L’uomo solo – Audio lettura 4

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Legge Giuseppe Tizza
«L’aria, satura di tutte le fragranze delle ville vicine, pareva grillasse d’un baglior d’oro, e tutti i visi delle donne, sotto i cappelloni spavaldi, sorridevano accesi da riflessi purpurei.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 9 luglio 1911, poi in La trappola, Treves, Milano 1915.

L uomo solo. audiolibro 4
Emil Nolde (1867 – 1956), Coal workers at the pub, 1908.

L’uomo solo

Voce di Giuseppe Tizza

******

             Si riunivano all’aperto, ora che la stagione lo permetteva, attorno a un tavolinetto del caffè sotto gli alberi di via Veneto.

             Venivano prima i Groa, padre e figlio. E tanta era la loro solitudine che, pur così vicini, parevano l’uno dall’altro lontanissimi. Appena seduti, sprofondavano in un silenzio smemorato, che li allontanava anche da tutto, così che se qualche cosa cadeva loro per caso sotto gli occhi, dovevano strizzare un po’ le palpebre per guardarla. Venivano alla fine insieme gli altri due: Filippo Romeni e Carlo Spina. Il Romelli era vedovo da cinque mesi; lo Spina, scapolo. Mariano Groa era diviso dalla moglie da circa un anno e s’era tenuto con sé l’unico figliuolo, Torellino, già studente di liceo, smilzo, tutto naso, dai lividi occhietti infossati e un po’ loschi.

             Là attorno al tavolino, dopo i saluti, raramente scambiavano tra loro qualche parola. Sorseggiavano una piccola Pilsen, succhiavano qualche sciroppo con un cannuccio di paglia, e stavano a guardare, a guardar tutte le donne che passavano per via, sole, a coppie, o accompagnate dai mariti: spose, giovinette, giovani madri coi loro bambini; e quelle che scendevano dalla tranvia, dirette a Villa Borghese, e quelle che ne tornavano in carrozza, e le forestiere che entravano al grande albergo dirimpetto o ne uscivano, a piedi, in automobile.

             Non staccavano gli occhi da una che per attaccarli subito a un’altra, e la seguivano con lo sguardo, studiandone ogni mossa o fissandone qualche tratto, il seno, i fianchi, la gola, le rosee braccia trasparenti dai merletti delle maniche: storditi, inebriati da tutto quel brulichio, da tutto quel fremito di vita, da tanta varietà d’aspetti e di colori e di espressioni, e tenuti in un’ansia angosciosa di confusi sentimenti e pensieri e rimpianti e desiderii, ora per uno sguardo fuggevole, ora per un sorriso lieve di compiacenza che riuscivano a cogliere da questa o da quella, tra il frastuono delle vetture e il passerajo fitto, continuo che veniva dalle prossime ville.

             Sentivano tutti e quattro, ciascuno a suo modo, il bisogno cocente della donna, di quel bene che nella vita può dar solo la donna, che tante di quelle donne già davano col loro amore, con la loro presenza, con le loro cure, e forse senz’esserne ricompensate a dovere dagli uomini ingrati.

             Appena questo dubbio sorgeva in essi per l’aria triste di qualcuna, i loro sguardi s’affrettavano a esprimere un intenso accoramento o un’acerba condanna o una pietosa adorazione. E quelle giovinette? Chi sa com’eran disposte e pronte a dar la gioja del loro corpo! E dovevano invece sciuparsi in un’attesa forse vana tra finte ritrosie in pubblico e chi sa che smanie in segreto.

             Ciascuno, con quel quadro fascinoso davanti, pensando alla propria casa senza donna, vuota, squallida, muta, compreso da una profonda amarezza, sospirava.

             Filippo Romelli, il vedovo, piccolino di statura, pulito, in quel suo abito nero da lutto ancora senza una grinza, preciso in tutti i lineamenti fini, d’omettino bello vezzeggiato dalla moglie, si recava tutte le domeniche al camposanto a portar fiori alla sua morta, e più degli altri due sentiva l’orrore della propria casa attufata dai ricordi, dove ogni oggetto, nell’ombra e nel silenzio, pareva stesse ancora ad aspettare colei che non vi poteva più far ritorno, colei che lo accoglieva ogni volta con tanta festa e lo curava e lo lisciava e gli ripeteva con gli occhi ridenti come e quanto fosse contenta d’esser sua.

             In tutte le donne che vedeva passare per via lui badava ora a sorprender la grazia di qualche mossa che gli richiamasse viva l’immagine della sua donna, non com’era ultimamente, ma qual era stata un tempo, quando gli aveva dato quella tal gioja che quest’altra, ora, gli ridestava pungente nella memoria; e subito serrava le labbra per l’impeto della commozione che gli saliva amara alla gola, e socchiudeva un po’ gli occhi, come fanno al vento gli uccelli abbandonati su un ramo.

             Anche nella sua donna, negli ultimi tempi, aveva amato il ricordo delle gioje passate, che non potevano più, ormai, esser per lui. Nessuna donna più lo avrebbe amato, ora, per se stesso. Aveva già quasi cinquantanni.

             Ah, per lui la sorte era stata veramente crudele! Vedersi strappare la compagna in quel punto, alla soglia della vecchiaja, quando ne aveva più bisogno, quando anche l’amore, sempre irrequieto nella gioventù, cominciava a pregia soltanto la tranquillità del nido fedele! E ecco che ora gli toccava a risentire l’irrequietezza di esso, fuori tempo, e perciò ridicola e disperata. Allo Spina, amico suo indivisibile da tanti anni, aveva detto più volte:

             – Verità sacrosanta, amico mio: l’uomo non può esser tranquillo, se non s’è assicurate tre cose: il pane, la casa, l’amore. Donne, tu ne trovi adesso; ti posso anche ammettere che, quanto a questo, tu stai meglio di me, per ora. Ma la gioventù, caro è assai più breve della vecchiaja. Lo scapolo gode in gioventù, ma poi soffre in vecchiaja. L’ammogliato, al contrario. Ha più tempo di goder l’ammogliato dunque, come vedi!

             Sissignore bella risposta gli aveva dato la sorte! Lo Spina, ora, vecchio scapolo, cominciava a soffrire del vuoto della sua vita, in una camera d’affitto, tra mobili volgari, neppur suoi; ma almeno poteva dire d’aver goduto a suo modo in gioventù e d’aver voluto lui che fosse così sola e senza conforto di cure amiche e senz’abitudine d’affetti la sua vecchiaja. Ma lui!

             Eppure, forse più crudele della sua era la sorte di Mariano Groa. Bastava guardarlo, poveretto, per comprenderlo.

             Lui, Romelli, pur così sconsolato com’era, trovava tuttavia in sé la forza di pulirsi, d’aggiustarsi, perfino d’insegarsi ancora i baffettini grigi; mentre quel povero Groa… Eccolo là: panciuto, sciamannato, con una grinta da can mastino con gli occhiali, ispido di una barba non rifatta chi sa da quanti giorni, e con la giacca senza bottoni, il colletto spiegazzato, giallo di sudore, la cravatta sudicia, annodata di traverso.

             Guardava le donne con occhiacci feroci, quasi se le volesse mangiare.

             E ogni tanto, fissandone qualcuna, ansimava, come se gli si stringesse il naso; si scoteva, facendo scricchiolar la sedia, e si metteva in un’altra positura non meno truce, col pomo del bastone sotto il mento, affondato nella pappagorgia lustra di sudore.

             Sapeva da tant’anni che la moglie – vezzosa donnettina dal nasino ritto, due fossette impertinenti alle guance e occhietti vivi vivi, da furetto – lo tradiva. Alla fine, un brutto giorno, era stato costretto ad accorgersene, e s’era diviso da lei legalmente. Se n’era pentito subito dopo; ma lei non aveva più voluto saperne, contenta delle duecento lire al mese ch’egli le passava per mezzo del figliuolo, il quale andava a visitarla ogni due giorni. –

             Il pover uomo era divorato dalla brama di riaverla. La amava ancora come un pazzo, e senza lei non poteva più stare; non aveva più requie!

             Spesso, il figliuolo, che gli dormiva accanto, sentendolo piangere o gemere con la faccia affondata nel guanciale, si levava su un gomito e cercava di confortarlo amorosamente:

             – Papà, papà…

             Ma spesso anche Torellino si seccava a vederlo smaniare così; e nei giorni che doveva recarsi a visitare la madre, sbuffava ogni qual volta egli si metteva a suggerirgli tutto quello che avrebbe desiderato le dicesse per intenerirla, lo stato in cui si trovava, così senza cure, alla sua età; la sua disperazione; il suo pianto; e che non poteva dormire, e che non sapeva più reggere, né come fare.

             Era un tormento per Torellino! E anche una vergogna che lo sconcertava tutto e lo faceva sudar freddo. Tanto più che poi quelle ambasciate non servivano a nulla, perché già più volte la madre, irremovibile, gli aveva fatto rispondere che non ne voleva nemmeno sentir parlare.

             E che altro tormento ogni qual volta ritornava da quelle visite! Il padre lo aspettava a pie della scala, ansante, la faccia infiammata e gli occhi acuti e spasimosi, lustri di lagrime. Subito, appena lo vedeva, lo assaliva di domande:

             – Com’è? com’è? che t’ha detto? Come l’hai trovata?

             E a ogni risposta, arricciava il naso, chiudeva gli occhi, divaricava le labbra, come se ricevesse pugnalate.

             –    Ah, sì, tranquilla? Non dice niente? Ah, dice che sta bene così? E tu, tu che le hai detto?

             –    Niente, io, papà…

             Ah, niente, è vero? E si mordeva le mani dalla rabbia; poi prorompeva:

             –    Eh sì! eh sì! Seguitate! Seguitate! E comodo… Seguita così, tu pure, caro! Sfido… Che vi manca? C’è il bue qua, che lavora per voi… Seguitate, seguitate senza nessuna considerazione per me! Ma non lo capisci, perdio, che io non posso più vivere così? Che ho bisogno d’ajuto? Che io così muojo, non lo capisci? Non Io capisci?

             –    Ma che ci posso fare io, papà? – si scrollava Torellino, alla fine, esasperato.

             –    Niente! Niente! Seguita! – riprendeva lui, ingozzando le lagrime. – Ma non ti pare almeno che sia una nequizia farmi morire così? Perché, sai? io muojo! Io vi lascio tutti e due in mezzo a una strada, e la faccio finita! La faccio finita!

             Si pentiva subito di queste sfuriate, e compensava con carezze, con regali il figliuolo; lo avviziava; gli prodigava le cure di una madre; e non badava a sé, ai suoi abiti, alle sue scarpe, alla sua biancheria, purché il figlio andasse ben vestito, di tutto punto, e si presentasse alla mamma ogni due* giorni come un figurino.

             S’inteneriva lui stesso di quella sua bontà, non solo non rimeritata, ma neppur commiserata da nessuno, calpestata anzi da tutti; si struggeva in quella sua tenerezza; sentiva proprio che il cuore gli si sfaceva in petto, strizzato dall’angoscia, macerato dalla pena.

             Aveva coscienza di non aver fatto mai, mai, il minimo torto a quell’infame donna che lo aveva trattato così!

             Che ci poteva far lui se attorno al suo cuore tenero e semplice, di bambino, era cresciuto tutto quel corpaccio da maiale? Nato per la casa, per adorare una donna sola nella vita, che gli volesse – non molto! non molto! – un po’ di bene, quanto compenso le avrebbe saputo dare, per questo po’ di bene!

             Con gli occhi invetrati dalle lagrime a stento contenute, ora stava a mirar per via ogni coppia di sposi, che gli pareva andasse d’amore e d’accordo. Si sarebbe buttato in ginocchio davanti a ogni moglie onesta e saggia, che fosse il sorriso e la benedizione d’una casa, che amasse teneramente il suo sposo e curasse i suoi figliuoli.

             A lui, giusto a lui doveva toccare una donna come quella! Chi sa quante ce n’erano di buone, lì, tra quelle che passavano per via; quante avrebbero fatto la sua felicità, perché non chiedeva molto lui, un po’ d’affetto, poco!

             Lo mendicava con quegli occhi, che parevano truci, a tutte le donne che vedeva passare; ma non per averlo da esse: da una sola, da quella, lui lo voleva, poiché quella sola avrebbe potuto darglielo onestamente, legato com’era dal vincolo del matrimonio e con quel suo povero figliuolo accanto.

             All’ombra dei grandi alberi della via, brulicava quella sera con fremito più intenso la vita.

             I due amici Spina e Romelli tardavano ancora a venire.

             L’aria, satura di tutte le fragranze delle ville vicine, pareva grillasse d’un baglior d’oro, e tutti i visi delle donne, sotto i cappelloni spavaldi, sorridevano accesi da riflessi purpurei. Offrivano con quel sorriso all’ammirazione e al desiderio degli uomini il loro corpo disegnato nettamente dagli abiti succinti.

             Le rose d’una bottega di fiorajo lì presso, dietro le spalle del Groa, esalavano un profumo così voluttuoso, che il pover uomo ne aveva un greve stordimento di ebbrezza, per cui già tutto quel brulichio di vita assumeva innanzi a lui contorni vaporosi di sogno, e gli destava quasi il dubbio della irrealità di quanto vedeva, coi romori che gli si attutivano agli orecchi, come se venissero da lontano lontano, e non da tutto quel sogno lì maraviglioso.

             Alla fine, quegli altri due arrivarono. Discutevano tra loro animatamente. Il piccolo Romelli, vestito di nero, era nervoso, convulso; scattava a tratti come per scosse elettriche, e lo Spina, accalorato, cercava di calmarlo, di convincerlo.

             – Sì, due sorelle, due sorelle! Lasciate fare a me! Ancora è presto. Ora se diamo.

             Il Groa fece segno con gli occhi ai due di non parlar di tali cose davanti al suo figliuolo; poi, comprendendo che essi, così accesi com’erano, non avrebbero saputo frenarsi, si volse a Torellino e lo invitò a farsi una giratina lì a Villa Borghese.

             Il ragazzo s’avviò, svogliato, sbuffando. Fatti pochi passi, si voltò e vide che i tre, con le teste riunite, confabulavano misteriosamente attorno al tavolino; ma il padre scrollava il capo, diceva di no, di no.

             Lo Spina, certo, li tentava.

             Quando, dopo una mezz’ora, Torellino ritornò, i due, il Romelli e lo Spina, erano andati via. Il padre era solo, ad attenderlo; in una solitudine disperata; con un viso così alterato, con tanto spasimo tetro negli occhi, che il figlio restò a mirarlo, sgomento.

             – Vogliamo andare, papà?

             Il Groa parve non lo sentisse. Lo guatò. Serrò le labbra con una smorfia di pianto, quasi infantile, ed ebbe per tutta la persona uno scotimento di singhiozzi soffocati.

             Poi si alzò; prese il figlio per un braccio; glielo strinse con tutta la forza, come se volesse comunicargli con quella stretta qualcosa che non poteva o non sapeva dire. E andarono, andarono verso via di Porta Pinciana.

             Torellino si sentiva trascinato verso la casa ove abitava la madre. Ecco, vi sarebbero giunti tra poco: era là in capo al secondo vicolo, ove ardeva il fanale. E a mano a mano s’induriva contro il braccio del padre, il quale, avvertendo la resistenza, lo guardava ansioso, per intenerirlo.

             «Oh Dio, oh Dio», pensava Torellino, «la solita storia! Il solito tormento! Andar su, è vero? Pregare la madre che s’arrendesse finalmente; sentirsi dire di no ancora una volta? No, no.»

             E, risoluto, davanti al vicolo, sotto il fanale, s’impuntò e disse al padre:

             –    No, sai, papà? Io non salgo! Io non ci vado! Il Groa guardò il figlio con occhi atroci.

             –    No? – fremette. – No?

             E lo respinse da sé, piano, senza aggiungere altro. Lasciato lì quieto in mezzo alla via deserta, Torellino, dapprima un po’ stordito, ebbe a un tratto l’impressione che il padre si fosse per sempre staccato da lui, quasi balzando d’improvviso laggiù, lontano, e che per sempre si perdesse confuso, estraneo tra i tanti estranei che andavano per quella via in discesa. Allora si mosse a seguirlo da lontano, costernato.

             Lo seguì, senza farsi scorgere, giù per Capo le Case, giù per via Due Macelli, per via Condotti, per via Fontanella di Borghese, per piazza Nicosia… Sboccando in via di Tordinona, si fermò.

             Venivano fuori da un vicoletto bujo il Romelli e lo Spina, e il padre s’univa ad essi. Il Romelli aveva sugli occhi un fazzoletto listato di nero e singhiozzava. Tutti e tre anelavano ad appoggiarsi alla spalletta del Lungotevere.

             – Ma stupido! Perché? – gridava lo Spina, scotendo per un braccio il Romelli. – Tanto carina! Tanto graziosa!

             E il Romelli, tra i singhiozzi:

             – Impossibile! Impossibile! Tu non puoi comprendere… Il pudore! La santità della casa!

             Lo Spina allora si volgeva al padre.

             Nella chiara sera di maggio, presso le acque del fiume che pareva ritenessero ancora la luce del giorno sparito, si distinguevano con precisione tutti i gesti e anche i tratti del volto di quei tre uomini agitati.

             Lo Spina voleva ora convincere il padre del torto del Romelli, che seguitava ad asciugarsi il volto in disparte. Il padre stava a guardar lo Spina con occhi sbarrati, feroci; all’improvviso lo afferrava per il bavero della giacca, gli dava un poderoso scrollone e lo mandava a schizzar lontano; poi, balzando sul parapetto dell’argine, gridava con le braccia levate, enorme:

             – Ecco, si fa così!

             E giù, nel fiume. Un tonfo. Due gridi, e un terzo grido, da lontano, più acuto, del figlio che non poteva accorrere, con le gambe quasi stroncate dal terrore.

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