta, a passi di lupo, con la mantellina sotto il braccio, prese la fuga per la campagna, verso il paese, nella notte ancora alta, tutta soffusa dal chiarore della luna.

             Arrivò al paese, in casa della madre, poco prima dell’alba. La madre s’era alzata da poco. La catapecchia, buja come un antro, in fondo a un vicolo angusto, era stenebrata appena da una lumierina a olio. Sidora parve la ingombrasse tutta, precipitandosi dentro, scompigliata, affannosa.

             Nel veder la figliuola a quell’ora, in quello stato, la madre levò le grida e fece accorrere con le lumierine a olio in mano tutte le donne del vicinato.

             Sidora si mise a piangere forte e, piangendo, si strappava i capelli, fingeva di non poter parlare per far meglio comprendere e misurare alla madre, alle vicine, l’enormità del caso che le era occorso, della paura che s’era presa.

             – Il male di luna! il male di luna!

             Il terrore superstizioso di quel male oscuro invase tutte le donne, al racconto di Sidora.

             Ah, povera figliuola! Lo avevano detto esse alla madre, che quell’uomo non era naturale, che quell’uomo doveva nascondere in sé qualche grossa magagna; che nessuna di loro lo avrebbe dato alla propria figliuola. Latrava eh? ululava come un lupo? graffiava la porta? Gesù, che spavento! E come non era morta, povera figliuola?

             La madre, accasciata su la seggiola, finita, con le braccia e il capo ciondoloni, nicchiava in un canto:

             – Ah figlia mia! ah figlia mia! ah povera figliuccia mia rovinata!

             Sul tramonto, si presentò nel vicolo, tirandosi dietro per la cavezza le due mule bardate, Batà, ancora gonfio e livido, avvilito, abbattuto, imbalordito.

             Allo scalpiccio delle mule sui ciottoli di quel vicolo che il sole d’agosto infocava come un forno, e che accecava per gli sbarbagli della calce, tutte le donne, con gesti e gridi soffocati di spavento, si ritrassero con le seggiole in fretta nelle loro casupole, e sporsero il capo dall’uscio a spiare e ad ammiccarsi tra loro.

             La madre di Sidora sulla soglia si parò, fiera e tutta tremante di rabbia, e cominciò a gridare:

             – Andate via, malo cristiano! Avete il coraggio di ricomparirmi davanti? Via di qua! via di qua! Assassino traditore, via di qua! Mi avete rovinato una figlia! Via di qua!

             E seguitò per un pezzo a sbraitare così, mentre Sidora, rincantucciata dentro, piangeva, scongiurava la madre di difenderla, di non dargli passo.

             Batà ascoltò a capo chino minacce e vituperii. Gli toccavano: era in colpa; aveva nascosto il suo male. Lo aveva nascosto, perché nessuna donna se lo sarebbe preso, se egli lo avesse confessato avanti. Era giusto che ora della sua colpa pagasse la pena.

             Teneva gli occhi chiusi e scrollava amaramente il capo, senza muoversi d’un passo. Allora la suocera gli batté la porta in faccia e ci mise dietro la stanga. Batà rimase ancora un pezzo, a capo chino, davanti a quella porta chiusa, poi si voltò e scorse su gli usci delle altre casupole tanti occhi smarriti e sgomenti, che lo spiavano.

             Videro quegli occhi le lagrime sul volto dell’uomo avvilito, e allora lo sgomento si cangiò in pietà.

             Una prima comare più coraggiosa gli porse una sedia; le altre, a due, a tre, vennero fuori, e gli si fecero attorno. E Batà, dopo aver ringraziato con muti cenni del capo, prese adagio adagio a narrar loro la sua sciagura: che la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un’aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui povero innocente, con la pancina all’aria, mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccini. E la luna lo aveva «incantato». L’incanto però gli aveva dormito dentro per anni e anni, e solo da poco tempo gli s’era risvegliato. Ogni volta che la luna era in quintadecima, il male lo riprendeva. Ma era un male soltanto per lui; bastava che gli altri se ne guardassero: e se ne potevano guardar bene, perché era a periodo fisso ed egli se lo sentiva venire e lo preavvisava; durava una notte sola, e poi basta. Aveva sperato che la moglie fosse più coraggiosa; ma, poiché non era, si poteva far così, che, o lei, a ogni fatta di luna, se ne venisse al paese, dalla madre; o questa andasse giù alla roba, a tenerle compagnia.

             – Chi? mia madre? – saltò a gridare a questo punto, avvampata d’ira, con occhi feroci, Sidora, spalancando la porta, dietro alla quale se ne era stata a origliare. – Voi siete pazzo! Volete far morire di paura anche mia madre?

             Questa allora venne fuori anche lei, scostando con un gomito la figlia e imponendole di star zitta e quieta in casa. Si accostò al crocchio delle donne, ora divenute tutte pietose, e si mise a confabular con esse, poi con Batà da sola a solo.

             Sidora dalla soglia, stizzita e costernata, seguiva i gesti della madre e del marito; e, come le parve che questi facesse con molto calore qualche promessa che la madre accoglieva con evidente piacere, si mise a strillare:

             – Gnomo! Scordatevelo! State ad accordarvi tra voi? È inutile! è inutile! Debbo dirlo io!

             Le donne del vicinato le fecero cenni pressanti di star zitta, d’aspettare che il colloquio terminasse. Alla fine Batà salutò la suocera, le lasciò in consegna una delle due mule, e, ringraziate le buone vicine, tirandosi dietro l’altra mula per la cavezza, se ne andò.

             –    Sta’ zitta, sciocca! – disse subito, piano, la madre a Sidora, rincasando. – Quando farà la luna, verrò giù io, con Saro…

             –    Con Saro? L’ha detto lui?

             –    Gliel’ho detto io, sta’ zitta! Con Saro.

             E, abbassando gli occhi per nascondere il sorriso, finse d’asciugarsi la bocca sdentata con una cocca del fazzoletto che teneva in capo, annodato sotto il mento, e aggiunse:

             – Abbiamo forse, di uomini, altri che lui nel nostro parentado? E l’unico che ci possa dare ajuto e conforto. Sta’ zitta!

             Così la mattina appresso, all’alba, Sidora ripartì per la campagna su quell’altra mula lasciata dal marito.

             Non pensò ad altro più, per tutti i ventinove giorni che corsero fino alla nuova quintadecima. Vide quella luna d’agosto a mano a mano scemare e sorgere sempre più tardi, e col desiderio avrebbe voluto affrettarne le fasi declinanti; poi per alcune sere non la vide più; la rivide infine tenera, esile nel cielo ancora crepuscolare, e a mano a mano, di nuovo crescere sempre più.

             – Non temere, – le diceva, triste, Batà, vedendola con gli occhi sempre fissi alla luna. – C’è tempo ancora, c’è tempo! Il guajo sarà, quando non avrà più le corna…

             Sidora, a quelle parole accompagnate da un ambiguo sorriso, si sentiva gelare e lo guardava sbigottita.

             Giunse alla fine la sera tanto sospirata e insieme tanto temuta. La madre arrivò a cavallo col nipote Saro due ore prima che sorgesse la luna.

             Batà se ne stava come l’altra volta aggruppato tutto sull’aja, e non levò neppure il capo a salutare.

             Sidora, che fremeva tutta, fece segno al cugino e alla madre di non dirgli nulla e li condusse dentro la roba. La madre andò subito a ficcare il naso in un bugigattolino bujo, ov’erano ammucchiati vecchi arnesi da lavoro, zappe, falci, bardelle, ceste, bisacce, accanto alla stanza grande che dava ricetto anche alle bestie.

             –   Tu sei uomo, – disse a Saro, – e tu sai già com’è, – disse alla figlia; – io sono vecchia, ho paura più di tutti, e me ne starò rintanata qua, zitta zitta e sola sola. Mi chiudo bene, e lui faccia pure il lupo fuori.

             Riuscirono tutti e tre all’aperto, e si trattennero un lungo pezzo a conversare davanti alla roba. Sidora, a mano a mano che l’ombra inchinava su la campagna, lanciava sguardi vieppiù ardenti e aizzosi. Ma Saro, pur così vivace di solito, brioso e buontempone, si sentiva all’incontro a mano a mano smorire, rassegare il riso su le labbra, inaridir la lingua. Come se sul murello, su cui stava seduto, ci fossero spine, si dimenava di continuo e inghiottiva con stento. E di tratto in tratto allungava di traverso uno sguardo a quell’uomo lì in attesa dell’assalto del male; allungava anche il collo per vedere se dietro le alture della Crocea non spuntasse la faccia spaventosa della luna.

             –   Ancora niente, – diceva alle due donne.

             Sidora gli rispondeva con un gesto vivace di noncuranza e seguitava, ridendo, ad aizzarlo con gli occhi.

             Di quegli occhi, ormai quasi impudenti, Saro cominciò a provare orrore e terrore, più che di quell’uomo là aggruppato, in attesa.

             E fu il primo a spiccare un salto da montone dentro la roba, appena Batà cacciò il mugolo annunziatore e con la mano accennò ai tre di chiudersi subito dentro. Ah, con qual furia si diede a metter puntelli e puntelli e puntelli, mentre la vecchia si rintanava mogia mogia nello sgabuzzino, e Sidora, irritata, delusa, gli ripeteva, con tono ironico:

             –   Ma piano, piano… non ti far male… Vedrai che non è niente.

             Non era niente? Ah, non era niente? Coi capelli drizzati su la fronte, ai primi ululi del marito, alle prime testate, alle prime pedate alla porta, ai primi sbruffi e graffi, Saro, tutto bagnato di sudor freddo, con la schiena aperta dai brividi, gli occhi sbarrati, tremava a verga a verga. Non era niente? Signore Iddio! Signore Iddio! Ma come? Era pazza quella donna là? Mentre il marito, fuori, faceva alla porta quella tempesta, eccola qua, rideva, seduta sul letto, dimenava le gambe, gli tendeva le braccia, lo chiamava:

             –   Saro! Saro!

             Ah sì? Irato, sdegnato, Saro d’un balzo saltò nel bugigattolo della vecchia, la ghermì per un braccio, la trasse fuori, la buttò a sedere sul letto accanto alla figlia.

             –   Qua, – urlò. – Quest’è matta!

             E nel ritrarsi verso la porta, scorse anch’egli dalla grata della finestrella alta, nella parete di faccia, la luna che, se di là dava tanto male al marito, di qua pareva ridesse, beata e dispettosa, della mancata vendetta della moglie.

Raccolta Dal naso al cielo
01 – Dal naso al cielo – 1907
02 – Fuga – 1923
03 – Certi obblighi – 1912
04 – Ciàula scopre la luna – 1912
05 – Chi la paga – 1912
06 – Benedizione – 1910
07 – Male di luna – 1913
08 – Il figlio cambiato – 1902
09 – Lo storno e l’Angelo Centuno – 1910
10 – «Superior stabat lupus» – 1912
11 – Nel dubbio – 1906
12 – La corona – 1907
13 – Jeri e oggi – 1919
14 – Nel gorgo – 1913
15 – Musica vecchia – 1910

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