L’uomo del Caos – Capitolo 5: Pirandello e la Società

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Di Pietro Seddio

Il rapporto tra Pirandello e la società che lo ha circondato, non può definirsi, quindi, entusiasmante; tutt’altro! Egli avvertì i mali comuni che gli ronzavano attorno solo per contribuire ad una celebrazione che spesso detestava, anche se doveva accettare inverosimilmente.

Pirandello. L’uomo del Caos

Per gentile concessione dell’ Autore

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Indice Tematiche

Pirandello coscienza critica del novecento
Ugo Fleres – Ritratto di Luigi Pirandello. Collezione privata
“I fatti! I fatti! Caro signore, i fatti sono come s’assumono;
e allora, nello spirito, non sono più fatti;
ma vita che appare, così o in un altro modo.”

Luigi Pirandello, Vestire gli ignudi – Atto terzo

Pirandello. L’uomo del Caos
Capitolo 5
Pirandello e la Società

Una componente assai difficile quella che ha legato Pirandello con la società, e non solo perché lo stesso avrebbe creato premesse negative attraverso la sua opera contestata, ma anche perché il suo retaggio culturale, le sue esperienze tradizionali, il suo sub strato spirituale non gli consentivano un rapporto semplice e preciso.

Già si è fatto cenno ai rapporti intercorrenti tra Pirandello e i suoi compaesani che avevano delle reticenze (forse anche paure) per quell’uomo che soleva passeggiare con pochissimi, intimi, amici e raramente sul suo volto si era potuto scorgere un sorriso, un qualche segno che alimentasse sentimenti e predisposizioni al dialogo. Poi, dopo i primi successi, questo rapporto si andò formalizzando su canoni ufficiali, ma non si poté parlare certo di rapporti umani: tutt’altro. Perché?

Sembra una caratteristica predominante che accompagna tutta la vita dello scrittore questo di mettere a nudo aspetti negativi della sua vita intima, interiore; ma l’analisi che li stigmatizza porta meno male a conclusioni positive. [1]

[1] C’è una testimonianza del Nardelli che riferisce dei rapporti umani tra il Maestro e le alunne a voler testimoniare l’altra faccia della questione. Ecco quanto ha riferito Paolo Boni Fellini, antica allieva: “Pirandello, nel fior dell’età portava senza jattanza, anzi come senza saperlo, il duplice inserto d’una virile spirituale bellezza. Se il ciuffo dei capelli castani che gli adombrava la fronte vasta accennava già a sfoltire la mano che lo scompigliava ogni tanto con rapido gesto era bianca e fine: vivida la bocca nella dolcezza biondo-cenere della barbetta breve: argenteo il sorriso che gli accendeva il segno luminoso dei figli della sua isola negli occhi che guardavano lontano: nobile il portamento, solitario, taciturno, faceva strage. Ma erano amori senza amore; questa specie d’infatuazione collettiva lo lasciava indifferente; le donne ‘alunne’ non erano che nomi per lui… una filza di nomi sul registro. Indifferente? Seccato, forse; quando qualche biricchina tentava di richiamare l’attenzione ad ogni costo, o faceva la graziosa, egli si rinchiudeva in un mutismo poco incoraggiante e gli saliva una vampata alla fonte”.

Infatti scaturisce un elemento, ed una componente essenziale, che non può essere sottovalutato, ma analizzato intimamente, come si è cercati di fare nei capitoli precedenti. Cioè porre in evidenza tutta la complessa anima interiore del Maestro (anche se inevitabilmente si metteranno a nudo difetti umani) per costruire un mosaico dal quale, e nel quale, si potrà intravedere il capolavoro.

Lasciamo perdere l’analisi letteraria già ampiamente documentata da famosi e celebrati critici; insistiamo, invece, nell’affondare il bisturi dentro qualche aspetto che è ancora nascosto e poco noto. Inconsapevolmente il Maestro si è trascinato dietro un bagaglio socio-spirituale che ha dato una identificazione non del tutto consona all’immagine, quasi sempre nascosta, che si è avuta per molti anni.

Un po’ colpa di certa letteratura spicciola che evidentemente si è buttata sui suoi lavori; un po’ colpa di analisi affrettate o, comunque, tendenti a dimostrare sempre che il Maestro sembrava essere immune da difetti presenti in tutti gli esseri umani.

A questo punto si potrebbe fare un certo riferimento a rapporti tesi tra Croce e Pirandello, per porre in evidenza come certe critiche di sì grande “voce letteraria”, accrescessero un certo interesso attorno all’opera di Pirandello. [2]

[2] “Nei cinque anni che vanno dal 1863 nacquero tre uomini che avrebbero occupato saldamente i tre opposti vertici di un singolare triangolo italiano di cultura e o di poesia: D’Annunzio, Croce e Pirandello. Tre uomini della provincia e tutti e tre, ognuno in un modo diverso, mai del tutto liberi della loro origine provinciale e meridionale.
Quando si era indagato, nel piano biografico, sui rapporti, che furono di incomprensione reciproca, fra questi tre italiani, si viene alla conclusione che si trattò di falsi e impossibili rapporti, e che il temperamento di ognuno valse a separarlo dagli altri due fino alla incomunicabilità. Qui vogliamo dimostrare che ciechi avversari, che lottatori al buio, fossero Croce e Pirandello.
Se Pirandello non ebbe nessuna stima di D’Annunzio, lo attaccò con senso di superiorità e alla fine di un famoso discorso che vedremo, gli si sostituì esplicitamente nella storia letteraria del secolo, lo stesso non può dirsi del suo atteggiamento di fronte al Croce, nei riguardi del quale ebbe timidezza malcelata e odio espresso.
Il Croce, sul piano delle apparenze, parve uscire vittorioso nel contrasto con l’avversario, ma Pirandello, a conti fatti, non può affatto considerarsi perdente. Egli apparve soccombente, perché subì un chiaro complesso d’inferiorità verso il filosofo, avendo commesso l’errore di attaccarlo per primo nel campo a lui meno favorevole, quello della filosofia. Era un recinto in cui il Croce si disfaceva con la massima disinvoltura dei suoi avversari.
Sicchè Pirandello, messo ai ferri corti, soprattutto quando del Croce parlava in privato, ma anche di dichiarazioni da rendersi pubbliche, focosamente trascendeva alle parole offensive, mentre il filosofo faceva mostra di sublimare non meno autentici veleni su un disteso volto di ironica superiorità. Sotto gli insulti dell’Agrigentino è abbastanza evidente il conto che egli faceva dei giudizi del Croce, sotto la finta ironica moderazione di questo, c’è un dissimulato spirito di rivalsa”.

Gaspare Giudice, Pirandello, Ed. Utet, pag. 233/234.

Infatti il Croce in più riprese (non fu da meno Pirandello) criticò aspramente l’opera tutta, e grande fu il suo sdegno per il tanto maltrattato autore siciliano allorché a questi gli fu assegnato il premio Nobel.

Possiamo anche dire che tale “guerra” contribuì, almeno da larga schiera a disertare l’opera del Maestro e avendolo schivato, non avendolo approfondito, si è costruita una immagine un po’ diversa, distorta, come parte dei giudizi sulla sua opera.

Un sottile filo invisibile, conduttore, che ha tenuto legata la folta schiera di cultori che hanno intravisto Pirandello attraverso proiezioni differenti. A ciò si aggiunge il volontario esilio in cui lo stesso preferì rifugiarsi un po’ in quanto avvilito (seppur era forte di temperamento), e un po’ perché le vicissitudini familiari certo non gli consentirono di mostrarsi al pubblico.

Ha preferito trascorrere il suo tempo libero con i suoi personaggi, nell’intimità del suo essere e conferire con pochi, ma fidati amici. Questo esilio inevitabilmente non poteva creare premesse facili per un dialogo perfetto tra il Maestro e la società, per cui tale rapporto non produceva per niente frutti positivi.

Si evidenzia poi che la tematica della sua opera lasciava un po’ interdetti ed il discorso quadrava perfettamente. Vale la pena ricordare che ci si era abituati alla letteratura classicheggiante di D’Annunzio diffusa con la complicità del regime fascista. Proprio Benedetto Croce che tanto critico era stato nei confronti dello scrittore siciliano, per D’Annunzio (non si vuole entrare nel merito del giudizio importante del grande letterato) invece ha avuto sempre espressioni di assoluta celebrazione per quello scrittore che veniva, nel contempo, considerato come il più rappresentativo di quell’epoca. Ecco uno dei tanti suoi pensieri a favore del D’Annunzio.

“… Il quale è la principale espressione in Italia, e forse anche fuori d’Italia, di questo stato di spirito; il più magnifico rappresentante di animi così conformati o difformati, i cui precedenti e affini sono apparsi specialmente in Francia. Non che abbiamo tutti il medesimo temperamento e la medesima fisionomia; e già che cosa significherebbe temperamento o fisionomia identica? Ma un chiaro legame di parentela psichica congiunge il D’Annunzio coi Baudelaire e coi Verlaine, coi Barrés e con gli Huysmans, e con altri che ora non istarò a ricordare”. [3]

[3] Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, Ed. Laterza 1973, pag. 12

L’Italia tutta conosceva l’opera, l’oratoria dell’autore che faceva storia, scalpore (e non solo del punto di vista letterario) e mieteva “fans” a decine di migliaia per non dire che certe sue imprese militari accrebbero la fama di “vate” nazionale.

D’Annunzio non perdonò mai a Pirandello di essere stato tra coloro che fischiarono la rappresentazione “Sogno di un mattino di primavera”, così come non perdonò la critica dell’autore siciliano che scrisse per l’altra opera “Città morta”, definita più che una “tragedia” una “farsa”.

Tra Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello apparve subito come il terzo incomodo. Ed in coscienza il Maestro nulla fece per smentire tali sensazioni; anzi, quasi con sinistro piacere, ne alimentò tutte le componenti.

Lo scrittore Giovanni Macchia, scrivendo di Pirandello, in uno dei tanti suoi interventi letterari, ha così evidenziato tale polemica.

“Non sarà difficile contemplare da lontano, nella geografia letteraria contemporanea, l’estensione e la ricchezza ‘dell’isola Pirandello’. La solitudine, il distacco in cui fu tenuta la sua opera per lunghi anni, aiutarono a dare a quest’isola contorni netti; e la cinsero, insomma, di un alone di silenzio e di attesa. Coperta da nuvolaglie immobili, di una foschia quasi perenne, essa restò invisibile agi occhi anche più esercitati. Le fu negato ogni regime di scambi fertili e di osmosi, come se essa fosse l’isola di un condannato di cui, solo quando si riesce a superare un’innata e timorosa prevenzione, si scopre, nella stessa sua aridità, la strana e avara bellezza”. [4]

[4] Giovanni Macchia, Storia della Letteratura Italiana, Ed. Garzanti 1976, pag. 387

Un isolamento, quindi, inevitabile non solo della sua opera, ma della sua stessa umanità. Il Maestro avverte questo senso di disagio e si isola sempre più. Ormai è un personaggio troppo noto (quanto scomodo) ed ogni suo gesto, ogni sua parola viene interpretata in un certo modo.

I suoi personaggi che tanta fama gli hanno procurato, senza volerlo, diventano i suoi principali accusatori. Carichi come sono di passioni, di problematiche, di traguardi non raggiunti per cui creano sensazioni di assoluto disagio non lasciano tranquilli; ostentano una inquieta sicurezza che sicurezza non è ed il pubblico, la società che si rispecchia in quei personaggi, se ne distacca sdegnosamente. Un impatto violento, contestato e contrastato anche se il successo teatrale poco aveva da vedere e spartire con i riflessi sociali.

Diciamo che il successo teatrale era una componente, mentre le altre che dovevano allacciare il Maestro alla società di quel tempo, si rivelarono controproducenti per cui si creò un abisso sempre più profondo ed una incomprensione sempre più accentuata.

Si scoprirà più in avanti che il disagio avvertito da Pirandello altro non era stato che lo stesso percepito da quella società contemporanea la quale, frastornata da avvenimenti che la irretivano, si scostava dalla realtà e quanto più caparbiamente ve la si trascinava, tanto più questa se ne allontanava sdegnosamente. Certo prediligeva le epopee avventurose, molto barocche, di D’Annunzio il quale si vedeva circondato da belle donne, da cani formidabili, in splendidi giardini o dentro a magnifiche stanze riccamente (ed anche pacchianamente, secondo il nostro intendimento) arredate.

Un modo come l’altro per sfuggire ad una pesante e triste realtà e certamente non poteva pregustare né condividere il tormento del personaggio pirandelliano che sembrava troppo angustiato, troppo “personaggio” schiavo, per essere compreso ed apprezzato. Un dialogo tra sordi; un colloquio attraverso spessi muri che non lasciano filtrare alcuna parola; comunione spirituale tra animi freddi e corposamente lontani che vietavano la creazione di sensazioni benefiche che potessero contribuire ad un franco confronto.

Tale anomala situazione creava un rapporto d’insofferenza e seppur, come si è detto, la fama, la gloria, erano riconoscimenti ufficiali, diremo che la maggior parte della società, quella più cara al Maestro, gli era come nemica e questo lo amareggiava tanto. E non solo la classe media, piccola borghese (che lui stesso aveva accusata), ma la classe più elevata: la politica, soprattutto.

Si può leggere uno stralcio d’una lettera che il Maestro ha scritto inviandola alla figlia Lietta:

“… Purtroppo, tu sai com’è il nostro paese! In Francia, un letterato del mio nome che avesse proposto al Ministero degli Esteri di recarsi in America a parlare della cultura francese contemporanea: arte, letteratura, filosofia, critica, avrebbe subito avuto tutte le facilitazioni possibili ed immaginabili. Io non sono riuscito ad ottenere nulla!”.

Certo è compito assai arduo tentare di entrare nei meandri di un subcosciente lucidissimo quale quello del Maestro che per decenni ha contribuito a dare una immagine pubblica distorta (spesso non per colpa sua), anche se attraverso i suoi scritti è facile arrivare alla conclusione.

Il rapporto tra Pirandello e la società che lo ha circondato, non può definirsi, quindi, entusiasmante; tutt’altro! Egli avvertì i mali comuni che gli ronzavano attorno solo per contribuire ad una celebrazione che spesso detestava, anche se doveva accettare inverosimilmente.

“… perché per me, io mi metterei a sedere su di una pietra per via senza voglia d’alzarmene più, tanto sono stanco di tutto…”

Il contrasto evidente che viene riassunto tra la componente vita letteraria e vita sociale non può non riflettersi in avvenimenti che danno una caratterizzazione al suo modo di essere; basti pensare che il Maestro ha impattato con tre realtà diverse (ed in epoche diverse): la siciliana, la tedesca e quella romana, per non dire del suo lungo peregrinare da una città all’altra quando divenne Capocomico.

Accumulò quelle eterogenee esperienze che lo posero su di un piano particolare facendogli assumere una posizione che doveva per forza rivelare uno stato d’animo inquieto, a volte anche incerto, ma comunque non disposto a creare precisi rapporti con quanti lo circondavano. Diversa era la sua predisposizione, invece, per quanti lo seguivano artisticamente e cioè i tanti attori che facevano parte della sua Compagnia. [5]

[5] Parlando dei rapporti con gli attori, Marta Abba, ha così scritto: “Dalle avverse realtà Luigi si salva nell’arte, come sempre. Ma ora ha un intento diverso del passato. Dirige. Già: Pirandello dirige. Sarebbe?
Sarebbe come far muovere le statue. Statue? Gli attori, statue? No. Le statue sono le ‘parti’ o i personaggi, se così volete, ma inteso colla parola personaggio l’insieme delle forme e dei sentimenti, degl’istinti e delle significazioni ultime che ciascuna figura scenica porta in se. Ecco l’autore, prende un fatto della vita e lo spoglia d’ogni carattere contingenziale e caduco: estrae dalla materialità, purifica i fatti, non già in senso idealistico, ma per dire che
trasporta i fatti in un campo puramente immaginativo, liberandoli dalle compenetrazioni inutili e disutili dalla origine per far sì che ciascuna persona finta (personaggio) viva nella sua maniera essenziale: e resti fissata per sempre così, nella immobilità della forma.
Ecco, un personaggio è un tizio come atteggiamento, un tizio in quanto atteggiamento dello spirito; è una figurazione dell’umanità contenuta in un uomo o in più uomini; è qualche cosa di tolto alla mobilità della vita e composto di un lineamento fermo. Dunque una statua. Che fa l’attore? Come ognun vede, egli fa il contrario dell’autore; cala giù la statua da quella atmosfera d’immaginazione dove la vita può arrestarsi in aspetti essenziali; si sforza di mettere in movimento la pietra, di sciogliere le articolazioni d’una figura immobile. Già. Dall’autore all’attore, una statua è scolpita e poi mossa. Ecco il piacere della direzione scenica. Alzata una figurazione, Pirandello ne dava lettura agli attori, li suggestionava, li istigava a entrare nella immaginata parte e comporsi un’anima un volto come il personaggio, sostituendosi al personaggio, così come nelle carte disegnato e ristretto alla verità che gli compete: per sempre. […]
E perciò Pirandello s’appassionava. Le creature sue, da lui già concepite nelle pagine a sudario, le vedeva muoversi, camminare dentro la realtà creata sul palcoscenico. E perciò se gli attori, per imperizia, per imperfetta aderenza alla finzione, stonavano,
il nostro pativa nella carne: gli vedevi infatti il viso stravolto come se gli facessero male. (…) Pirandello ha esasperato l’arte: ma l’ha trattenuta sul limite del precipizio. Togliendo di sotto ai piedi del prossimo suo la verità impropria che ciascuna facilmente accetta dagli altri, egli ci obbliga a inalberare, quasi vela, una verità nostra che ad ogni attimo ci sostenga. E che sia più forte di noi, più degli altri, più forte del caso: (e perché no?) più forte della vita. Stavo per dire della morte. Non solo: ma una verità che sia lesta a superarsi e a rinnovarsi, ad ogni attimo, per la rapidità del corso degli eventi, a passo a passo con quanto ad ogni attimo decade e scompare. Per questo l’arte di Pirandello è consolatrice. Perché dà la forza di vivere a chi non ha ragione di vivere. Si: gli dà modo d’inventarla, codesta ragione; anzi, direi, gli fa obbligo d’inventarsela”.

Federico Nardelli, Pirandello l’uomo segreto, Op. Cit., pag. 191 e segg.

Il dialogo mancante nasceva da una sorta di diffidenza che il Maestro avvertiva negli uomini i quali a loro volta gli offrivano materia che lui plasmava e tramutava in opere letterarie.

Proprio questa coscienza letteraria, lucida, capace di immagazzinare il “peggio” della società, gli procurava (scindendo le due coscienze: la letteraria e l’umana) una sorta di rigetto verso quanti lo circondavano (non tutti, si capisce) ed anche perché tutto quel vociare attorno al suo nome, alla sua arte non faceva che irritarlo sempre di più, per cui preferiva allontanarsi e non alimentare quel rapporto che altri avrebbero voluto, magari per fini speculativi.

Diremo una certa riservatezza della sua vita intima interiore, non facile, certamente, e della quale era geloso.

Purtroppo il destino di quanti si affacciano alla ribalta nazionale (ed internazionale) per meriti, spesso devono sobbarcarsi anche i lati negativi che non sono pochi. Pirandello voleva sottrarsi a qualunque costo.

Voleva, e lo si capiva perfettamente, scindere le due entità: non era facile; diremo quasi impossibile.

Si instaurò, inevitabilmente, una sorta di guerra fredda tra il Maestro e la società.

“Il problema del rapporto tra l’uomo e la società scrive Franca Angelini è centrale in Pirandello, così com’è radicale la negazione di una possibile integrazione dell’uno nell’altra; nell’opera di demolizione dei miti umanistici e spiritualistici che affermano la centralità umana e l’unicità del punto di vista interpretativo della realtà, lo scrittore brucia molte tappe rapidamente passando dall’area del decadentismo a quella dell’esistenzialismo e del novecentismo e anticipando, sia nella narrativa che nel teatro, molti temi e molte tecniche poi ripresi nel secondo dopoguerra”. [6]

[6] Franca Angelini, Il Teatro del Novecento da Pirandello a Fo, Ed. Laterza 1981, pag.4

Forse quella popolarità che camminava pari passo con D’Annunzio gli ha nuociuto perché ne rappresentava l’altro estremo che certamente non poteva essere gradito da quanti nell’epopea dannunziana vedevano e sognavano un mondo diverso, socialmente più accettabile che non i tormenti interiori dei personaggi pirandelliani. Tra l’altro, storicamente, non erano tempi facile e la gente aveva bisogno, sete insaziabile, di creare miti e dimenticare.

Pirandello non poteva essere un mito, un esempio verso il quale propendere. E poi le sue opere!

Immagine negativa, prettamente involutiva che seppur riscuoteva successo (un successo contestato) non attirava simpatia. Molto acutamente Corrado Alvaro ha scritto:

“Lasciava parlare ed ascoltava. Di solito era scontento e inquieto. Dava un senso di solitudine, nessuno gli poteva fare compagnia veramente, ma piuttosto distrarlo, incuriosirlo…”  [7]

[7] Corrado Alvaro, Appunti e ricordi su L. Pirandello, Ed. Abete 1976, pag. 461

Una constatazione quanto mai precisa se si pensa che Alvaro fu tanto vicino al Maestro e forse più di ogni altro conobbe a fondo non solo il grande autore, ma l’uomo.

Era questa, quindi, la vera immagine dell’uomo Pirandello. La più vera, la più reale e soprattutto la più vicina al suo carattere che racchiudeva lo spirito indomito dell’isolano il quale attraverso una profonda e completa catarsi si buttava nella mischia con passione e personalità.

Il non aver contribuito a creare una immagine congeniale e bene accetta al grosso pubblico forse può essere ancora considerato un peccato, un difetto umano. Però anche in questo si concretizza la sua grandezza soprattutto di uomo dotato di pregi e difetti. Pur nella consapevolezza di apparire sgradito, continuava la sua strada (anche se intimamente soffriva per certe prese di posizione soprattutto quando si voleva scavare nel suo intimo gratuitamente), e nessuno e niente poteva farlo indietreggiare.

Come non lo fecero indietreggiare le accuse pungenti di Croce che era letto e seguito come un vate, raccogliendo attorno a se quasi tutta la cultura ufficiale dell’epoca per il prestigio non solo del suo nome, ma dei suoi scritti che avevano risonanza mondiale. Pirandello non ebbe paura, né tanto meno momenti di ripensamento. Fu ripagato, in verità con la stessa moneta.

D’altro canto non si poteva ottenere un accordo, né acquiescenza, né accomodamenti. Battaglia a fronte alta, anche se spesso scivolarono entrambi in una diatriba che di letterario aveva poco. Pur non di meno il confronto fu duro e continuò, da parte del Croce, anche dopo la morte dello scrittore siciliano.

Un primo attacco lo si ebbe, da parte del Croce, allorché scrisse sul saggio di Pirandello L’Umorismo, per poi continuare soprattutto quando l’autore siciliano s’iscrisse al Partito Fascista. Non fu di meno Pirandello rispondendo e controbattendo punto per punto. [8]

[8] A proposito di alcune affermazioni tra i due “belligeranti” ecco qualche informazione utile. Pirandello risponde (alcuni anni dopo alla pubblicazione del saggio) agli attacchi di Croce che ha scritto negativamente sul suo trattato, che tra l’altro tanto interesse suscitò tra gli studiosi.
Non è credibile che il Croce non intenda. Non vuole intendere… Tutto questo è veramente pietoso. […] La molta preparazione filosofica (la mia, si sa, è pochissima) ha condotto Croce a questa edificante conclusione. Si può sì parlare di questo o di quell’umorista; egli, filosoficamente, non ha nulla in contrario; ma guai a parlare dell’umorismo! Subito la filosofia del Croce diventa un formidabile cancello di ferro, che è vano scrollare. Non si passa! Ma che c’è dietro quel cancello? Niente. Questa è la sola equazione: intuizione espressione, e l’affermazione che è impossibile distinguere arte da non arte, l’intuizione artistica da intuizione comune. Ah, va bene! Non vi pare che si possa benissimo passar davanti a questo cancello chiuso, senza neanche voltarsi a guardarlo?”.
Così il Croce: “…la sua maniera consiste in taluni spunti artistici, soffocati o sfigurati da un convulso inconcludente filosofare. Né arte schietta dunque, né filosofia…il vuoto che pare pieno e il pieno che pare vuoto”. “…Pirandello si è composto una ricetta, ha trovato una maniera, e la viene adoperando con aria, cioè con stile, tutt’altro che d’angosciato, addolorato e furibondo.”. […] “… si è potuto credere che il Pirandello – che non ha mai in vita sua elaborato una proposizione filosofica, o che la sola volta che cercò di svolgere metodicamente un problema (nel libro dell’umorismo) provò questa sua incapacità sia penetrato nel mistero della vita!”. 

Gaspare Giudice, Op. Cit., pag. 236 e segg.

Ci si deve chiedere per scoprire ancora qualche cosa, il perché di tanta “anomala” presa di posizione del Maestro nei confronti della società. Era abbastanza lucido ed intelligente per comprendere che in quella maniera si attirava solo antipatie e contrasti. Sarebbe, forse, bastato poco; un sorriso… un discorso lezioso, una affermazione, e un accondiscendere a certe soluzioni ed anche per lui gli avvenimenti si sarebbero svolti a suo favore. Non lo fece.

Al di là dell’analisi condotta su di un raffronto diremo superficiale che scopre l’animo umano, deve essere analizzato (non si può dissociare tale connubio) l’animo dell’artista impregnato di problematiche e sensazioni profonde, spesso non percepibili al primo impatto.

La sua personalità, e quindi il suo spirito, racchiudeva i contrasti di una società che avvertiva il passaggio da un’epoca ottocentesca ad una nuova che si affacciava piena di premesse, di nuovo soluzioni: iniziava l’era del Novecento.

I nuovi fermenti che balzarono evidenti e ottenebrarono le coscienze, oltre ad alimentare i sogni, non trovarono disarmato il Maestro che, più di ogni altro, capì perfettamente la crisi dell’esistenza umana, dell’io che forse naufragava in una ridda di domande alcune delle quali senza mai risposta.

Una crisi esistenziale, o se si vuole di intelligenza, quella di cui fu vittima Pirandello che cercò disperatamente di avere una visione più chiara e di farla vedere, soprattutto altrettanta chiara. Un compito assai arduo ed improbo che lo relegò ad una sorta di isolamento mistico e intellettuale che costituì la premessa per la creazione di tutta l’intera opera.

Nella sintesi della famosa frase la vita o la si vive o la si scrive, è racchiusa tutta la sua esistenza interiore, intellettuale, sociale, umana. Infatti è riconosciuto che la creazione delle sue opere non era avvenimento letterario d’un particolare periodo fecondo, ma la lenta evoluzione progressiva della sua esistenza interiore che si dipanava e che trovava sfogo nella ideazione di personaggi ed opere che si accumulavano quasi con ritmo incessante.

Prova ne è che certe opere di grande respiro letterario furono create in particolari momenti di crisi esistenziale, ma già maturate in una lenta e progressiva incubazione che iniziò quasi fin dalla nascita.

Potrà servire, per meglio inquadrare questo aspetto assai importante, riportare alcuni brani illuminanti e significativi scritti dal prof. Leone de Castris, che tratta appunto di questo aspetto il quale non può passare inosservato e sul quale è bene avvalerci di pareri illustri di critici autorevoli che diano supporto alla presente trattazione.

“Il fondo intellettuale del dramma di Pirandello è in una contraddizione insanabile, che segna indubbiamente la qualità filosofica di un approdo: una esigenza spiritualistica e finalistica in un impianto meccanicistico e positivo. La frattura della dialettica idealista ne è l’occasione, la polemica nostalgia di quella dialettica la condizione morale. Pirandello vive la crisi positivistica nella sua costitutiva premessa scettica, ma, lungi dall’accaparrarsene, vi giustappone un’ansia di conoscenza assoluta, evidentemente destinata a non ottenere risposta. Il suo paradossale tormento è nel creare il VERO nell’ambito del CERTO, ma schiava del fenomeno, quel vero idealistico si frantuma in un relativismo senza consolazione”. [9]

[9] Leone de Castris, Op. Cit., pag. 10

E’ una crisi interiore che non può non riflettersi nell’Ottocento, quale sintesi operativa con lo scopo di porre le basi ad una dialettica che prenderà il nome di pirandellismo, [10] per arrivare a ribaltare certe prese di posizioni di coscienza assai care alla società borghese di quel tempo che all’apparire delle prime opere gridò allo scandalo.

[10] “Il pirandellismo, fuori dagli schemi di comodo, è la qualità specifica e continua di tutta la opera dello scrittore, coincidente con una deformazione tipica del mondo che si verifica man mano che questo si traduce in espressione. Ma trattarne in questi termini significherebbe ripetere ogni novella e ogni commedia”.

Cit. in Gaspare Giudice, Op. Cit., pag. 401

Addirittura quando fu rappresentata per la prima volta l’opera Sei personaggi in cerca d’autore, la folla inferocita quasi lo voleva linciare e Pirandello dovette riparare e nascondersi per non essere vittima di quelle intemperanze. Furono in molti a gridare allo scandalo e a volerlo in manicomio. Ma non fu la sola opera a non essere gradita e compresa immediatamente, altre furono contestate e tante volte il Maestro dovette subire gli attacchi di quanti lo insultavano, anche noti personaggi della cultura di allora, e non solo a livello Italia, giacché le sue opere ormai si rappresentavano in mezzo mondo. Quei personaggi  accusavano, mettevano lo specchio non solo di fronte all’immagine che ora appariva distorta, ma soprattutto contribuivano con le loro argomentazioni a squarciare gli animi, a frantumare certi intellettualismi che ora apparivano fatui.

Un impatto violento che non poteva sortire ad effetto positivo, non poteva suscitare consensi ed entusiasmi. Intanto, per contro, mentre si scatenava una campagna propagandistica che cercava di denigrare l’opera del Maestro, dall’altro canto i teatri presso cui venivano rappresentate le sue opere si riempivano e i libri cominciavano a circolare non solo nei salotti culturali, ma tra studiosi, critici, analisti e cultori di letteratura.

Tanto fracasso negativo, costituiva le premesse per un riconoscimento positivo. Quella molla che aveva fatto saltare i nervi ai rigorosi conservatori, per contro aveva messo in moto un meccanismo che dapprima, perché quasi consunto, procurò qualche scricchiolio maledetto, ma una volta in moto non si fermò più e quasi tutti furono coinvolti da questo movimento i cui ingranaggi provocarono sì lacerazioni e provocazioni, ma anche analisi interiori che portarono a più concrete e meditate riflessioni. Scrive ancora il prof. Leone de Castris:

“Egli è uno spiritualista caduto in un terreno positivo: gli resta il reale senza ideale, o, di questo, lo schema e l’esigenza, non la sostanza e la fede costruttiva. Applica una lente idealistica alla realtà, che, sposta come dato assoluto, ripugna alla sintesi razionale: e la realtà, egli la scopre quindi come molteplicità infinita, giustapposizione eterna di fenomeni; e la storia come venire fotogrammatico e inconcludente, e anzi frattura tra passato e presente, tra essere e divenire…”  [11]

[11] Leone de Castris, Op. Cit., pag. 10

D’altro canto, basti pensare all’avventura (doppia) di Mattia Pascal, che sembra fuggire da una realtà sociale non condivisa né recepita, la quale crea una situazione nuova ma sempre dipendente dalla prima per comprendere come il rapporto umano con una società che non gli è consone, tanto da farlo fuggire e fargli assumere panni diversi e condurre anche vite diverse.

Quasi un volere insistere sulla possibilità di estraniarsi da realtà vacue, da problematiche sterili e consunte le quali macerano i sentimenti e le intelligenze; di conseguenza un isolamento, o come ultima, quasi anacronistica soluzione, il vivere una seconda vita da…fu Mattia Pascal.

“La spiritualità, allo stato potenziale scrive Giovanna Abete, parlando del romanzo testé citato appare deviata nel suo nascere da forze naturali ed egocentriche. La staticità e il movimento avventato e occasionale rappresentano il ritmo del suo cammino. Sembra che l’essenza della personalità non riesca a tradursi in esistenza per l’assenza di un valido punto d’appoggio che possa costituirsi come ideale da raggiungere e che le possibilità creative della personalità siano affidate unicamente alle forze fluttuanti ed occasionali della esperienza”. [12]

[12] Giovanna Abete, Il vero volto di Pirandello, Ed. Abete 1961, pag. 42

In sintesi le condizioni di disagio che tutti i personaggi delle opere del Maestro rivelano, altro non sono che la somma di esperienze che si evolvono e si sfogano per irradiarsi e serpeggiare nelle coscienze umane che devono per forza prendere una posizione socio-spirituale. Tale presupposto non sfugge al Maestro che cercherà sempre di evidenziarlo anche se spesso e sovente non tutti saranno in grado di comprenderlo ed accettare le sue prese di posizione.

E se oggi l’uomo del secondo novecento ha accettato con più analitica coscienza la tematica dell’intera opera pirandelliana, per quanti ci hanno preceduto in epoche più lontane, non dovette essere tanto facile guardare quella piaga che veniva continuamente sezionata con costante monotonia. E sulla risultante di questa analisi non si può che essere pienamente d’accordo con quanto scritto dal prof. De Castris.

“In lui ed è questa la condizione fondamentale del sentimento e dell’arte sua i conflitti e le crisi dei grandi sistemi dell’ottocento non si presentano nella dimensione polemica e costruttiva delle ideologie filosofiche contemporanee, che porterà nuovi argini alla ricerca speculativa, alla ricerca della verità accentuando il momento operativo; ma si presentano proprio come fallimento e crollo di insostituibili valori, come tragica presa di coscienza di una frattura storica e ideale, che spontaneamente assume dimensioni esistenziali ”. [13]

[13] Leone de Castris, Op. Cit., pag. 10

La lucida logica che accompagna la produzione dell’autore e che costituisce la vera matrice nel preciso rapporto con la realtà sociale di quel tempo, deve essere inquadrata in un unico contesto evolutivo di contrapposizioni e di prese di posizioni perché due tendenze, due concezioni della vita si frappongono caparbiamente e si danno aspra battaglia.

Ed allora la risultante ultima del rapporto comincia ad apparire in tutta la sua interezza e viene meglio recepita e soprattutto si riesce a dare un senso e forse una risposta dello strano comportamento che ha accompagnato il Maestro e la società che lo ha circondato. Il suo malessere interiore non trova terreno fertile e accondiscendente, proprio per la peculiarità della problematica che scalfisce, punge, scarnifica.

Peculiarità, deve intendersi nel senso positivo riferentesi alla problematica, proprio per stigmatizzare un’emblematica caratterizzazione del contenuto dell’intera produzione che fa parte d’un corpo unico e solido che segue un iter ben preciso e lucidamente analitico.

Per dare, crediamo, maggiore completezza a quanto esposto superiormente, vogliamo completare il pensiero dell’autore critico, così da avere un preciso riferimento ed un quadro quanto mai completo per chiarire i precisi termini del rapporto che si analizza.

“Sicché mentre le filosofie che nascono dalla crisi, non sanno prenderne coscienza senza negarla, senza indurla in definitiva a momento di quella ricorrente vicenda di crolli e di superamenti che è la storia del pensiero, per Pirandello la coscienza di quella dilacerazione della storia, proprio per incapacità speculativa diventa coscienza di un momento irreversibile, crisi definitiva della condizione dell’uomo. Egli vive fino alle ultime conseguenze, nella solitudine della coscienza, tutta la vicenda europea dopo il crollo, delle ultime metafisiche della ragione: e appunto perché non risarcito da pseudo soluzioni filosofiche, resta inchiodato a un dramma insolubile, a una sconfitta razionale e a una pena umana ch’è la condizione di fondo della sua arte”. [14] Ibidem, pag. 11

Indubbiamente la posizione assunta dal Maestro risultava non del tutto chiara se si pensa che partecipava attivamente alla vita sociale; ne sono prova i suoi impegni non solo letterari, anche politici (seppur discussi e contestati); per non dire che la vita da lui condotta non presentava niente di particolare o di significativo nel senso che tutto si svolgeva secondo canoni precisi che lui accettava di buon grado, seppur nel suo profondo si ribellava.

Come certo si era ribellato, senza però strombazzarlo ai quattro venti, per la malattia della moglie, per il figlio Stefano fatto prigioniero, per la malattia del figlio Fausto anche lui sotto le armi e poi tante e tante altre traversie, non ultime le dispute con i suoi denigratori.

In ogni caso e in tutte le circostanze ha dimostrato un carattere forte che non ha mai travalicato il senso del civile comportamento e comunque il suo dolore (spostato nei personaggi) non è stato mai oggetto di dominio pubblico e quindi da essere pretesto di mercificazione.

Infatti, sotto questo aspetto, il comportamento di Pirandello è stato irreprensibile e le sue sofferenze non hanno mai interessato gli altri, a volte marginalmente i figli e pochissimi intimi, e poi basta.

Il suo riserbo è stato completo, totale e possiamo anche affermare che del clamore che gli altri fomentavano per lui non era condiviso dallo scrittore che rifuggiva, comunque, ogni manifestazione banale, chiassosa.

Ed il condensato di questo suo modo di vivere la sua personalissima tragedia, traspare in maniera evidente attraverso le parole scritte nel 1914 all’amico Ojetti al quale si rivolge, quasi per uno sfogo, incolpandosi della malattia della moglie.

Mio caro Ugo, forse da un pezzo ti sarà arrivata agli orecchi la notizia delle mie immeritatamente sciagurate condizioni familiari. Non è vero? Ho la moglie, caro Ugo, da molti anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io – il che dimostra senz’altro che è una vera pazzia io, io che ho sempre vissuto per la mia famiglia, esclusivamente, e per il mio lavoro, esiliato del tutto dal consorzio umano, per non dare a lei, alla sua pazzia, il minimo pretesto, d’adombrarsi. Ma non è giovato a nulla purtroppo…

Ecco quindi l’antro dentro il quale s’intravede il vero spirito dell’artista, la sua completa catarsi che appartiene solo a lui che la custodisce gelosamente e seppur scrive all’amico, questo momento è vissuto con scrupolo, con molta riservatezza, con pudicizia, con pacato e sofferto silenzio dove non c’è posto per gli estranei ad eccezion fatta per qualche amico, ma proprio qualcuno. Per questo esisteva il muro invisibile che costituiva barriera a quanti si accostavano al Maestro e ne avvertivano la presenza pur non spiegandosene le ragioni e i motivi.

Poteva essere anche una certa prevenzione, una costante riverenza ed ammirazione; il fatto è che per l’intera vita Pirandello fu circondato più da estranei e da gente che non lo comprese, che da veri amici, esclusi, alcuni, pochi e a lui cari.

Bisogna comunque sottolineare che l’animo profondo del Maestro era pieno di umanità e sensibilità. Quasi vivesse due vite interiori: quella pubblica il cui impatto non era quasi mai felice né entusiasmante; l’altra, riservatissima, dove albergavano sentimenti che pochissimi avevano occasione di constatare. (Ritorna in evidenza l’affermazione: il gran me ed il piccolo me). La testimonianza nella dichiarazione dei figli, in particolare, comprova come gli stessi abbiano avvertito questa umanità paterna e che a volte sembrava schiacciarli. Abbiamo riferito quale amore (un po’ morboso) riservava ai figli. Esiste una logica precisa per questo suo modo di vivere la vita sua che trova ampiamente documentazione attraverso l’evoluzione del suo pensiero e soprattutto attraverso l’attenta analisi delle sue opere.

“L’oggettività della novella pirandelliana scrive il Mazzali sta nella aderenza del fatto alla verità coerente del personaggio, al risolvimento senza residui del processo logico nella forma. Questa aderenza alimenta la passione. L’alternativa della inchiesta dissacratrice, alla corrosione e macerazione del dovere, del guardarsi vivere, del ricercare a ogni costa la forma che lo salvi (effimera come forma di vita, perenne come forma d’arte) sta appunto nella realtà opaca che ci circonda da ogni lato. E’ uno strazio anche il dover togliere e cogliere altrui la pietosa maschera delle funzioni, è crudele il fatto stesso di non poterci più credere, ancorati a una nostra accomodante realtà, quella che trovavamo addosso, il nostro alito consueto che altri ci hanno imposto e che noi, per assicurarci il quieto vivere, potremmo fingere nostro, l’abbiamo giusto per la nostra taglia”. [15]

[15] Ettore Mazzali, Op. Cit., pag. 97

Proprio la disperazione di Giuncano, nell’opera Diana e la Tuda, raccoglie la stessa che alimenta la mente ed il cuore di Pirandello il quale combatte tenacemente con l’idea della “vita” che deve trasformare, o almeno tentare, la materia informe per renderla a sua volta vita.

Il dramma dell’impossibile che cuoce lentamente l’interiorità dello scrittore fino a farlo affermare, attraverso lo scultore Giuncano che sente ed avverte la solitudine interiore così devastante, ma della quale non vuole (o non può) distaccarsi:

Quando io sento parlare, quando io guardo e vado per qualche luogo; nelle parole che sento, in ciò che vedo, nel silenzio delle cose, ho sempre un sospetto che ci possa essere qualche cosa di ignoto in me, a cui il mio spirito, pur lì presente, rischia di rimanere estraneo, e sto con l’ansia che, se ci potessi entrare, forse la mia vita s’aprirebbe a sensazioni nuove, tanto da parermi di vivere in un altro mondo. Questo qui, invece…io non so: e così: coi paraocchi: non sente, non vede nulla: vuole una cosa sola.

Il quotidiano interesse per quanto lo circonda diventa esso stesso materia inerte ed informe che la forza intellettuale dello scrittore tende a rendere vitale. Quasi un volersi scagliare contro le leggi della natura, quella stessa più volte posta sotto accusa dall’intelletto dello scrittore. Nasce una spinta propulsiva che simile a lava (l’Etna sembra convivere con lui) sgorga copiosa per espandersi in ogni punto della terra.

E’ impossibile non avvertire il senso del profondo disagio ed ecco perché le parole di Giuncano (arriverà alle estreme conseguenze) suonano sinistre, quasi premonitrici del dramma che si consuma in una catarsi profonda coinvolgendo l’uomo che non uscirà mai dal dramma. Continua, però, l’inconscio desiderio di un evento diverso che si trasmette e si rigenera in ogni altro essere.

Poter dar loro, con la forma, il movimento e avviarle, dopo averle scolpite, per un viale infinito, sotto il sole, dov’esse soltanto potessero andare, andare, andar per sempre, sognando di vivere lontano, fuori dalla vista di tutti, in un luogo di delizia che su la terra non si trova, la loro vita divina.

Quando l’atto cruento nel quale traspare non tanto la volontarietà del compiere quanto la consapevolezza dell’irreversibile sconfitta che coinvolge la modella si concretizza, allora si rabbrividisce nel constatare come la vita e la forma, contemporaneamente, perdono significato e sembrano non appartenere al mondo.

Tuda, la giovane modella, oggetto inconsapevole del dramma che ha scatenato l’anziano scultore, avrà solo poche parole da dire, per testimoniare l’annullamento di ogni raziocinante e comprensibile “ragionevolezza”.

Io che ora sono così: niente… più niente.

Bisogna anche porre in evidenza come la gran parte dei suoi personaggi femminili e genuini siano vittime, quasi obbligate alla sconfitta in quanto in altre opere, le stesse dovranno subire quelle sorti maledette cui sembrano essere sempre destinate. E’ ovvio che la malattia di Antonietta certamente ha sovvertito quell’equilibrio necessario per cui ora, tutte le donne, vengono accomunate da un destino crudele che le rende vittime sacrificali.

Così è per la Madre nei Sei personaggi:

Il mio strazio non è finito signore! Io sono viva e presente, sempre, in ogni momento del mio strazio, che si rinnova, vivo e presenta sempre.

Ed anche la Figliastra vive il suo dramma per la mortificante esperienza che ha dovuto subire nel salotto bene di Madama Pace. Anche il dramma interiore di Delia Morello (Ciascuno a suo modo) non può essere sottovalutato:

E sapevo io sola, io sola la vita ch’era in quella testa che s’era là fracassata per me; per me che non sono niente! Ero pazza, figuratevi come sono adesso!

Siamo scossi nell’udire l’ultimo disperato grido di Mommina (Questa sera si recita a soggetto):

… e quella notte, quella notte, figliuole mie, si compì il mio destino.

Lo strazio di Donn’Anna Luna (La vita che ti diedi) di fronte alla morte che viene ad essere accettata con quella tipica, isolana, rassegnazione.

E io qua? E’ ben questa la morte, figlia. Cosa da fare, si voglia o non si voglia e come da dire… Ora, un orario da consultare poi, la vettura per la stazione viaggiare… Siamo i poveri morti affaccendati. Martoriarsi consolarsi quietarsi E’ ben questa la morte.

Sottopone Silvia Gala (Il gioco delle parti) a guardarsi allo specchio (sempre lo specchio!) fino all’aberrante nausea per martirizzare sempre più il dramma personale:

Questo maledetto specchio che sono gli occhi degli altri, e i nostri stessi, quando non ci servono per guardare gli altri, ma per vederci, come ci conviene vivere… come dobbiamo vivere…Io non ne posso più!

Tanti altri personaggi femminili che spesso hanno il sapore agro che arriva dal lontano teatro greco così fatalmente popolato da eroine forti che seppur vittime sacrificali predestinate, hanno imposto la loro personalità e volontà. Accettando il loro olocausto hanno contribuito a santificare tutta la specie umana.

Ed è appunto l’olocausto di Ersilia Drei (Vestire, gli ignudi) a rendere l’azione così meschinamente portata avanti da Franco Laspiga ed il Console Grotti, pregna di pathos e di senso umano.

Le sue ultime parole arrivano come macigni che sconquassano i petti e fanno saltare tutte le corde musicali. Si ode solo la voce straziante della vittima che si offre:

Hai detto il sogno… non so…cose belle. E sei accorso qua per riparare. Si, come lui per riparare ha negato. No, no, per carità! E’ che ciascuno, ciascuno, vuol fare una bella figura. Più si è… più si è… e più ci vogliamo far belli, ecco. Dio mio sì, coprirci con un abitino decente, ecco Io non ne avevo più nessuno per ricomparirti davanti. Ma seppi che anche tu… sì, t’eri strappato quell’abito bello da marinajo. E allora mi vidi… mi vidi per la strada senza più nulla… e si, ancora, un altro pugno di fango addosso, a finire d’insudiciarmi. Dio, che schifo! che nausea! E allora… e allora volli farmela per la morte, almeno, una vestina decente. Ecco, vedete perché mentii? Per questo, vi giuro! non avevo potuto averne mai per la vita, da poter figurare in qualche modo, che non mi fosse strappata da tanti cani… dai tanti cani che mi sono saltati sempre addosso, per ogni via, che non mi fosse imbrattata da tutte le miserie più basse e più vili me ne volli fare una bella per la morte la più bella quella che era stata per me come un sogno, là e che mi fu strappata subito, anch’essa quella di fidanzata; ma per morirci, per morirci, per morirci e basta ecco con un po’ di rimpianto di tutti, e basta. Ebbene, no! no! Non ho potuto avere neanche questa! Lacerata addosso, strappata anche questa! No! Morire nuda! Scoperta, avvilita e spregiata! Ecco qua: siete contenti? E ora andate, andate. Lasciatemi morire in silenzio: nuda. Andate! Lo posso ben dire, ora, mi pare, che non voglio più vedere, che non voglio più sentire nessuno? Andate, andate a dire, tu a tua moglie, tu alla tua fidanzata, che questa morta ecco qua non s’è potuta vestire.

La mancata identità dell’Ignota (Come tu mi vuoi) porta quel dramma, quasi soffocato, in un contesto socio-morale che viene vissuto con rassegnata convinzione e pregiudizio dal personaggio che tenta di cambiare pelle senza però riuscire nell’intento.

E poi lo sbigottimento più evidente, nel silenzio interiore più lugubre, le parole della Signora Ponza (Così è, se vi pare): Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede.

Il brivido deve per forza attraversare la schiena di tutti i presenti che sentono il terreno mancare sotto i piedi lasciando che il cervello fluttui nell’oblio mentre il dramma si consuma lentamente, molto lentamente.

Nel variegato mondo femminile pirandelliano, ci imbattiamo in Palma Lori (Tutto per bene), nel mezzo d’una vicenda ch’è squisitamente “commedia” per gli intrecci e che attanaglia, per contro, un dramma umano e sociale.

Ebbene, così lo crederanno anche gli altri! E sarò io, sarò io la prima a farlo credere, a farlo credere a tutti, perché abbiano per te rispetto, considerazione…

Esiste anche il dramma in Livia Arciani ed Elena Orgera (La ragione degli altri) le quali sono sottoposte ad una dura prova e soprattutto Elena costretta ad un sacrificio umano impostole da Leonardo Arciani, il suo amante che pretenderà dalla donna il distacco dalla propria figlia nata da quella relazione adulterina.

Altro motivo, quella delle relazioni adulterine, che offre a Pirandello il pretesto per scagliarsi contro quelle (secondo una radicata sua convinzione) donne colpevoli di creare situazioni disastrose utili a coinvolgere tutti gli uomini. Si sarà ricordato della Jenny, così avanti nel concetto d’amore che sorprese, a dir poco, il giovane Luigi che, segnatamente, si portò dentro la complessità delle tradizioni familiari tipicamente isolane.

E la sua Antonietta era un’eccezione, nel senso che aveva avuto solo un uomo seppur con lo stesso non era riuscita a creare quell’osmosi sentimentale. Certo non solo per colpa di lei.

Arriva anche l’opera o il dramma delle gelosia pazzesca e furibonda che vede protagonista, Marta, l’amica delle mogli (L’amica delle mogli, dedicata a Marta Abba, come altre opere scritte, appunto, per la giovane attrice).

Ma sì, sì cara! Come tu mi credi! Stai tranquilla, stai tranquilla! Così ti fai male! … Stai tranquilla, cara. E sicura, sicura! Perché io sono, sì, veramente come tu mi credi.

Continuando ad esplorare questo variegato mondo femminile creato dall’autore siciliano, ci imbattiamo in Melina (O di uno o di nessuno) che, al massimo dell’assurdo, decidono di dividersi anche la donna, vittima sacrificale e predestinata.

E poi Donna Bice e Ginevra Vanzi (Non si sa come), travolte da passioni ed anche loro, come altre protagoniste, vittime di giochi assurdi, di situazioni paradossali ma comunque tendenti a martoriare l’animo di tutte quelle donne che subiscono, seppur le loro voci di disperazione riempiono il mondo. Ecco perché.

Il male, caro mio, (è Ginevra che parla) non è tanto quando ci avviene di farle, certe cose (tu dici: non si sa come), quanto di parlarne.

Altra opera di grande respiro è certamente Trovarsi, così piena di pathos dove anelanti sentimenti si frappongono, tenendo come irretiti tutti i personaggi. Emerge Donata Genzi, alle prese con una passione sentimentale che sembra gratificarla e che invece si rivela negativa per il fatto che la donna resta inglobata ed eterna prigioniera nel suo ruolo di attrice. E per conseguenza al vuoto umano-sentimentale, Donata si dedicherà ai personaggi teatrali, annullando così facendo la sua vera identità di donna.

E questo è vero… E non è vero niente… Non è soltanto che bisogna crearsi, creare! E allora soltanto, ci si ritrova.

Il concetto del ruolo del personaggio-uomo-attore, così caro a Pirandello, come caro è stato quello avente per oggetto la Forma e la Vita. Un excursus interiore che ha interessato tutta la sua tematica che si riallaccia al concetto che si era formato, nel corso degli anni, della donna e del rapporto con questa da parte dell’uomo (dell’uomo Pirandello).

L’amore di Verroccia (Quando si è qualcuno), così complesso, azzardato, impossibile, viene ad essere posto in luce attraverso un dramma che ha del metafisico in quanto quest’amore porterà ad estreme conseguenze.

E sarà la giovane Verroccia a soffrire in quanto, in tale gioco, rimane con la sua disperazione interiore e con la sua solitudine abissale che è la stessa ed identica a quella dell’autore.

Nell’opera La nuova colonia, verrà a trionfare il sacro vincolo della maternità che in La Spera, raggiunge la più alta espressione in quanto rappresenterà una sacralità intoccabile e indistruttibile perché voluta direttamente dalla natura.

Ancora amore e tradimento in Lazzaro, con Sara Spina, rea di aver tradito il marito che l’ha costretta ad una vita scialba, vuota, del tutto insignificante.

Con l’opera (una delle prime scritte per il teatro) La morsa, l’autore preannunzia quelli che saranno i temi a lui cari, presentando nell’atto unico una situazione familiare complessa nella quale unica vittima sarà Giulia la quale di fronte alla minaccia di essere privata dai figli non esita ad uccidersi.

Il famoso triangolo: lui, lei, l’altro, costituisce materia prolifica per l’autore che nell’opera La signora Morli, una e due, ripropone il tema del sentimento che si divide per due uomini: il marito e l’amante. Ed ancora la tematica messa in evidenza, attraverso Evelina Morli, dimostra chiaramente come l’autore si ponga a strenuo difensore della donna, creatura indifesa, vittima dell’egoismo degli uomini.

Ricordiamo Lillina (Pensaci Giacomino!), nel gioco quasi perverso intriso di tante amara ironia messa in atto per salvare una situazione (è incinta di Giacomino) anomala quanto scandalosa. Sarà poi la volta di Beatrice Fiorica (Il berretto a sonagli), vittima lei stessa dell’inganno che aveva ordito nei confronti di Ciampa. (Si può intravedere un qualche riferimento con la gelosia, alquanto ingiustificata, di Antonietta nei confronti del di lei marito Luigi?). Finirà in manicomio, quasi a dimostrare che atti inconsulti, tendenti a rompere l’equilibrio socio-sentimentale, portano all’annientamento della personalità umana anche se trattasi di una donna.

Nell’ideare il personaggio di Gasparina Torretta (Ma non è una cosa seria), l’autore ha usato un metro particolare perché questo tipico personaggio

emana tenerezza e trasuda sentimenti nobili per nella drammatica situazione in cui viene a trovarsi.

Molti critici sono concordi nel definirlo un personaggio spiritualmente più nobile e psicologicamente più vero.

In Maragrazia (L’altro figlio), emerge tutta la tragicità del dramma di una donna sottoposta a violenza che partorisce un figlio non desiderato, che viene abbandonata dai figli “veri” emigrati in America e che continua a rifiutare l’aiuto del figlio non voluto e mai accettato in quanto il suo cuore e per quei figli che sono lontani. Il sangue si ribella alla vista dell’altro nato per la violenza da lei subita, vittima predestinata, e si scioglie in lacrime cocenti perché continua a pensare agli altri due così lontani.

Poi ancora le tante donne di Liolà. Tuzza, Mita, Càrmina, Zia Ninfa, ed altre, in un gioco quasi orgiastico che rivela la tempra dell’uomo di campagna, siciliano, nel fulgore della gioventù che in mezzo a tante donne, vogliose, contrasta con l’ormai consumata vita dello Zì’ Simone Palumbo.

Sublime in tutta la sua forma magnetica la figura della Madre (La favola del figlio cambiato), che irradia vita e rappresenta la larga schiera, infinita, di tante madri le quali, pur tra tante difficoltà, continuano a svolgere il loro naturale ruolo affidato dalla natura.

Ed infine la grande opera (I giganti della montagna), così intrisa della maturità dell’autore che mette in evidenza il sacrificio di Ilse, detta anche la Contessa, per dimostrare che con la di lei morte si viene a consumare “la tragedia della morte dell’arte nella società moderna”.

Se la ricchezza c’è servita per comperarci la povertà, noi ci dobbiamo avvilire.

Con quest’ultima opera termina anche la produzione letteraria di Pirandello il quale non avrà nemmeno il tempo di completare.

Ma rimane come l’intera produzione una tangibile testimonianza del genio creativo che ha sviscerato cuori, cervelli, sentimenti per ricomporli senza far perdere la loro innata ed incommensurabile importanza. Anzi si può dire che da “personaggi” sono diventati “creature” vive e palpitanti con la voglia di vivere sulle tavole d’un palcoscenico, certamente, ma per coinvolgere con la loro forza tutti gli spettatori che indossano quei panni ed anche loro prendono parte alla continua rappresentazione nell’immenso palcoscenico del mondo.

Il Capocomico è ancora lì che osserva, scruta, ammicca e di tanto in tanto suggerisce la battuta, il movimento, l’azione.

Ed i tanti specchi che formano la scarna scenografia, moltiplicano all’infinito i personaggi che, nel tempo, saranno vivi perché la loro vita è riuscita ad entrare nella forma in quanto linfa apportatrice di nuovi concetti tutti tipicamente pirandelliani.

Potremmo dire che l’asse centrale attraverso il quale ruota l’intera dialettica e tematica pirandelliana si può racchiudere nella sua visione assai personale del rapporto uomo-società che deve per forza sottostare a precise leggi metafisiche, misconosciute ed incontrollate.

Concetto che cercherà di mettere in bocca a Ponza (Così è, se vi pare), allorquando, infastidito per quanto viene perpetrato in suo danno, dichiara non essere giusto che l’autorità precostituita, in generale, abbia a vessarlo e quindi perseguitarlo incessantemente, privandolo anche di quella indispensabile, minima libertà alla quale ha diritto. (Anche qui un riferimento personale per il fatto ch’erano in tanti a voler entrare nella sua vita privata con lo scopo di conoscere la realtà familiare nella quale viveva per avere l’opportunità, poi, di poterla sbandierare ai quattro venti).

Infatti l’uomo Pirandello, spesso indossa panni non suoi e disperatamente cerca di svestirsi, senza riuscire nell’intento. Costretto a portare sulle spalle il destino, forse scritto per altri, per l’intera vita e forse anche dopo. L’essenza, quindi, di una vita interiore frustrata, dove sentimenti, passioni, aspirazioni si fondono in un caotico insieme che non annulla ma rinvigorisce (un contrasto tipicamente pirandelliano) la personalità umana che seppur da situazioni negative, spesso è capace di trovare soluzioni positive.

Basta ricordare Ciampa (Il berretto a sonagli) che riesce a sovvertire una situazione che gli era piombata sulle spalle. Lo stesso Enrico IV, per non riferirci a Liolà, al professor Toti (pensaci Giacomino!) e tanti altri. E’ chiaro che il concetto si dovrebbe spostare mediante analisi particolareggiate ed analitiche in quanto molte opere (almeno le maggiori, tanto per intenderci) richiedono una maggiore lettura e quindi un più approfondito esame.

Si pensi, e si ricordi, a questo punto, che l’intera evoluzione del pensiero predominante, è impregnato di tale precisa indicazione voluta e sviluppata da Pirandello, proprio in piena sintonia con la sua vera, intima, personalità che aveva già subìto un processo spirituale dei più difficili e tormentati. [16]

[16] “Ma Pirandello aveva fornito abbastanza presto da sé la carta di riconoscimento della sua arte, la formula che stringeva in solidarietà gli elementi diversi che fermentavano nella sua immaginazione e alimentavano i meccanismi di una scrittura ‘scomposta’ e della ‘sconposizione’ del personaggio. A questo principio paradossalmente coesivo aveva dato il nome di ‘umorismo’, e l’aveva dato anche a una poetica che consentiva di recuperare tanta letteratura del passato e a individuare un’uscita di sicurezza per la letteratura del suo tempo”.

Nino Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Ed. Laterza 2000, pag. 120

Ecco perché la concezione dell’uomo pirandelliano scarica sue passioni attraverso un dialogo spesso tortuoso ed incomprensibile; attraverso una analisi dei fatti che lo circondano non sempre facilmente recepiti dal grosso pubblico che vive (quasi vegeta culturalmente) e certamente non si “cala” all’interno della sua stessa spiritualità in quanto spesso “propone” sentimenti che poco hanno di spirituale.

I sentimenti che tormentano il Padre (Sei personaggi in cerca d’autore) su di un palcoscenico spoglio cercando di raccontare la sua tragedia interiore che si materializza; lo stesso Ciampa che vuole salvare una crisi che non ha niente di spirituale; Enrico IV che assiste e poi partecipa ad una evoluzione di una problematica che man mano, nell’evolversi di una atipica situazione, si concretizza per non dire di Laudisi nel tentativo di tessere le fila nello aggrovigliato mondo spirituale dei coniugi Ponza-Frola e tanti altri, mettono in luce la predominante caratteristica voluta dallo scrittore.

Personaggi che vogliono avere un preciso rapporto con la società che li circonda seppur devono soggiacere, nonostante tentino la ribellione, a precise leggi.

E’ l’uomo Pirandello che, servendosi dello scrittore Pirandello, tenta in tutta i modi di ribellarsi non accettando il contesto di quella società che per contro non lo ha compreso, non lo ha amato e quando ha potuto lo ha contestato ed umiliato.

Ai personaggi viene loro imposto di indossare un abito che spesso si rivela o troppo stretto o troppo largo. Da questo momento, cioè dalla consapevolezza di essere uomo-personaggio, inizia il vero dramma interiore che si materializza in azioni ed avvenimenti purché abbiano una precisa indicazione che servirà da monito ed insegnamento.

In questa ottica, attraverso tale tortuoso cammino interiore, la materializzazione dei sentimenti non può trovare terreno fertile in una società che non accetta il tormento “interiore”, il partire da molto lontano, o – peggio – il discorso farraginoso che spezza gli equilibri.

Così per questo motivo il rapporto uomo-società ed il rapporto Pirandello-società diventa difficile, incomprensibile, astioso. Occorreranno anni ed anni perché la società accetti personaggi pirandelliani e quindi il loro autore.

Ci vorrà uno studio costante ed analitico tendente a scoprire i più reconditi meandri non solo d’una intelligenza vivida, ma di una coscienza che racchiudesse i mali di un’epoca storica assai difficile e di una società che, seppur guardava all’avvenire, non viveva per niente il presente, relegandosi ad un passato che diventava sempre più oscuro e meno individuabile.

“Quello ad esempio scrive Nella Zoia che si può chiamare la teoria del personaggio, nasce dalla intensità e direi dalla prepotenza stessa della attività creatrice, sottoposta al rinvigorente rigore di un’accesa riflessione.” [17]

[17] Nella Zoia, Pirandello, Ed. Morcelliana 1948, pag. 77

La spinta evolutiva sociale che proveniva, anche e soprattutto, dagli strati sociali più bassi, dava una visione pluralistica dove problemi eterogenei e prese di posizioni, spesso contrastanti, costituivano materia ricca per analisi, confronti, rapporti con movimenti culturali, politici, ecc.

L’Europa tutta ferveva di concezioni pseudo culturali che si identificavano in movimenti di più ampio respiro sfocianti in ideologie politiche che spezzavano frontiere e annegavano vecchie tradizioni trovando impreparati un po’ tutti. Qualcuno prevedeva tempi neri, mentre il movimento culturale, mai come in questo periodo preciso, veniva scosso da forti fermenti e contrasti e le varie tendenze umanistiche si scontravano violentemente.

Il quadro sociale di quell’epoca era quanto mai offuscato e tanti e tanti erano gli esponenti più rappresentativi che non si identificavano con la cultura, ma con la politica che spezzava ogni tentativo che arrestasse quella corsa affannosa evolutiva non solo del pensiero ideologico, ma dell’avventura che mirava alla conquista del potere. Già Hitler e l’Europa si apprestava a vivere uno dei periodi più travagliati e tormentati.

Come tutti i letterati anche Pirandello venne travolto dagli eventi e fu vittima di un sistema che lo irretì e per il quale molto si è discusso.

Resta comunque il fatto che anche gli eventi esterni influirono sul rapporto che Pirandello tenne con la società e dobbiamo dire che tali avvenimenti contribuirono ad appesantire ulteriormente la situazione non certamente felice.

Il Maestro aveva posto come punto focale della sua dialettica la famiglia contornata da tradizioni che non potevano e non dovevano essere ribaltate. Forse perché la sua (l’ambiente nel quale era sempre vissuto, anche da bambino) lo aveva affascinato anche se lo aveva reso schiavo di situazioni anormali che per un verso lo tormentarono rendendolo schivo.

Questa famiglia ora veniva turbata, quasi dilaniata da avvenimenti esterni che si inserivano nel tessuto specifico provocando lacerazioni e turbamenti. Le coscienze oscillavano, i propositi di libertà traditi, la condizione umana veniva sempre più vessata dal potere che con il suo ferreo tallone metteva a dura prova l’intera società.

E non soffriva soltanto la povera gente, ma tutta la classe sociale, tranne pochi e non diremmo neppure privilegiati. [18]

[18] “Il fascismo, mediato dalla guerra e dagli eventi che ad essa immediatamente succedettero (la nuova crisi industriale provocata dalla impossibilità di convertire la produzione bellica in produzione di pace, il rinvigorimento del socialismo rivoluzionario e soprattutto la reazione contro questo degli strati intermedi della borghesia) sigillò l’alleanza di comodo tra i medi e gli altri strati borghesi volti a rinsaldare la struttura capitalista: e questo avvenne, come si sa, attraverso la finta rivoluzione mussoliniana, presto trasformatasi in tirannia. Il fascismo, oltre che come manifestazione rivoluzionaria, si presentò come ‘ritorno all’ordine’, un ‘ordine’ che rispondeva in tutto e per tutto agli interessi borghesi dell’età di Giolitti ma che, tuttavia, pareva avere una diversa matrice, un’origine ibrida nella quale concetti come ‘rivoluzione’ e ‘restaurazione’ si incrociavano e si confondevano”.

Gian Franco Venè, Pirandello fascista, Ed. Mondadori 1991,, pag. 53 e segg.

La storia, con tutte le sue storture, ha ormai evidenziato una situazione ben chiara di quanto sia accaduto in quel periodo e quanti abbiano agito per convenienza o perché costretti. Sta di fatto che l’animo di Pirandello non poté non soffrire per questa postura insostenibile.

Ecco perché:

“Pur imbevuti di un particolare senso della vita, scrive Maria Argenziano, i molti personaggi pirandelliani non sono certo allegoriche astrazioni; sono fatti come noi e ci si potrebbe trovare gomito a gomito con loro”. [19]

[19] Maria Argenziano, Maschere Nude (Prefazione), Ed. Newton Compton 1973, pag. 28

In questo nuovo contesto, Pirandello prende alcune decisioni assai importanti che daranno adito a pareri contrastanti.

Noi diremo che, seppur a tal proposito era lungi da lui l’idea di aderire con quella razionale logica ad un movimento politico che cominciava a mostrare il suo vero volto, non possiamo non negare che l’essersi iscritto al Partito Fascista fu un passo falso che alimentò contro lo stesso sentimenti di ancor più accentuata antipatia e avversione.

Seppur in una certa logica d’intenti così presenti nello scrittore che sembrano oscurare la realtà del momento, si ha da sottolineare che quel partito certo non rappresentava, nella sostanza, il meglio dell’aspirazione del popolo italiano ed i fatti succeduti, subito dopo, lo hanno dimostrato ampiamente. Per l’autore, in quel momento, gli eventi sembrarono non coinvolgerlo ed è per questo che la sua adesione sembra rivelarci una interiorità.

Quindi un distacco tra la volontà di Pirandello e la realtà nella quale egli stesso viveva e della quale non poteva non accorgersi.

Ma nel retaggio socio-culturale, bagaglio assai prezioso dell’animo e dello intelletto pirandelliano, emerge chiaramente il ruolo che la famiglia assume e deve assumere anche in periodi cupi ed oscuri. Lo spettro della miseria, della contaminazione di eventi più importanti degli stessi desideri di libertà ed aspirazione di giorni più sereni, mette in moto un meccanismo che produce personaggi quasi contorti, che si affannano a dare una risposta ed una giusta spiegazione dei tanti ed innumerevoli perché.

Forse una inutile, si dirà, analisi interiore che mai viene recepita, soprattutto nella considerazione che il creatore di quei personaggi non si era mai avvicinato alla società che ora poneva sotto accusa e poi per tutta risposta aveva aderito anche al fascismo. “Pirandello scrive Vito Pandolfi in realtà viene trascinato dalla sorte dei suoi stessi personaggi, ne diviene vittima. Non se ne erige mai a giudice, ma se ne fa voce, anelito, espressione vitale, personaggio quindi tra i personaggi, coinvolto nella stessa condanna che espone e che commenta senza riconoscerla”. [20]

[20] Vito Pandolfi, Storia del Teatro, Ed. Utet 1964, pag. 617

C’è quindi una coscienza operativa che guida la mano e la mente di Pirandello così viva e talmente razionale tanto da poter accomunare i mali di tutta la società di quel tempo senza tralasciare il benché minino o insignificante particolare. Tale presupposto, nel tempo, diventerà l’asse attorno al quale ruoterà tutta la sua tematica e saranno in tanti a partire da questa considerazione per intrecciare i discorsi e le analisi critiche che, per tanto lungo tempo ed ancora in verità hanno visto impegnati studiosi di questo scrittore.

“Il nucleo familiare, scrive ancora Giovanni Macchia, è l’oscuro germe da cui nascono gli infiniti casi pirandelliani, in combinazioni sempre nuove e fortuite. E’ nella famiglia che la forma della vita e della morte, appaiono strette, legate fino a togliere il respiro; è in essa che coesistono il presente, il passato e l’avvenire, i vivi e i morti, i vecchi e i giovani così che anche il romanzo che porta tale titolo, sembra l’allargamento, su un piano politico-sociale, di quel rapporto”. [21]

[21] Giovanni Macchia, Storia della Letteratura Italiana, Ed. Garzanti 1976, pag. 67

Da queste precise premesse nasce e si dipana tutta la tematica pirandelliana che fa accomunare passioni e tradizioni, eventi e personaggi. Gli stessi ancora una volta balzano in modo prepotente e si inseriscono nella società capovolgendo schemi primitivi che i più hanno assorbito e vivono in una sorta di apatia congenita.

Tutto scorre quasi monotono, vergognosamente monotono e solo Pirandello, dal suo studio, curvo sulla sua macchina da scrivere, incide lentamente prima sulla pelle, poi sui tessuti, sulla carne e sempre più in profondità per mettere a nudo sensazioni e percezioni che sembrano essere smarrite. Donne adultere, uomini che nel tradimento forse trovano la forza e la ragione di vivere, famiglie che si dilaniano a vista d’occhio, esseri indifesi in mano a dei malviventi, pazzi che condizionano i più savi e savi che vogliono emulare i pazzi.

Come sempre il tema della pazzia così presente nell’autore quasi ad emularla non come un evento negativo, ma forse come una componente senza la quale l’uomo non avrebbe capacità di misurarsi con se stesso e con gli altri. Un tormento interiore che trabocca da ogni lembo così qualsiasi piccola ferita diventa un antro dove poter intravedere la propria introspezione e quindi identificarsi.

Il tutto in un gioco allucinante, spesso impietoso se si pena che l’opera di Pirandello è un insieme che scarnifica seppur per intenti positivi.

Ma non si può accettare tutto il discorso che proviene da una mente d’un uomo che non ha mai cercato e creato un rapporto preciso con la gente, ed allora lo scontro diventa inevitabile e violento e Pirandello riceve il biasimo (anche dopo morto) non solo dalla società, ma da uomini che lo tacciano di fantasticherie e di profittare, per farsi un nome, delle miserie altrui. Gli anni che seguiranno daranno una più esatta valutazione del comportamento del Maestro, anche se è necessario non tralasciare ogni minimo avvenimento scavando soprattutto nel suo animo per arrivare ad una conclusione, se di conclusione si può parlare.

“E se i suoi eroi non diventano personaggi crepuscolari è ancora Giovanni Macchia a scrivere dai contorni indecisi, impigliati in una delactatio morosa, è che lo stato sociale di negatività fallimentare in cui vegetano è in stretto rapporto con una forza di vita repressa, che può scoppiare nel dolore, nella smorfia, nella pazzia, nell’insospettata sensualità, da una vita psichica sotterranea e infelice, in improvvisi paesaggi di una lontana e immensa felicità. La cartella clinica di questi ‘eroi’, letta in profondità, farebbe scoprire oscure ragioni delle loro nevrosi o dei loro isterismi e la gelosia e la pazzia: la pazzia, grande tema pirandelliano, che esercita un’attrazione d’orrore e di sgomento”. [21] Ibidem, pag. 68 e segg.

Attraverso questa analisi interiore e forzando il segreto dell’animo del Maestro, con lo stesso bisturi, si tenta di capire a fondo il perché di questo instabile rapporto che caratterizza l’arco della sua vita e possiamo anche dire che è durato per tanto tempo ancora. Questa diffidenza ad accostarsi alla sua opera, a recepire quanto i personaggi intendevano dire è da ricercare in meandri profondi e gelosamente custoditi che rappresentavano la roccaforte dentro la quale il Maestro si sentiva al sicuro. A tanta sicurezza letteraria sarà corrisposta una insicurezza interiore che difficilmente lasciava trasparire.

Una sua debolezza? Un suo peccato di vanagloria? Certamente una condizione particolare che forse ancora dovrà essere scoperta.

Pietro Seddio

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