Di Pietro Seddio.
“La mia vita non è che lavoro e studio. Le mie opere, che alcuni credono non meditate e buttate giù di petto, sono invece il risultato di un lungo periodo di incubazione spirituale. Sono isolato dal mondo e non ho che il mio lavoro e la mia arte. La politica? Non me ne occupo, non me ne sono mai occupato.”
Pirandello. L’uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
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“Noi… ecco, noi temiamo di indagare il nostro intimo essere, perché una tale indagine potrebbe scoprirci diversi da quelli che ci piace di crederci o di esser creduti.” Luigi Pirandello, Novella La casa del Granella |
Pirandello. L’uomo del Caos
Capitolo 6
Pirandello e la cultura socio-politica
Le vicende socio-politiche, che interessarono il periodo storico nel quale il Maestro visse, non poterono non lasciare traccia nel suo animo, soprattutto per due epoche diverse, che lo attanagliarono sia come uomo che come scrittore.
Seppur proteso alla nuova evoluzione del Novecento, non poteva dimenticare l’accumulazione di esperienze del secolo che da poco era trascorso e durante il quale aveva vissuto un periodo intenso e vivo della sua esistenza umana.
L’accostamento a realtà diverse, l’avvicinarsi ad uomini eterogenei in paesi lontani e dissimili, il protendersi a capire certe situazioni che gli si presentavano, lo portarono a formarsi una personalità che non poteva non esplodere in atti che dichiaratamente erano di rottura e comunque lasciavano adito ad una ridda d’interpretazioni.
Cercò di condensare tali convincimenti nel romano I vecchi e i giovani, assumendo la veste dell’analizzatore scrupoloso, attento, preciso, ma non per questo scevro da contraddizioni e condizionamenti. [1]
[1] “I vecchi e i giovani non sono né un grande né un bel romanzo, ma un libro ricco di tutti i contenuti e di tutte le ansie pirandelliane profusi in un libero endemico disordine. Egli cominciò a scriverlo quanto era prossimo a quarant’anni e sentì il bisogno di raccogliere, in un unico libro, il suo giudizio sul mondo contemporaneo: concetti e sentimenti. Si trattava di un complesso mondo di memorie e di esperienze attuali, di fatti e di parole che assumevano in lui ora una calda figura di incendio, ora un larvatico aspetto di vanità. Era l’idea di un romanzo in cui, senza calcoli, egli potesse incontrarsi a tu per tu e nello stesso teatro con la memoria e con la contemporaneità. In tale libro, che doveva trarre pretesto dalla cronaca di avvenimenti accaduti dodici anni prima, c’era l’inconscia intenzione di un bilancio della propria vita. Pirandello voleva rinsaldare la leggenda della sua famiglia, la memoria del paese natale, come paesaggio e come luogo di una società umana, rifondere nell’immaginazione precise fisionomie di uomini e di cose che dovevano vivere a fianco di personaggi fittizi, simbolici di stati d’anima più segreti. Inoltre, nel libro, si voleva ripetere ogni fondamentale riflessione sulla vita, sulla società politica contemporanea, sulla convivenza nazionale. Un libro di vita e di polemica. Oltre a queste cose, consciamente o inconsciamente, vi si volevano riversare, altre se ne trovavano, più segrete e mascherate, non meno importanti. L’opera tutta di Pirandello confluisce a un certo punto in questo fangoso e composito fiume-romanzo, trascinante relitti e sogni segreti”.
Gaspare Giudice, Pirandello, Ed. Utet, pag. 193 e segg.
Forse l’esperienza del De Roberto o di Capuana o dello stesso Verga che si erano cimentati in romanzi socio-storici (Verga molto meno), spinse il Maestro a scrivere un lungo e vasto romanzo che potesse portare l’accento non solo su una questione siciliana, ma con un più ampio respiro estenderla a tutta una situazione atipica nazionale.
Fu un impegno letterario notevole che contribuì a dare una più esatta idea e dimensione del pensiero dell’autore isolano che raccoglieva attorno alla sua opera critiche e discussioni. E se partire da questa fatica significa cominciare ad intravedere l’ideologia del Maestro nel riflesso socio-politico, ciò non basta per determinare esattamente la portata né l’indirizzo.
E’ comunque un iter percorribile obbligato se vogliamo poi spiegare come il Maestro abbia preso talune (molto discusse) decisioni che suscitarono scalpore ed anche scandalo.
Purtroppo certi avvenimenti, nonostante il tempo che trascorre, lasciano segni indelebili e spesso si vuol ridimensionare o addirittura sorvolare su taluni aspetti che invece abbisognano di una più approfondita analisi, anche se questa rivela situazioni che oggi appaiono più inverosimili di quanto non fossero allora. Tutto questo perché attorno al Maestro, nel corso di questi decenni, si è creata una atmosfera un po’ falsa per timore di sminuire la sua grandezza ed il suo valore letterario.
Una analisi che vuole essere obiettiva e soprattutto che tende a dare un fattivo contributo per scoprire meglio i vari parametri non può sottrarsi dal mettere in risalto anche gli eventi o momenti negativi (se così appaiono) per mera devozione o peggio per tema di apparire sgradito e in disaccordo con la cultura ufficiale che ha sempre osannato.
Bisogna aprire la finestra e guardare dentro, sempre più dentro. Un atto di fede e di consapevole ammirazione per l’artista, ma soprattutto per l’uomo. In questa ottica e prospettiva non deve e non può sfuggire il periodo forse più controverso dell’intera vita del Maestro, perché ha lasciato un segno particolare mettendo in risalto la sua personalità che non poteva sottrarsi dal prendere determinate decisioni.
Abbiamo proprio fatto cenno all’Italia celebrativa dannunziana che in quelle vestigia epopee si specchiava creando il mito, l’eroismo, il concetto di patria così complesso ed effimero (a quel tempo) in quanto pieno di contraddizioni, di falsità, di dubbi sentimenti e convinzioni.
Si vive, sempre in quel periodo, un intenso momento sociale dove l’uomo in tutta la sua completezza, diventa il centro dell’attenzione e sfoga ogni passione in ideali che tendono a dimostrare la sua vitalità e virilità.
Anni di celebrazioni, di avvenimenti barocchi che, in un certo senso, calcano e rispecchiano epoche lontane e vestigia seppure superate, ancora care nell’animo dell’uomo che ha bisogno di identificarsi.
Il Maestro non resta sordo a tale frastuono e non può lasciarsi sfuggire una occasione. Si badi, non occasione per mettersi in luce, ma per essere coerente con il suo spirito, con la psicologia che aveva già creato tanti personaggi i quali dimostravano chiaramente un certo fastidio nell’inserirsi in una società falsamente borghese e con profondi ed evidenti contrasti.
I suoi personaggi quasi lo obbligavano a vivere in una determinata maniera, quindi ad agire di conseguenza. E’ forse un contrasto interiore quello che tormenta il Maestro il quale doveva parare anche i colpi del Croce e del D’Annunzio, e non solo dal punto di vista letterario. Partiamo intanto da una dichiarazione dello stesso Pirandello fatta allo intervistatore del Piccolo della Sera di Trieste, il 21 ottobre del 1924:
La mia vita non è che lavoro e studio. Le mie opere, che alcuni credono non meditate e buttate giù di petto, sono invece il risultato di un lungo periodo di incubazione spirituale. Sono isolato dal mondo e non ho che il mio lavoro e la mia arte. La politica? Non me ne occupo, non me ne sono mai occupato. Se alludete al mio recente atto di adesione al fascismo, vi dirò che è stato compiuto allo scopo di aiutare il Fascismo nella sua opera di rinnovamento e di ricostruzione.
La dichiarazione di Pirandello, così com’è, dovrebbe non dare adito ad alcuna contestazione in quanto sembra quanto mai comprensibile e soprattutto chiara nel suo convincimento.
I fatti, gli eventi, i momenti invece hanno scatenato una serie di altre interpretazioni e se da un canto una certa borghesia aveva “perdonato” lo scrittore, ora, dopo questa iscrizione al Partito Fascista, torna a contestarlo in malo modo. Non dimentichiamo che in quel preciso momento le contestazioni ufficiali erano quasi del tutto proibite, ma questo non toglieva di isolare volutamente il “colpevole”.
Ne sanno qualche cosa quanti erano “fascisti” e quindi non invisi agli altri di idee completamente opposte. Giustamente in quella dichiarazione appare evidente la logicità del pensiero pirandelliano.
Possiamo anche pensare che l’aver conosciuto Marinetti, l’ideatore del Manifesto che racchiudeva quasi l’essenza della filosofia fascista, abbia certamente influito su alcune decisioni “politiche” di Pirandello che ebbe a dirigere al Teatro Valle di Roma l’opera Vulcano che fu contestata dal pubblico. Per contro Marinetti, indignato, espresse il suo incondizionato appoggio al lavoro dello illustre direttore.
La complessa questione comunque sembra avere radici profonde e per alcuni versi, ancora oggi, non del tutto chiare ed è per questo che sulla decisione politica si cercano nuovi argomenti, si scava per decidere se Pirandello fosse un convinto fascista ovvero si fosse rivolto al Partito per una sorta di “tutela” in quanto da nessuna parte riceveva, o almeno così lui credeva, quella necessaria difesa letteraria.
Infatti ancora oggi ci si ricorda del feroce attacco da parte di Giovanni Amendola nei confronti dello scrittore siciliano che a dire dell’esponente di sinistra era un uomo volgare, aggiungendo che il gesto di Pirandello nel rivolgersi al fascismo era dettato dal desiderio che potesse essere nominato senatore.
Gli attacchi, e non solo d’Amendola, che arrivavano dal mondo letterario e politico nella sua globalità per la differenza di vedute, non scoraggiarono il Maestro che, seppur amareggiato, proprio subito dopo il delitto Matteotti, inviò un telegramma a Mussolini chiedendo l’iscrizione al Partito con una messaggio personale indirizzato al Capo del Governo e del Partito.
“Eccellenza, sento che per me questo è il momento più propizio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l’E. V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera…”.
A prendere le difese dello scrittore, tra gli altri, furono Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Alfredo Casella, Silvio D’Amico e Cipriano Efisio Oppo i quali con vari interventi cercarono di contrastare gli attacchi proditori nei confronti del grande scrittore.
Come egregiamente ha ricordato Leonardo Sciascia nel suo Pirandello e la Sicilia, la convinzione di Pirandello la si può evidenziare leggendo un passo del fu Mattia Pascal, laddove dice:
“La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà”.
Partendo da questi presupposti, il Fascismo appare come il partito che possa ribaltare il concetto di democrazia mascherata e formulare nuove proposte di vita a beneficio della società, soprattutto quella che lui continuava a portarsi dentro fatta di uomini sofferenti, chini a dire sempre di si per via delle vessazioni dei signorotti, dei tanti feudatari che ancora vivevano in molte parti della Sicilia e che ora avevano anche ramificazioni in altre parti d’Italia.
Non poteva non essere sollecitato dalle proclamazioni che Mussolini, in più occasioni, andava dicendo ed ecco allora spiegato il gesto che tanto scalpore suscitò soprattutto perché l’adesione venne proprio da Pirandello che, a torto o a ragione, era considerato un letterato di chiara fama internazionale.
Tra l’altro proprio Mussolini, da perfetto intenditore, cercò di ingraziarsi lo scrittore al quale elargì una serie di premi e di riconoscimenti che, in un certo senso, riuscirono a farlo felice in quanto ora poteva considerarsi “arrivato”. Ne sono testimonianza alcune sue dichiarazioni pubbliche riportate dal giornale L’idea Nazionale il 23 ottobre 1923.
Comunque occorre evidenziare che se Pirandello si iscrisse al Partito Fascista secondo una sua logica intellettuale, i dirigenti di quel partito, con la complicità di Mussolini, sfruttarono a loro piacimento quel gesto che divenne il fiore all’occhiello dell’intera compagine politica. Quindi, l’ingenuità politica del Maestro fa subito i conti con l’intrigo politico capace di sapere sfruttare, a proprio favore, ogni evento. Una voce, quella di Corrado Alvaro, amico ed estimatore di Pirandello, sembrò essere la più accomodante, quella cioè che evidenziò come la decisione dello stesso scaturisse da una mente che per:
“…cinquant’anni di vita è sbalzato a una fama abbagliante; il momento di questa fama coincide con l’avvento di un regime politico, che per calcolo, gli elargisce grandi onori”. [2]
[2] Cit. in Gaspare Giudice, Op. Cit., pag. 448
Come per dire che Pirandello si era iscritto non perché fermamente convinto della sue idee politiche, ma per comodo non tenendo conto che proprio lo stesso scrittore più volte ebbe a ripetere che lui era stato sempre un fascista. Il riferimento all’episodio che da giovane avesse simpatizzato con i Fasci Siciliana sembrava chiaro anche se, a quel tempo, una presa di posizione ufficiale non è stata mai data.
In ogni caso la controversa questione ancora oggi è oggetto di attente analisi e quasi si vogliono interpretare non solo i concetti espressi da Pirandello ma, addirittura, tentare di sottoporre ad anatomia ogni parola per entrare nel suo mondo interiore spesso contraddittorio e per questo quasi indecifrabile.
Forse una risposta esauriente la si trova nell’ottimo saggio scritto da Gian Franco Venè, Pirandello fascista, dove con una attenta e capillare analisi cerca di costruire tutto l’iter e quindi entrare in questo mondo sotterraneo, seppur il clamore suscitato suggerisce di effettuare l’analisi pure in superficie. Non è possibile, in quanto, come più volte ripetuto, il contrasto evidente che è l’insieme della personalità di Pirandello non si evidenzia facilmente e si può anche dire che spesso ci si viene a trovare in un vicolo cieco.
Sta di fatto che Pirandello ha agito secondo un suo bisogno interiore e che, ai di là della sua più o meno convinzione o fede politica, si è mosso credendo nel suo senso civico, nella certezza che, in quel momento, il Fascismo rappresentasse una felice prerogativa che contrastava il marcio politico assai evidente di altri movimenti.
Il concetto dal quale Pirandello parte è quello che saluta la dittatura come una verità stabilita dai fatti quotidiani e quindi in antitesi con la democrazia che maschera una verità rivelata. Per questo, nella certezza di chiarire meglio questo passaggio, è bene riportare integralmente il pezzo scritto da Venè.
“Se la democrazia è per Pirandello come una ‘verità rivelata’, un bene illusorio e incontrollabile, la dittatura è una verità stabilita dai fatti quotidiani, dall’intimo svolgersi dei rapporti tra individuo e società. La democrazia è la maschera sociale portata da ‘tutti gli altri’; la dittatura è invece la verità risultante dal rapporto concreto, concretamente vissuto, dell’individuo con i fatti, dove i sentimenti eterni trovano una loro sofferta ma reale precisione”. [3]
[3] Gian Franco Venè, Pirandello fascista, Op.Cit., pag. 57
Quanto aveva visto in Sicilia, dove il feudalesimo esisteva e condizionava, ancora, la vita della gente umile, del piccolo uomo, certamente non poteva non farlo anelare ad una società dove l’ordine, la disciplina, il senso della giustizia e dell’equità potesse ribaltare i termini sociali della intricata questione. Non poteva non ricordare i periodi trascorsi a Bonn dove già quest’ordine e senso di disciplina erano assai evidenti e che costituivano, certamente per il Maestro, un preciso punto di riferimento.
Un’idea ed una convinzione che si portava da anni; diremo che era nata nella sua mente non appena ebbe modo di constatare e toccare con mano la realtà sociale del tempo e grazie alla sua spiccata intelligenza non poté sfuggirgli la contraddizione nella quale era irretita tutta la società di quel tempo.
Da una parte una borghesia che ancora ostentava benessere, dispotismo, vessazione nei confronti dei deboli. A questa parte di borghesia non era escluso il clero. Tutt’altro. Mentre dall’altra parte la massa del popolo ignorante, contadino, che lavorava da schiavo nelle zolfare, sgobbando da mane a sera per poco, per dire sempre di sì, per pagare colpe non proprie.
(Elementi tutti che, in un secondo tempo anche Leonardo Sciascia nel suo Le parrocchie di Regalpetra evidenzierà con altrettanta analisi socio-politica e letteraria).
E si ostentava un certo benessere, si credeva in ideologie che mascheravano interessi sordidi e privati i quali cercavano di salvare ciò che ancora rimaneva del feudalesimo sociale. Tutto questo non poteva non essere analizzato dal Maestro che ebbe più occasioni per ritornare a ribadire il concetto centrale della sua tematica, attraverso le novelle, gli interventi sui giornali, il teatro, i romanzi. Un’accusa violenta alla borghesia promotrice di situazioni che dovevano essere affogati e che invece vivevano e vivificavano sul groppone degli umili e meno potenti: il popolino.
Questo stesso, comunque, che non riusciva a darsi una scrollata, a darsi un contegno umano, una fisionomia sociale dove i sentimenti, i diritti, i doveri, potessero equipararsi senza danneggiare l’uno o l’altro. Qualcuno cercava di fare pulizia attorno e scrostare l’atavica polvere che ristagnava nei cuori, nei cervelli. Cercava disperatamente di scuotere le fondamenta, di ribaltare i termini del dialogo e aprire la finestra per fare entrare nuova aria.
E’ la ricerca disperata dell’equilibrio che si è già spezzato nel tempo, ma che non è scomparso del tutto. Una sorta di silenziosa e civile ribellione che prorompe dal petto del popolo sagace e intelligente (anche filosofo) che investe le situazioni politico-sociali perché possano arricchirsi di nuova linfa la quale deve scaturire dal popolo sempre escluso e conseguentemente boicottato.
Il popolo, l’essere nella sua massima espressione (nel popolo il Maestro si identifica) quindi che prende coscienza, alza la testa, guarda il sole, discute, cerca uno spazio più idoneo per la propria sopravvivenza. Certamente è un compito arduo, difficile, spesso pericoloso. La borghesia vi si oppone strenuamente. Ma si insiste, si cerca l’occasione propizia per uscire dal limbo e sorridere alla vita con il pieno riconoscimento della propria personalità ed umanità.
E’ questo, anche, in sintesi il discorso di Ciampa (Il berretto a sonagli), come evidenziato nelle pagine precedenti.
Traspare evidente una presa di posizione che non può essere sottovalutata in quanto preannunzia in modo chiaro e preciso, il pensiero sociale dell’autore. Nel risvolto politico, poi, la presa di posizione appare ancora più nitida anche se più appariscente per l’importanza che l’autore aveva a quel tempo.
Nella sostanza il Maestro cerca spazio metafisico, se vogliamo, partendo da lontano (per questo tanta difficoltà ad essere compreso, per non dire che più volte è stato ravvisato) per arrivare, con pazienza certosina, attraverso discorsi complessi ed analisi particolareggiate, a conclusioni, nonostante appare evidente che non c’è mai stata una vera conclusione.
E’ stata una continua ricerca, un incessante peregrinare in cerca di molteplici risposte che si accavallavano vorticosamente, freneticamente, lasciando interdetti quanti si avvicinavano alla sua tematica.
Potremmo anche dire che molti dei suoi personaggi hanno sempre avvertito quest’atmosfera pesante che è gravitata attorno a loro, quasi consapevoli come il loro peregrinare, il loro continuo chiedersi, sarebbe rimasto senza risposta alcuna. Forse una risposta l’avrebbero data i posteri?
Allora (come oggi) non si potevano accettare quella sequela di problematiche che mettevano a nudo gli animi, quando si preferiva tenerli al coperto, lontani da occhi indiscreti e soprattutto infastiditi da quelle domande poste con lucida e quasi asfittica progressione psico-spirituale. Non si poteva accettare un simile discorso, come non si poteva accettare, quindi, ogni sua eventuale decisione.
Ma il Maestro nella consapevolezza del suo peso sociale e letterario, non si tirava indietro, non aveva mai ripensamenti, anche se a volte cadeva in contraddizioni.
Ed ecco allora, i nemici, a mettere in risalto questi passi falsi e a creare un’atmosfera pesante attorno alla figura dell’autore che si racchiudeva sempre più nel suo “io”, spesso frustrato e tormentato, per cui con molto logica e coerenza sarà in grado di affermare:
L’infelicità individuale permane anche in una società che ha tutto il diritto di chiamarsi felice.
Sfogava, nel creare personaggi, la sua frustrazione; sfogava la sua bile, il suo malcontento, ma nello stesso tempo apriva le molteplici piaghe che sembravano non essere mai lenite nonostante i continui tentativi.
Già studente aveva sempre simpatizzato per alcuni movimenti politici, con i quali aveva creato una certa sintonia perché riuscissero a soddisfare la sua interiorità. Non fu una decisione affrettata, né tanto meno ingiustificata, anche se a lungo andare ed in un’ottica nel tempo diversa, oggi appare come una decisione discutibile e contestata. Ma nell’analisi del momento, nel compendio della sua complessa personalità e quindi della sua spiritualità, quell’insieme di decisioni ne erano la logica conseguenza.
Lo distingueva, comunque, il fatto che nonostante partecipasse alla vita socio-politica, non fu mai un esponente di primo piano, anche se le porte fossero aperte. Spesso fu pressato da tanti per prendere più attivamente parte alle vicende politiche del tempo.
La sua convinzione idealista, la sua adesione ad un preciso movimento politico gli erano sufficienti per sentirsi realizzato. Non voleva altro, ed allora rifuggiva non intervenendo quasi mai direttamente o personalmente.
Anche in questo comportamento si evidenzia una sostanziale contraddizione che trova ampia giustificazione, se guardiamo nell’insieme della sua vita complessa. [4]
[4] “Questa duplicità di Pirandello, diviso tra il fervore di sentirsi partecipe ai momenti collettivi nazionali e di svolta sociale e politica e la sua sostanziale estraneità intellettuale e spirituale (ma si potrebbe dire creativa) a quegli stessi momenti, spiega almeno in parte il suo atteggiamento di fronte alla crisi del sistema liberale e all’avvento del fascismo. Tentare di rintracciare nella sua opera, come è stato fatto con fiscalismo persecutorio, presagio di ideologia totalitaria o in senso più circoscritto, fascista, è un’operazione inutile, a meno che non la si generalizzi estendendola a tutta la cultura predominante nel primo ventennio del secolo, e non solo in Italia.
E’ certo invece che il processo intentato da Gyorgy Lukàcs alla distruzione della ragione può implicare come testimone Pirandello almeno nel senso che egli contribuì come altri maestri alla lunga crisi della coscienza europea, da Nietzsche a Sorel a Heidegger allo stesso ‘impolitico’ Mann, alla distruzione della ragione storica e all’affermazione del principio di ‘creatività’, applicato all’operare politico e sociale.
Della politica come strumento dinamico di regolazione dei conflitti di classe e di opinione e in Italia come prassi giollittiana, Pirandello aveva colto l’aspetto più corrivo del compromesso ideale e morale, talora della degradazione dei valori e delle energie. Per questo la sua adesione al regime e in particolare al ‘carisma’ del nuovo capo, espressa con foga nel primo annuale della marcia su Roma e clamorosamente, provocatoriamente, ribadita all’indomani del delitto Matteotti con la domanda d’iscrizione al partito fascista, ha il significato di una delega a un ‘personaggio’ capace di eccezionali poteri creativi… (…) Il drammaturgo di successo teatralizzava il suo rapporto con Mussolini senza accorgersi che facendogli credito di uno speciale sentimento della ‘doppia e tragica necessità della forma e del movimento’ contribuiva alla parodia ideologica del ‘pirandellismo’, che già andava manifestandosi come riduzione della sua opera a formula parafilosofica. La propaganda del regime cercava il consenso intellettuale insistendo sulla novità del fascismo come prima originale creazione politica italiana; e certo l’adesione pirandelliana la favoriva nei limiti in cui lo scrittore si prestava ad essere strumentalizzato: limiti segnati soprattutto dalla funzione che col suo prestigio egli pensava di poter esercitare in favore della rinascita anche organizzativa del teatro.
Per il resto valevano, al di là della soddisfazione per i riconoscimenti ufficiali che il regime non gli lesinò (onori cavallereschi e accademici), il carattere corrosivo della sua opera, a volte rischiosamente allusivo (come nella novella del 1934 ‘C’è qualcuno che ride’) e soprattutto alla sua ribadita estraneità, esistenziale e professionale alla politica: ‘sono apolitico, mi sento soltanto uomo della terra’).
Nino Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Ed. Laterza 2000, pag. 65 e segg.
Accettava, sì, ma non voleva mai essere coinvolto direttamente, seppur poteva diventare uno dei più importanti dirigenti del partito. E quando ebbe l’incarico di Accademico d’Italia (1929), fece di tutto per non mettersi mai in primo piano, rifuggendo, per quanto possibile, apparizioni in pubblico, specialmente se costretto ad indossare la famosa “divisa” di allora.
Evitava perché mal digeriva certe estemporanee “messe in scena”, assai care in quel periodo e dove non era difficile vedere esponenti della cultura ufficiale pavoneggiarsi e primeggiare, apparendo in verità assai tronfi e meschini.
Da un racconto di Luigi Ferrante, ecco una piacevole testimonianza tipicamente pirandelliana a proposito dell’Accademia e del rapporto con l’autore, membro della stessa.
“Pirandello parlava dell’Accademia ricorda Giulio Caprin per quella che era. Buffe, in questo buffo mondo anche le Accademie che si dànno tante arie. Come accademico era piuttosto indisciplinato. Mi ricordo come mi descrisse una delle prime solenni funzioni. Gli accademici in fila nelle loro uniformi gallonate: con quegli alamari, sul petto, li vedeva e vedeva se stesso, come una parata di scheletri”. [5]
[5] Cit. in Gaspare Giudice, Op. Cit., pag. 453
Non è quindi del tutto veritiera che l’appartenenza al Partito Fascista da parte di Pirandello fosse da considerare come una decisione irrevocabile e che lo stesso non fosse andato in escandescenze tanto da arrivare a strappare la tessera.
I rapporti, una volta “ottimi”, a poco a poco si rivelarono del tutto contraddittori e l’autore di fronte a taluni avvenimenti iniziò ad allontanarsi dall’ideologia fascista nella quale non si riconosceva più.
Proprio dopo il 1927 questa situazione era diventata incandescente in quanto il Partito Fascista si era adoperato per sopprimere la libertà di stampa, ad emanare leggi di polizia, ad istituire tribunali speciali, ripristinare la pena di morte, l’istituzione dell’O.V.R.A., e tutte le leggi fascistissime promulgate prima e quindi si scontrava con la concezione, diversa, dello scrittore che ora si sentiva un estraneo tra estranei. Il suo comportamento, a questo punto, diventa contraddittorio e seppur da un lato trova ancora il coraggio per esporre le sue idee e quindi ritenersi indipendente come artista, dall’altra si trova ancorato allo stesso partito che inizia a prendere una serie di iniziative che vessano il popolo, si accanisce contro inermi ed indifesi innocenti e quindi la causa di lacerazioni di coscienze, così come veniva ad essere quella del Maestro.
La goccia che fece traboccare il vaso contribuendo a fare imbestialire del tutto Pirandello, si concretizzò allorché da un ritorno dal Brasile dove aveva effettuato una tournée il Maestro per alcune dichiarazioni rilasciate in quel contesto, venne come inquisito dal Segretario del partito che chiese spiegazioni di quelle affermazioni che in Italia, all’interno del partito, avevano fatto arricciare il naso.
Non ci pensò due volte il Maestro a cavare dalla tasca la tessera del partito, lacerarla e buttarla sul tavolo sotto gli occhi dell’incredulo gerarca. Parimenti si strappò il distintivo dall’occhiello scaraventandolo a terra e poi, sdegnato all’inverosimile, uscì dalla stanza.
Dovettero provvedere a chiedergli ufficialmente scusa ma ormai la frattura, almeno dal punto di vista psicologico, era insanabile anche perché il Maestro sapeva di avere, in quel Partito, una serie di accaniti nemici che volevano “la sua testa”.
Non manca l’occasione per scagliarsi contro Verga che definisce anticonformista e antidannunziano, suscitando ancora una volta un irrigidimento da parte della politica ufficiale e della cultura fascista che privilegiava in maniera dichiarata sia Verga quanto D’Annunzio.
Per quest’ultimo, in particolare, Pirandello nutriva una antipatia particolare quanto istintiva. Era convinto, il Maestro, che l’antagonista così acclamato dai gerarchi, gli usurpasse il successo e la fama ed è per questo che in seno all’Accademia lo scrittore siciliano avrà modo di esternare la sua antipatia nei confronti del “vate”.
Il conseguimento nel 1934 del Nobel contribuì, per una sorta di equivoci, malintesi, malanimi, ecc., a far si che Pirandello si allontanasse sempre più della politica e si dedicasse alle sue ultime composizioni, non dimenticando il teatro per il quale negli ultimi anni aveva profuso tutte le energie anche come capocomico e dove aveva avuto l’occasione di incontrare Marta Abba che ha rappresentato un punto di riferimento importante tanto che, in molti hanno detto che l’attrice è stata l’amante di Pirandello.
Lo smacco più grande (quasi una rivincita) Pirandello lo concretizzò, facendo trovare il famoso testamento con il quale vietò ogni forma di accanita e falsa pubblicità attorno alla sua morte, evitando (lo prevedette!) ogni discorso celebrativo che il Partito Fascista aveva in animo di propagandare di fronte al corpo (solo ceneri!) del Maestro.
Con questo atto, tanto eclatante quanto provocatorio, si può dire che il Maestro ha chiuso definitivamente con quel Partito per il quale era stato celebrato, ma anche vituperato, offeso, spesso ridicolizzato. Giustamente qualcuno, di fronte a quel foglio scolorito, ebbe a dire:
“Se n’è andato sbattendo la porta”.
Nessuno come l’artista, aveva desiderato la quiete non solo domestica ma del suo animo interiore e tutte le volte che lo poté fare, vi si tuffò a capofitto, senza rimpianto alcuno. Per essere certi di questo basta scorrere velocemente le sue tappe che lo hanno portato all’adesione al partito, alla sua tormentata appartenenza, al suo distacco, per poter comprendere in che misura egli intendeva sentirsi “politico”.
Negli anni della gioventù, è vero, simpatizzò con i radicali, poi assunse posizioni più precise da essere definito un contestatore, mentre negli anni della maturità si schierò con Giolitti, simpatizzò per un certo periodo per Garibaldi, e vide di buon occhio il moderatismo di Albertini quanto il liberalismo di Croce, per non dire e sottolineare, nella piena maturità la sua adesione al Partito Fascista. Ma in tutto questo iter non si può asserire che il Maestro ne sia stato esponente prezioso ed impegnato e quanto meno determinante.
Erano solo gli entusiasmi a portarlo verso questo o quell’altro partito che la vera convinzione ideologica la quale tra l’altro non era per niente “politica” ma soltanto “sociale” e questa non è una differenza da sottovalutare.
Si nasce politici e Pirandello non lo nacque veramente; si nasce con il pallino sociale e lo stesso era convinto ed assertore e generalmente le due “entità” non si trovano in perfetta sintonia, soprattutto quando la condizione politica, come si è visto per la componente dittatoriale, porta all’annichilimento del sociale. E per capire, definitivamente, come intendeva la politica Pirandello che doveva armonizzarsi con la cultura sociale, basta rileggere il testo del suo discorso che fece nel 1934 al Convegno Volta, riportato quasi integralmente nel libro di Gaspare Giudice a pagina 464.
In questa serie di contraddizioni, deve essere inquadrata e vista tutta la proiezione politica che coinvolse il Maestro in maniera diretta ed inequivocabile.
Documenti e testimonianze, riportati fino ai nostri giorni, e già oggetto di analisi da parte di studiosi, hanno contribuito a dare una visione, quanto mai chiara di quel periodo e seppur, come già riferito, si è cercati di speculare negativamente, non si può non disconoscere a Pirandello una sua propria e giusta valutazione del momento che ne ha determinato quella scelta. Intendiamo riferirci alla sua iscrizione al Partito Fascista, nel momento, forse, più delicato, per quanto riguardava l’evento proprio politico.
Infatti quella iscrizione avvenuta subito dopo il delitto Matteotti ha una sua ragione d’essere e Mussolini non dimenticò mai quel gesto ed in più occasioni difese il Maestro; ma questo non toglie dal mettere in risalto che tra i due intercorrevano solo rapporti di circostanza e forse di comodo. Noi crediamo che Mussolini non comprendesse appieno il valore puramente letterario dell’opera del Maestro, come questi, per contro, non comprese (o non volle comprendere) il valore delle varie iniziative politiche che sono, per motivi già noti, naufragati miseramente con dannosissime conseguenze per il popolo italiano.
Quello stesso popolo oggetto di tanta analisi minuziosa da parte dello scrittore. Ma nessuno era in grado di prevedere gli eventi.
L’uno o l’altro, forse un po’ inconsapevolmente, sfruttarono la propria notorietà, la propria forza ed al momento furono pronti a difendersi l’un con l’altro anche perché le vicissitudini politico-sociali non facevano intravedere niente di buono.
E’ anche giusto sottolineare che le opere scritte dall’autore in quel tempo non risentivano (e oggi più che mai) per niente e comunque in maniera determinante, delle sue asserite e sancite pubbliche convinzioni.
Perché tutto questo?
Certamente perché rispecchiava il suo carattere “instabile” che come sempre si arrampicava su pareti scoscese ed irte in quanto il rischio poteva considerarsi una componente della sua struttura psicologica, spirituale ed intellettuale, anche se negli ultimi tempi, amareggiato per le molte delusioni e controversie, preferiva errare per isolarsi sempre di più dalla società che certo gli concedeva poco… spesso anche niente. Ed infatti nel 1932, in una delle tante lettere inviate alla diletta figlia Lietta, ormai divenuta la sua confidente, il suo punto di riferimento, la sua erede spirituale, cerca di spiegare, a suo modo, cosa stesse provando.
E’ il mio destino, Lietta mia, andar correndo il mondo senza requie, finché non muoio in qualche luogo in piedi, come presto mi auguro, visto che fermo ormai non posso più stare in nessuna parte. Il mio paese ho tentato non riesce a trovar modo d’impegnarmi e trattenermi.
Ed in questo sentimento nei confronti di Lietta sono in molti a interpretare la voglia, da parte di Pirandello, di avere un rapporto “sentimentale” non avendolo potuto avere con la moglie. Il destino ha voluto che il creatore di tanti personaggi, di tante storie, percorresse il suo cammino terreno nella più assoluta e completa solitudine interiore.
Ed ecco perché, quando poteva, non esitava a scrivere a Lietta, la quale dal canto suo mostrava attenzione, interesse, per quel padre tanto famoso quanto terribilmente solo.
La sua tempra, il suo voler andare a tutti i costi avanti, sembra iniziare a perdere colpi e non si può non pensare che anche l’avventura politica lo abbia oltre che deluso, amareggiato, quasi sconfitto ed è per questo che il pensiero della morte fosse presente quanto mai. Una morte che potesse dargli pace, quella stessa che nel lungo peregrinare non ha mai trovato, lui baciato dal successo, dalla fama, dalla gloria.
La catarsi, a questo punto, è completa e di Pirandello battagliero, mente vulcanica, ora sembra rimanere un ricordo.
Torna a parlare di morte, a Lietta, nel marzo del 1933, esprimendosi in questa maniera:
… Più vado avanti, cioè più m’avvicino al limite estremo della vita, e più mi riesce insopportabile fissare una data, stabilire un programma, tracciare un itinerario, prevedere comunque ciò che farò domani, dove andrò, se resterò.
Rispondo a tutti che non lo so. E non lo voglio realmente sapere. Non riuscendo più a star bene in nessun posto, questo senso di precarietà in cui mi tengo dovunque mi rende sopportabili i soggiorni qua e là. Così un soggiorno mi si può allungare, ma guaj se mi s’affaccia l’idea che il soggiorno possa divenir dimora: me ne frego. Per questo sono fuggito da Berlino, dopo due anni e mezzo; per questo da Parigi, dopo due anni. Non prevedo di durare a lungo a Roma.
Intanto le sue discusse posizioni politiche continuavano a tenere banco e di tanto in tanto lo stesso interveniva direttamente con scritti o dichiarazioni che poco dopo lui medesimo, magari, smentiva.
In ogni caso questa sua appartenenza al Partito Fascista deve essere considerata nella giusta misura vagliando sia il gesto spontaneo (il famoso telegramma con il quale s’iscrisse al Partito inviato a Mussolini), quanto la sua rinunzia a certe forme di politica volute proprio dal Partito al quale, con chiasso e scalpore, aveva inteso dare la sua convinta adesione. Se allora si gridò allo scandalo, oggi la questione viene analizzata con più raziocinio e seppur quel Partito nel cuore della maggior parte degli italiani non rappresenti certo un riferimento piacevole e per niente positivo, ciò non toglie che a quel tempo i termini dell’analisi fossero diametralmente opposti.
Vogliamo anche dire che se Pirandello avesse aderito e presentata la propria iscrizione per qualche altra compagine politica dal ricordo meno odioso e truce, oggi se ne parlerebbe come un evento di ordinaria amministrazione da lasciare nel limbo di certi ricordi.
Trattandosi di adesione al Fascismo, la questione nella sua interezza assume un valore e significato del tutto particolare. Però bisogna ancora dire che l’adesione del Maestro (concetto più volte evidenziato, anche nel tempo da illustri critici), più per l’ideologia politica, fu fatta per una personale simpatia nei confronti di Mussolini. In tutta sincerità, gli si può dare torto?
Niente di convinzione o amore ideologico, niente vessazione politica e partecipazione oltranzista. Da intellettuale e quindi scevro da contaminazioni e lontano da condizionamenti ed interessi politici, con quel gesto volle intendere che l’intelletto è, e deve essere, al di sopra di sospetti e fazioni. Un ideale ed un intendimento, a dir poco ingenuo, da parte del Maestro che sicuramente non comprese appieno il significato di un simile gesto, anche se spesso e sovente diceva di essere fascista; quasi lo fosse fin dalla nascita.
Solo una presa di posizione e soprattutto una risposta alle molteplici polemiche che avvelenavano il suo animo. Si difendeva, ingenuamente, avvalendosi di un’amicizia forte con un forte personaggio che poteva difenderlo e quanti, a quell’epoca, agognavano alla personale simpatia ed amicizia del Duce? Uomini rispettabili di allora che magari oggi lo detestano.
La storia recente ci è da guida e non interessa entrare nel dettaglio della questione.
Basti solo ricordare che quanti ieri hanno indossato la camicia nera, pavoneggiandosi tronfiamente, oggi (o anche ieri) sono stati gli stessi che non solo hanno tradito il Duce, ma dello stesso hanno detto (e continuano a dire) peste e corna. Pirandello, nella sua integrità morale, non si scagliò mai contro il Duce seppur con lo stesso, nel tempo, ebbe ad interrompere quel filo di unione intellettuale. Ma da parte del Maestro non si sentì una benché minima contumelia nei confronti di quell’uomo che dall’altare sarebbe andato a finire nella polvere. In questo atteggiamento è bene evidenziare tutta la personalità del grande ed illustre scrittore siciliano.
Per averne la prova, ecco riportati degli stralci tratti da una sua composizione, mai ultimata: Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra.
Non mi piace parlare alle spalle di nessuno; e perciò, ora che prevedo prossima la mia partenza, mi metterò a dire in faccia a tutti le informazioni che darò, se m’avverrà che altrove mi domanderanno notizie di questo mio involontario soggiorno sulla Terra, dove una notte di giugno… […]
Perché ciascuno a un certo punto esce dal mistero della sua nascita naturale, che dura ancora un pezzo dopo che s’è nati, e nell’incertezza di tutto comincia a nascere solo, a se stesso, e a formarsi, come può, la propria vita, solo: di quella solitudine di cui poi si ha la terribile coscienza sul punto di morire.
Ora io non dirò nulla della mia vita che, come quella d’ogni altro, non ha alcuna importanza, dal punto almeno da cui mi sono messo a guardarla. E già, del resto, non la vedo più. E’ ormai, con tutta quanta la Terra, come niente. Sarà questa la ragione per cui forse non m’avverrà di poterne dare alcuna informazione…
Allora perché condannarlo o peggio ignorare quel gesto, con pusillanime omertà, quasi vergognosi di aprire un capitolo, una discussione. La risposta e la serenità della scelta, oggi sono più che mai a favore di Pirandello che in più occasioni e con più scritti ebbe parole dure anche contro lo stesso Fascismo, i gerarchi, coloro insomma che avevano veramente “tradito” quella ideologia e quindi si era comportato esso Partito ( e continuava a farlo) in modo del tutto contrario provocando, inevitabilmente, tanti disastri che ancora oggi sono vivi in molti, in quanti hanno avuto la sventura di essere presenti e coinvolti in quel periodo.
Pirandello, seppur tra contraddizioni umane, rimase coerente con la scelta, con le sue idee e soprattutto con la sua umanità.
Proprio per questo nell’opera Così è (se vi pare), si era scagliato, in qualche modo, contro i soprusi del potere (come è stato evidenziato nei capitoli precedenti) e le angherie. Quasi una voce premonitrice agli eventi che dovevano coinvolgere l’Italia tutta.
Ponza: Ma io sono fatto segno qua, signor Prefetto, a una vessazione inaudita!
Agazzi: Vessazione, scusi, intende da parte mia?
Ponza: Di tutti! E perciò me ne vado! Me ne vado, signor Prefetto, perché non posso tollerare quest’inquisizione accanita, feroce, sulla mia vita privata.
Se il Maestro non accetta che il potere possa vessare la libertà individuale dell’uomo, a maggior ragione non poteva trovarsi d’accordo sulla degenerazione dell’operato del fascismo. Era solamente un rapporto tra due uomini che si ponevano all’attenzione della massa e che credevano, rimanendo “amici” di trarre maggior vantaggio.
Il Maestro si “pavoneggiava” di essere amico di Mussolini e questi faceva sapere a tutti d’andare a braccetto con la cultura e quindi con Pirandello.
Un rapporto politico nel senso più intimo della parola, ma posto su di un piano di rispetto (anche di comodo) reciproco. E poi basta rileggere la corrispondenza del tempo che Pirandello ha inviato agli amici per comprendere a fondo l’intera questione “politica”.
Un uomo dalla statura psicologica del Maestro, con il bagaglio di esperienze che lo irretivano sempre di più, non poteva non porsi all’attenzione del popolo con un gesto clamoroso e che contrastava con la sua ideologia di base la quale era facile riscontrarla in tutte le sue opere.
Per questo, e non soltanto per questo, farà dire al Padre, che si staglia sul palcoscenico vuoto da qualsiasi elemento scenografico, levando la voce tra i presenti muti ed atterriti, che forse poco comprendono, quello che lui stesso voleva dire a ciascuno di noi, perché potessimo veramente intendere.
Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé; del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci, ma non ci intendiamo mai.
Questo contrasto tra pensiero ed azione è un tema assai ricorrente e quasi tutti i critici sono concordi nel dire che il Maestro, al di là del suo gesto, resta una personalità complessa e difficilmente traducibile, tanto è vero che gli scritti, attorno allo stesso si moltiplicano a vista d’occhio, perché c’è sempre qualche cosa da scoprire, o meglio, interpretare.
Proprio in questo al di là di certe analisi frettolose per le decisioni proprie del Maestro Pirandello rimane autore importante ed immortale per cui si può anche comprendere un certo atteggiamento o una sua adesione, senza eccessivo bisogno di suscitare scandali. Solo l’onestà di un’analisi seria e serena potrà valutare un momento particolare dell’intera vicenda anche se nessuno mai sarà in grado di profferire con esattezza l’ultima parola dogmatica. Per questo a conclusione del presente capitolo, si riporta un pensiero profondo dello stesso:
Siamo tutti fantasmi, apparenze: quell’idea che ci siam fatta di noi. Si cangia. Guai se l’idea ci resta fissa.
Pietro Seddio
Pirandello. L’uomo del Caos
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