Di Pietro Seddio.
Perché non dire pure che il giovane era schiavo della sua stessa timidezza, insicurezza, incostanza. Seppur i suoi lavori dimostrano un intelletto forte e volitivo, il suo animo invece denunzia i segni evidenti ed inconfutabili d’una timidezza che gelosamente tiene nascosta e custodita
Pirandello. L’uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
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Pirandello. L’uomo del Caos
Capitolo 3
Il periodo della maturità
Leggendo Il fu Mattia Pascal, [1] è facile riscontrare come il Maestro faccia riferimento a luoghi e personaggi rimastigli vivi nella memoria nel periodo in cui si era trovato a Roma per frequentare l’università. Si era trasferito nella capitale nel 1887. Da quando era arrivato a Roma, al giorno in cui si era messo a scrivere il romanzo, erano già trascorsi diciassette anni; ma nella sua memoria ogni momento già vissuto nella capitale era rimasto focalizzato al massimo. Anche episodi di vita isolana e fatti curiosi di quella terrà così ricca e prolifera.
[1] Il fu Mattia Pascal è il romanzo pirandelliano che più radicalmente scardina la tecnica narrativa verista: per la sua concezione del personaggio e dell’obiettività dei fatti, per la mancanza di linearità del tempo narrativo e dell’invertito rapporto causa-effetto che governa l’intreccio.
Franca Angelini, Il Teatro del Novecento da Pirandello a Fo, Ed. Laterza 1981, pag.16
Portando con sé il bagaglio di esperienze acquisite nell’isola, Pirandello, quindi affrontava la nuova realtà senza perdere quel radicato pessimismo. Seppur si dedicava, con più frequenza, alla composizione letteraria, era ancora lontano dall’esservi totalmente impegnato.
Giustamente alcuni critici hanno analizzato le numerose lettere che il Maestro ha inviato ai suoi familiari. Da queste emerge chiaramente il suo carattere, il suo pensiero.
“Io sono così. La grandezza, la fama, la gloria, non stimolano più l’anima mia. Vale forse logorarsi il cervello e lo spirito, per essere rammentato e apprezzato dagli uomini? Sciocchezza! Io scrivo e studio per dimenticare me stesso, per distrarmi dalla disperazione. […] Non credere pertanto che la mancanza d’ogni illusione e d’ogni speranza mi perda. Un concetto positivo e scientifico della vita mi fa vivere come tutti gli altri vermi…”. [2]
[2] Gaspare Giudice, Pirandello, Ed. Utet, pagg. 94/95
Ogni commento a tali frasi sembra superfluo. Emergono chiaramente i chiaroscuri della sua anima e quindi della sua dialettica, che si intravedono per un verso anche nel volumetto Mal Giocondo, una sua prima importante composizione in versi. Tuttavia se da un lato appare questo carattere pessimista, dall’altro per contrapposizione emerge una volontà capace di riuscire a superare gli ostacoli, a farsi strada nella vita.
Si aggiunga anche l’esuberanza giovanile. Certo il tarlo di sentimenti irreversibili che denunziano uno stato d’animo cupo e chiuso era quasi preponderante; ma il carattere forte del Maestro ostacolava l’avanzata repentina.
E come spesso gli accadde ebbe a trovarsi tra due forze opposte e contrastanti che ne rafforzarono l’animo, l’intelletto, ma ne acuirono il disagio da tutti avvertito, allorquando lo avvicinavano o leggevano i suoi scritti. Diremo, per onestà biografica, che l’incontro con lo zio segnò un momento particolare della sua sensibilità di scrittore.
Poté constatare come quell’uomo, una volta eroe, fosse ridotto ad un simbolo o peggio ad un numero insignificante. [3]
[3] La famiglia materna di Pirandello ha come capo-stipite il nonno dello stesso Giovanni Ricci Gramitto, avvocato di grido e assertore dell’unità d’Italia. Nella rivoluzione del ’48 prese parte al governo provvisorio e quando fu restaurato il governo borbonico dovette riparare a Malta. Morto Giovanni, lo zio canonico aperse la porta ai reduci, accolse la vedova del fratello e fece studiare i due nipoti Francesco, il maggiore, e Rocco che si laureò in legge. Vincenzo ch’era il terzo, si avviò al sacerdozio, ma nel ’60 gettò la tonaca e andò ad arruolarsi con Garibaldi, tra i Mille a Marsala.
Gli eventi storici assumono per il Maestro problematiche assai particolari e quindi viste con ottica quasi diversa dalla realtà, appunto per queste sue considerazioni, facilmente riscontrabili tra le pagine dell’altro romanzo I vecchi e i giovani, dove di conseguenza appunto la realtà storica di Pirandello non sempre è attendibile ed oculatamente osservata.
Come evidenziato, non poteva e non poté essere uno storico; gli eventi da lui analizzati mancavano di obiettività in quanto agli stessi contrapponeva il suo temperamento e gli impulsi, che nascevano da esperienze personalissime e dirette, all’anamnesi storica.
E’ accertato, anche se non esistono molti documenti probanti perché distrutti, che in quel periodo di soggiorno universitario romano, Pirandello partecipò con sue commedie alla vita teatrale di quella città. Scrisse e rappresentò qualche suo lavoro teatrale, citiamo ad esempio La gente allegra; Le popolane.
Notizie frammentarie sull’esito di queste rappresentazioni ci inducono a non soffermarci a lungo sul valore intrinseco delle stesse. E’ importante comunque sottolineare che già il giovane viene preso dalla febbre del teatro e pregusta, anche se più tardi si allontanerà, per poi fare ancora ritorno, quella vita da palcoscenico fatta di emozioni, di attese, di prove snervanti, di illusioni, di successi, di delusioni. Se da un lato il Maestro fu colpito dalla grandezza e bellezza di Roma, certamente non si trovò a suo agio nelle aule dell’università di quella città.
Caterina, sorella dei garibaldini, e poi madre di Luigi, cucì al buio, nottetempo, la bandiera colla quale erasi deciso d’uscire il quattro aprile….
Caterina, crebbe in codesta atmosfera romantica. Bianca di pelle, nera di trecce, piccola di statura tanto che dicevasi vergognosa di mostrarsi allato del suo stragrande marito, commise al figlio, colla finezza e il rispetto di sé, l’abito della vita interiore per cui Luigi ogni propria violenza, e la sensualità e l’amore, trasferì di continuo in una sfera di spiritualità. (Cit. in Federico V. Nardelli, Pirandello l’uomo segreto, Ed. Bompiani 1986, pag. 12)
Dal poemetto Mal Giocondo, [4] che ebbe un buon successo, è facile riscontrare l’entusiasmo che quella folla provocava nel suo animo giovanile, anche se mille problemi lo assillavano: tra tutti il legame che lo teneva ancora unito (anche se a malo modo) alla fidanzata.
[4] Il libro ebbe qualche successo anche fuori dall’isola. Il Graf, al quale, come a maestro, Pirandello inviò tutte le prime raccolte poetiche, riconobbe che in “Mal giocondo” erano “multa bona mixta malis”. Il Gargano recensì il libro su la “Vita nuova”, la rivista fiorentina dei fratelli Orvieto, qualificando Pirandello un “novo poeta”.
Era un legame, quello, che lui voleva “recidere”, anche se gli mancava la forza per il rispetto che aveva per la parola e l’impegno assunto. Un legame per niente sentito, ma comunque voluto…dagli altri.
Manco a farlo apposta, il giovane fu vittima di un incidente letterario scolastico con il docente di letteratura latina, Onorato Occioni.
Per questo incidente, il giovane fu costretto (pur avendo ragione) a lasciare l’università di Roma. Su consiglio di Ernesto Monaci si iscrisse all’università di Bonn alla Facoltà di Filologia.
Andò ad abitare nella pensione del signor Mohl di via Neuthor 1 e poi in quella della signora Schulz Lander, in via Breitnstrasse 37 dove ebbe modo di conoscere la bellissima figliola di lei, Jenny.
Un amore dai contorni a volte indefiniti per il giovane italiano che scrive composizioni poetice Elegie renane [5] e Pasqua di Gea.
[5] Le “Elegie” si propongono il modello goethiano delle “Elegie romane”. Queste, l’autore andava traducendo contemporaneamente e, per le “Romane” e per le “Renane”, volle usare lo stesso metro, un distico elegiaco ispirato ai metri carducciani. Anche la varia lunghezza delle singole elegie ricalca l’esemplare goethiano.
Cit. in Gaspare Giudice, Op. Cit., pag. 126
Si chiude il primo capitolo del soggiorno universitario del giovane Luigi che lascia la capitale trascinandosi più delusioni che esperienze positive e si ritrova a Bonn. I primi mesi Pirandello fu costretto ad affrontare problemi di ambientamento aggravati da una serie di malanni fisici, come risulta da alcune lettere che, intorno al 1890, scrisse alla sorella. [6]
[6] “Quel medico osservatomi attentamente è venuto alla conclusione che il mio male deriva principalmente dallo stomaco e dal modo di vivere sciaguratissimo che io conduco. Mi ha però suggerito di non lavorar che pochissimo e all’impiedi, di far delle lunghe passeggiate, di non mangiare che cibi sani e tritando bene, di non fumare affatto e di non bere caffè. Cose vecchie e per la più parte inattuabili”. (Lettera inviata alla sorella Lina il 24 giugno 1980).
Preme anche sottolineare, come il giovane Luigi porti un ricordo preciso di Roma e come, al ritorno, dopo anni, troverà molti cambiamenti e possiamo dire che parte della sua produzione maggiore sarà il frutto di queste due diverse realtà che lo hanno interessato e conquistato. Roma, in seguito, sarà la sua dimora preferita, quando non peregrinerà (ormai famoso autore) da una città all’altra disseminate per il mondo.
Durante questo soggiorno creerà i suoi capolavori, trasferendo spesso lo spirito di episodi, personaggi e fatti della Roma borghese (analogamente per alcune opere di ispirazione siciliana) che certamente mette sotto accusa o meglio ironizzando in maniera profonda, così da suscitare irritazioni e saranno molti i nemici che lo circonderanno e lo avverseranno. La cronistoria degli spostamenti del giovane Luigi, seppur indicati per sommi capi, tende a dare maggiormente una dimensione della sua maturità la quale si acquisisce con esperienze diverse e dirette, perché poi meglio possa comprendersi il suo animo che rimane l’obiettivo principale della trattazione. Attraverso queste analisi, spesso indicazioni più che analisi, si vuole cogliere il senso dell’uomo Pirandello in quanto, con l’insieme dalla sua vasta opera, si possa avere la “presunzione” di conoscerlo a fondo.
Tra l’altro non possono non seguirsi questi cenni storici perché il personaggio potrebbe risultare tanto sfuggente da non cogliere “quel senso” già posto in evidenza nei capitoli precedenti. Il primo contatto con la realtà di Bonn lascia Pirandello privo di comunicare.
E’ un ambiente completamente diverso, usi, gente, clima (anche); tutto si presentava al giovane come assoluta novità.
Ne rimane sorpreso, deluso; qualche volta angosciato. Dall’arida Sicilia, alla popolana capitale laziale, alla calma della città nordica.
E seppur dalle sue composizione traspariva una certa allegria (versi spigliati) certamente il suo animo non era del tutto soddisfatto. Non si dimentichi che il giovane era uno studente universitario e che il clima degli atenei non è certo triste, né si pone troppe domande.
Si può anche pensare ad un senso di spensieratezza di Luigi, lontano come si trovava dai problemi suoi personali nella proiezione con la sua terra e, più specificatamente, con la sua famiglia. Tra l’altro, economicamente, non se la passava male.
Tutt’altro. Forse tra i tanti periodi questo oltre ad essere il più sereno, il più costruttivo, il più importante è stato quello in cui l’artista ha raggiunto una vera e propria maturità.
Sono noti gli studi che ha perseguito e della laurea che gli è stata conferita, dopo aver dottamente discusso la tesi:
“Suoni e viluppi di suoni nella parlata di Girgenti (Laute und Lautentwickelung der Mundart von Girgenti)”.
Era il 21 marzo del 1891. La tesi fu stampata lo stesso anno, in novembre, ad Halle a.S. (Druck der buchdrucherei des Waisenhauses). [7]
[7] “Presi nel marzo del 1891 la laurea di dottore di filologia romanza con grande soddisfazione dell’indimenticabile mio maestro romano Ernesto Monaci ed il seguente anno scolastico restai ancoraa Bonn in qualità di Lector di lingua italiana nell’Università”. (Cit. in Atti del Convegno Internazionale di Studi Pirandelliani, Ed. Vallecchi 1981)
Ebbe occasione di conoscere e approfondire maggiormente la cultura tedesca, attraverso le letture di opere di Heine, Ghoethe, Hegel, ecc., e da queste si formò la nuova coscienza dell’autore il quale trovò un terreno fertile e preparato.
Dalla somma concreta di tali presupposti si deduce che:
“Pirandello registra e accompagna tutto il travagliato e necessario cammino dell’alienazione dell’uomo sul terreno della storia, ambientando il dramma nelle situazioni concrete della sua presa di coscienza, disintegrando, progressivamente le maschere e gli istituti storici che sono la sua condanna e la rivelazione medesima della sua disperazione esistenziale. La terrestre carnosità delle strutture letterarie, la convenzione apparente degli ambienti, la provvisorietà, e persino la neutralità discorsiva del suo linguaggio, segnano inconfondibilmente non un’assenza di coscienza stilistica e innovativa, ma la coscienza dei termini concreti e necessari in cui quella innovazione deve attuarsi”. [8]
[8] Leone de Castris, Storia di Pirandello, Ed. Laterza 1975, pag. 14
Una acquisita maturità che il giovane costruisce gradatamente, a volte soppesando ogni avvenimento, ogni incontro, ed è parsimonioso e parco non solo nel dare giudizi, ma nell’acquisizione delle amicizie. Si dichiara solo, in compagnia della sua solitudine che chiama mia mesta sposa.
Trascorre gran parte del tempo a studiare e, seppur costretto ad allentare, per via di una fastidiosa malattia allo stomaco, il giovane trascorre molte ore, piacevoli, chino sui libri di autori importanti. Nel contempo non disdegna la compagnia di allegre fanciulle universitarie, con le quali impegna piacevolmente del tempo in gite e passeggiate. Un periodo intenso, molto intenso, del quale però non è del tutto soddisfatto. C’è sempre un velo di mestizia che gli impedisce di sentirsi appagato, contento, finalmente padrone di se stesso. [9]
[9] “Onestà; lucida coscienza; capacità di trasferirsi in altrui, capacità di vedere le cose, oltre che dal punto di vista proprio, da quello degli altri. Ma appunto da tal potere di comprensione e da questa ubbidienza, insieme, alla legge della sua natura, gli si allarga la solitudine intorno. E dalla tristezza di una solitudine senza sollievi, guarda poi alle cose della natura con un movimento quasi inverso al precedente: invece che tentare di abbonarvisi per viverne la vita istintiva, le investe dei suoi sentimenti e pensieri, le contempla come immagini amiche, Da suo isolamento si affratella con la tristezza delle cose. E’ il momento in cui sente il paesaggio con una passione mesta, con una tenerezza dolce e desolata, dove la nota dominante è di gentilezza e pena. Tre alberi visti in Maremma, una notte, sullo sfondo della luna tra la nebbia, e il loro stringersi assieme; e la tristezza dell’altro alberello che non può unirsi a loro… O una rondine che muore impigliata in un faggio, pel laccio che un fanciullo le ha legato a una zampa…O un albero che sogna…
Una gran pena per tutte le cose; una gran pena e una mesta affettuosità. C’è in questo passaggio, quasi una gratitudine alla natura che dà, alla terra che è viva e buona; alla terra, anche, che soffre, e con ciò stesso consola il soffrire dell’uomo.”
Nella Zoia, Pirandello, Ed. Morcelliana 1948, pag. 12 e segg.
Neppure l’amore d’una giovane (Jenny SchulzLander) potrà guarire il giovane dall’innata malinconia e insoddisfazione che lo rendono come schiavo e sempre incline ad una affannosa ricerca.
Questo è un periodo particolare, preso com’è dal sentimento verso la giovane e l’interesse allo studio che lo impegna a fondo.
Si trovava, come sempre, tra due forze che ne condizionavano la sua indipendenza, la sua azione di essere libero, attanagliato da pensieri e da problemi non solo spirituali, ma anche fisici. Il malessere dello stomaco ancora lo tormentava e fu costretto e trascorrere un periodo di riposo in Sicilia. Ma fece ritorno a Bonn, al suo lavoro, accanto alla sua amica Jenny che, seppur innamorata del giovane, non poté dire di essere contraccambiata in pari misura e intensità così come lei,
A proposito di questo amore è bene spendere qualche parola perché è giusto scavare nell’animo del Maestro, e seppur non si dispone (di questo particolare periodo) di documenti attendibili, attraverso le composizioni Le Elegie renane e Pasqua di Gea, si ha una visione del sentimento del giovane Luigi che partecipa all’unione sentimentale con la giovane in modo diverso, inconsueto tale da non considerare mai “sua” la ragazza e ciò per via di ancora ataviche tradizioni presenti nel suo intimo.
Certamente il ricordo delle sue “caste” sorelle e della sua gente, sempre legate a tradizioni inflessibili e inamovibili, gli faceva apparire Jenny come una sorta di angelo-demonio, e seppur attratto dalla sua bellezza, certamente la rifuggiva quando ne analizzava la sua struttura morale.
Jenny era una ragazza “moderna” che aveva già superato i primi tabù d’una realtà non più legata a tradizioni morali rigide, alle quali Pirandello non sapeva assuefarsi. Così si ritrovò a contrastare un sentimento che seppur nutriva e sentiva, certo non realizzava.
Ancora una remora che ne accentua il carattere, che ne focalizza la sua personalità anche perché lo stesso non era proclive ad offrire tanto facilmente i suoi sentimenti profondamente interiori che gelosamente, par di capire, custodiva.
Quasi rifuggiva l’amore; un amore passivo, quello che il giovane riscontrava nelle sue donne. Forse perché sentiva il distacco intellettuale e quindi non era attratto da quello sentimentale.
La tensione letteraria (l’insieme di problemi e pensieri che lo attanagliavano) palesemente gli presentava il problema “amore” in una visione diversa ed era questo, forse, il motivo per cui non si legava sentimentalmente soffrendone e facendo soffrire.
Oseremo dire che viveva in una dimensione spirituale del tutto arida o quanto meno sentimentale a proprio modo.
Che fosse dedito allo studio è facile riscontrarlo, attraverso testimonianze dirette, messe in evidenza da critici, ma che fosse assente o comunque non impegnato sentimentalmente è pure facilmente riscontrabile attraverso le lettere inviate ai suoi familiari (in particolare alla sorella Lina), nonché attraverso gli scritti che lo stesso ha lasciato all’attenzione dei critici che sono concordi nell’affermare come l’animo del Maestro, attanagliato da problemi intensi di letteratura, lasciasse poco spazio ad altre dissertazioni.
Ma noi aggiungiamo che alla base di questo “diniego”, ad amare sentimentalmente, c’è la condizione spirituale radicata e mai estirpata che aveva agganci in tradizioni ataviche e nella sua stessa indole di autentico siciliano, non scevro da certe considerazioni, che ricusavano apertamente un progresso galoppante atto a svalutare e snaturare usi e costumi a lui tanto cari e radicati.
Perché non dire pure che il giovane era schiavo della sua stessa timidezza, insicurezza, incostanza. Seppur i suoi lavori dimostrano un intelletto forte e volitivo, il suo animo invece denunzia i segni evidenti ed inconfutabili d’una timidezza che gelosamente tiene nascosta e custodita; per controbilanciarla si butta nella letteratura, nel lavoro, quasi per paura di scoprire la vera indole. Un senso di smarrimento lo pervade ogni qual volta si deve misurare con il suo animo, con i suoi sentimenti.
E’ consapevole di partire perdente; forse contro reagendo, si aggrappa all’intelletto per distrarsi ed apparire diverso, così egli non è, ma vuole che altri lo credano.
Il caro motivo che svilupperà quando farà parlare Laudisi:
“Il guaio è che, come ti vedo io, che diventi tu? Dico per me che, qua di fronte a te, mi vedo e mi tocco tu per come ti vedono gli altri – che diventi? Un fantasma, caro, un fantasma!”.
In fondo è il tema predominante di tutta la sua opera. Egli stesso appare diverso.
C’è una frattura evidente tra Pirandello intellettuale e Pirandello sentimentale. Una diversità che scinde le due entità, quasi irriconoscibili. Ha paura, certamente, di cimentarsi, di amare, di scoprirsi? La sua vita sentimentale ora è arida, a volte costellata da eventi gravi che ne hanno acuito questa insicurezza e seppur ha dedicato affetto ai figli e alla sua famiglia, non si può parlare di vero amore, così come “borghesemente” lo si intende.
Questo non è scagliarsi contro il Maestro, ma scoprirne i segreti perché da questi si afferra il vero senso della sua opera importantissima tanto legata al suo sentirsi e considerarsi Uomo.
Forse senza queste lacune, questi travagli interiori, sconosciuti, lo stesso non avrebbe osservato la società con quell’acutezza e lungimiranza assai note.
La mancanza d’un sentimento sicuro, certo, probante, ha alimentato inverosimilmente il suo animo intellettuale, ha contribuito a catalizzare il suo “io” razionale che poi si è trasferito nelle sue opere.
Da questa insicurezza, mancanza d’affetto nei confronti di persone che lo amavano, nasce l’uomo Pirandello che sgombra l’animo da sentimenti a lui confacenti e si dedica anima e corpo alla letteratura perché la sua coscienza ed il suo intimo si riempiano di nozioni e cognizioni letterarie che lo soddisfino, lo facciano sentire più sicuro e più padrone, così reagisce positivamente.
Qui sta il merito, anche se qualcuno potrà obiettare che nonostante l’aridità interiore del Maestro, è stato capace di costruirsi una famiglia e nella quale e per la quale ha vissuto. Allora non arido del tutto.
Per tornare al periodo che stavamo esaminando, quindi, appare chiaramente (un Pirandello ancora giovane) questa sua insicurezza che, a volte, sfocia nell’ironia per la quale in tanti si sono espressi tentando di capire a fondo questo aspetto così particolare e singolare presente non solo nella produzione letteraria, ma diventando un tutt’uno con la vita stessa dell’autore.
Basta leggere qualche frase dall’opera Pasqua di Gea per toccare con mano ed a fondo come questa insicurezza sfoci in una sorta di derisione pungente ed accusatrice, anche nei confronti di chi ha avuto il torto, forse, di amarlo solo con il sentimento.
Ci duol del tuo tardare,
suprema ora di gioja;
ma bene è che si muoja
quando tu giungi al fine:
colta la fresca rosa,
non restan che le spine;
e sempre son gli sdegni
seguaci ai godimenti. [10]
[10]Cit. in Gaspare Giudice, Op. Cit., pag. 129
Ancor più ironico e pungente, Pirandello appare nella poesia Ritorno (oseremo giusto ed ingrato) dove narra del suo congedo da Jenny per fare ritorno in Sicilia. Definitivamente, per sempre.
Io, sa lei? sono dell’isola
dei briganti: serpi e sole,
sole e serpi assai. Se in lagrime
le ho lasciata una figliuola,
mi perdoni. È vero, povera
Jenny, sola sola sola
l’ho lasciata col filosofo
Mob, il vecchio mio buon cane,
che – son certo – fedelissimo
le sarà, se n’avrà pane. [11] Ibidem pag. 129
Questa è una conclamata insicurezza, coscienza di essere perdente; allora si reagisce, magari offendendo e sputando fuoco perché non si scopra la vera miseria del propri animo e della personale condizione, che contrasterebbe con quella degli altri che, ufficialmente, conoscono.
E’ un dato inconfutabile della complessa personalità del Maestro che mette a nudo certe peculiarietà nell’accettare situazioni che a lui non si confanno e dalle quali rifugge reagendo in un modo che possiamo definire “strano”.
Se non fosse che tutti conosciamo certi suoi valori indiscutibili, potremmo anche pensare che il Maestro rifuggiva l’amore per viltà; ma non è vero. Amava a suo modo, diremo anche cerebrale e soprattutto perché vivendo in una dimensione intellettuale diversa, osservava gli avvenimenti quasi sempre con occhio critico e questo lo bloccava; restava quasi prigioniero del suo stesso intelletto.
A questo si aggiunge, come detto, una fede nelle tradizioni inculcate nel suo animo ed il quadro è abbastanza chiaro.
La somma di esperienze acquisite in Sicilia, poi a Roma, poi a Bonn, poi di nuovo a Roma, hanno costituito l’asse portante di tutta la sua personalità umana ed intellettuale cui fanno riscontro le sue opere a volte impregnate all’inverosimile della sua ossessionante visione pessimistica del mondo e più in particolare della società che voleva diversa nella quale egli medesimo trovava giusto identificarsi.
Ed è talmente convinto di questo che lo trasferisce senza alcuna perplessità all’interno delle sue opere così i tanti personaggi saranno quotidianamente costretti a ragionare come loro autore che li ha come “schiavizzati” a un tale intendimento che non ammette deroghe e peggio che mai pentimenti.
Infatti difficilmente Pirandello si è pentito di quanto detto o scritto. Fiero del suo intelletto, della sua sagacia, del suo sentirsi autore nel vero senso della parola. Che piaccia o meno, ma questo era Luigi Pirandello.
Dice molto acutamente Maria Alaimo:
“Bisogna risalire al Pirandello ventenne, tra Roma e Bonn, che già si rivela spirito contemplativo e fantastico, di acuta sensibilità e di sentimento. Porta in sé e serberà intatta fino alla morte, la tradizione etica familiare e paesana, che, nella prassi, è fondamento cristiano: onesta, lealtà, fedeltà, austerità di costumi, rispetto delle leggi della convivenza umana, naturali e morali. Ma al suo spirito si affacciano, a suggestionarlo, le grandi ideologie filosofiche e pseudofilosofiche del tardo romanticismo post hegeliano; sfociano negli ‘ismi’ derivanti. Pragmatismo, relativismo, idealismo solpsistico, fino al fanatismo sfrenato. In tali posizioni Pirandello rimarrà sempre. La sua temperie spirituale ed estetica è speleologica, non evoluzionistica. Si addentra; non procedere verso trasformazioni, capovolgimenti, rinascite. Dapprima tenta d’includere il problema dell’individuo nel dramma universale umano; ben presto, però, si chiude in quel suo caratteristico soggettivismo, scompositore e corrodente”. [12]
[12] Maria Alaimo, La Casa dell’Uomo, Cit, in Pirandello, Lions Club Agrigento, Op. Cit., pag. 73
Ritroviamo il Maestro con la laurea conseguita (nel 1891) mentre la sua tesi, come già accennato, vide quasi subito la pubblicazione. Così si evince dal volume manoscritto dell’archivio del’Università di Bonn:
“Album artium liberalium magistrorum et philophiae doctorum ab illustri philosophorum ordine in Univesitate Borussica-Rhenana rite ac legittime creatorm”. (La pagina 152, numero 972, contiene queste parole): “21 Martius 1891 Ludovicus Pirandello, Siculus, rite superavit. Dissertat, Laute un Lautentwicklun von Mundart von Girgenti. Observatione probabilis. Promotor Nissen”. [13]
[13] Cit., in Pirandello a cura del Lions Club, Op. Cit., pag. 39
Il 21 marzo 1891, a Bonn, nel presentare la sua tesi di laurea, così Luigi Pirandello descrisse, secondo l’uso dei laurendi, il primo e già fecondo tratto della propria Vita:
Natus sum Aloysius Pirandello Agrigenti anno Huius saeculi sexagesimo septimo e patre Stephano Icto, matre Catherina. Fidem profiteor catholicam. Litterarum primordiis imbutus, Panormitanum gynnasium per octo annos frequentavi. Maturitatis testimonio praeditus, Panormitanam litterarum universitatem petii anno h.s. octogesimo sexto, ut philologis studiis operam nauarem, ubi scholis interfui Cortesi, Fraccaroli, Pennesi, Mestica, Pais Anno transacto me contuli Romam, ubi audivi prodocentes Nannarelli, Monaci, Occioni, Guidi, Beloch. Dalla Vedova, Labriola, Piccolomini, Cugnoni, Lignana, Bonghi, De Rugiero. Duobus annis post me contuli Bonnam, ubi per ter sex menses me docuerunt Buecheler et Foester. Insigni Foersteri comitate factum est, ut in seminarium eius philosogicum reciperer, cuius per due semestria fui sodalis ordinarius”. [14] Ibidem pag. 39
Ed a proposito di questa fatica pre-laurea, riportiamo le indicazioni del prof. Nencioni che ha scritto la Prefazione alla tesi di Pirandello per le edizioni Marlin di Pisa, nel 1973.
“Al confronto con le opere precedenti (si riferisce ad altri lavori che parlavano di fenomeno di fonetismo sul quale si erano espressi insigni cattedratici di Bonn N.d.A.), la monografia pirandelliana risulta senz’altro migliore perché Pirandello era stato in grado di integrare e rettificare i dati di Meyer-Lubke e dello stesso Schneegans, che egli stesso considerava il proprio immediato predecessore; e appunto in quelle aggiunte e rettificazioni lo Schneegans vide il pregio del saggio pirandelliano, non nella descrizione dei caratteri principali del dialetto di Girgenti, definiti secondo lui già da tempo e quindi inutilmente ripetuti… Ma l’Einzelmun-ersuchung che Pirandello si proponeva, per quanto modesta e ristretta al settore fonetico, non poteva mortificarsi nella forma di un ‘addenda et corrigenda’ delle opere precedenti; troppo presente e attivo era in lui il senso della unità individua, oggi diremo struttura del suo parlare materno, per rinunciare a presentarla intera a sé medesimo e agli altri”. [15]
[15] Cit. in La parlata di Girgenti, a cura del Centro Internazionale Studi Pirandelliani, Op. Cit., pag. 6
Con il conseguimento della laurea, si può dire che termina definitivamente o quasi il soggiorno a Bonn.
Già un primo consuntivo il Maestro poteva tirarlo, sulla scorta di quello insieme di esperienze vissute prima in Sicilia, poi a Roma, ora a Bonn, che gli consentivano di possedere un preciso senso della vita e già i suoi poemi mettevano in risalto anche se ancora un po’ velatamente il pragmatismo della sua dialettica, della sua personalità. Si hanno probanti documenti che testimoniano come il soggiorno in Germania non lo abbia per niente soddisfatto; lo ricorderà sempre con distacco ogni qual volta è costretto a parlare di quel periodo, lo farà con tono aspro e duro.
Forse il ricordo di quell’amore? Forse il ricordo di quell’amore che lo aveva esaltato dal punto di vista, ma che nello stesso tempo lo aveva trascinato verso una realtà dalla quale era fuggito sdegnoso?
Forse il ricordo di quel soggiorno durante il quale si era immerso in letture e studi profondi tanto da procurargli quel molesto malessere?
Comunque non certamente un buon ricordo; ma proprio per quel soggiorno il Maestro maturava e prendeva più coscienza dei vari problemi e delle realtà in cui operava e si muoveva. Sembra interessante per sintetizzare questa evoluzione di maturità, ancora servirci di un illuminante pensiero di Gaspare Giudice della cui opera ci siamo serviti ampiamente: “Ma sarà soprattutto l’esperienza del ‘nord’, ridotta presto a una idealizzata generazione, a contrapporsi alla veridica immagine di un ‘sud’ siciliano barbarico e incolto. Sussisterà (si ricorderà ancora la novella Lontano) il senso di un antimonio tra nord metaforicamente onesto e pulito e un sud sporco e impuro, tra quei civili paesi e questa società corrotta e senza riscatto”. [16]
[16] Gaspare Giudice, Op. Cit., pag. 138
Comunque, al di là di contrastanti ricordi, il Maestro conserverà una tacita ammirazione per quella gente, per quella cultura che lui aveva in parte immagazzinato e che, in momenti particolari, userà ad uso e consumo ma sempre con parsimonia. Diciamo che si chiude, con la laurea, il primo capitolo della sua vita, durante il quale inconsciamente ha buttato salde fondamenta, sulle quali man mano andrà costruendo la sua opera.
Certamente si sente stanco, ancora non del tutto guarito e partendo da Bonn, trascorre un periodo di riposo al Caos.
In questo frangente, per motivi sopravvenuti, anche il fidanzamento con la sua conterranea va a monte e finalmente si sente libero. Nessuna catena sentimentale più è di coercizione e può trascorrere veramente un periodo di riposo materiale; non spirituale perché già si prepara ad iniziare il periodo della creatività. Per fare ciò sceglie Roma come sua definitiva residenza, credendola più adatta alle sue aspirazioni. Si trova con le valigie in mano per risalire ancora e allontanarsi dalla sua Sicilia, dal suo Caos. Questa volta è Roma la meta definitiva.
La città, a suo modo di vedere, dove un certo tipo di letteratura fioriva e dove altri letterati abitavano quasi in una sorta di società particolare. Forse avrebbe rispolverato vecchie amicizie, senz’altro incontri nuovi ed importanti. Pensava, certamente, alla sua carriera di scrittore che in quella città avrebbe trovato un più facile inserimento. Anche se in un ambiente tipicamente borghese, egli lo accettava per egoismo letterario.
La Sicilia aveva poco da offrirgli da quel punto di vista. L’isola gli aveva dato solo i natali; della vita isolana aveva una visione assai personale che avrebbe comparato con quella della capitale. La grande decisione, tra l’altro suffragata dalla inaspettata (ma desiderata) libertà che aveva conquistato.
Libero da impegni ormai in Germania, ora libero, anche in Sicilia. L’impulso lo spingeva a stabilirsi nella capitale, come fece. La scelta, in verità, fu quanto mai fruttuosa per gli incontri che Pirandello ebbe durante il soggiorno romano.
Ma, tra tanti, la più profittevole fu l’amicizia con Ugo Fleres che, in definitiva, gli aprì le porte all’editoria italiana e lo spinse a scrivere. In verità la carriera di Pirandello inizia come traduttore di classici prevalentemente tedeschi (aveva già tradotto le Elegie Romane di Goethe), anche se, in questo mentre compose qualche poemetto drammatico come ad esempio Scamandro (atto unico in versi, sullo stile greco).
Non si può parlare ancora di vera produzione letteraria anche se la si può intravedere mostrando impegno grazie all’amicizia con Capuana, che lo incoraggia. Nascono i primi racconti lunghi, L’esclusa, Il turno. [17]
[17] La contraddizione, nel romanzo L’esclusa, è tra il mondo sociale, ferocemente descritto da Pirandello da un punto di vista rigorosamente esterno (lo zoomorfismo dei ritratti maschili e pressocché costante), nell’ottica verista dell’ambiente (la famiglia, il paese, la città, la scuola); e l’interiorità incerta, ombrosa della protagonista, costretta ad assumere la lingua del soliloquio per comunicare col lettore… Nel romanzo Il turno domina il dialogo, un dialogo potenzialmente teatrale che investe il lettore…
Cit. in Franca Angelini, Op. cit., pag. 14-16
La schiera di amici si allargava: ora poteva contare su letterati come Vianini, Giusti, Ojetti, Palmarini, Saya, Romagnoli, Orano ed altri che abitualmente la sera si riunivano e leggevano le composizioni ora dell’uno ora dell’altro. In questa atmosfera prettamente letteraria, Pirandello compose le sue prime novelle, alcune delle quali vennero pubblicate sul giornale Ariel, che però non ebbe vita lunga.
Inizia il lungo e tormentato capitolo della sua produzione che dapprima appare quasi sfocata, timida, voluta più dagli altri che dallo stesso. Certo egli era nato scrittore, ma per il suo temperamento, se non avesse incontrato quegli amici, forse non avrebbe mai scritto e forse… chissà!
L’imponderabile è sempre in agguato ed è difficile analizzarlo e catalogarlo. E’ bene ricordare che in quel periodo l’Italia inizia a conoscere i romanzi di Deledda e D’Annunzio, mentre si diffondono nuove testate di giornali letterari diretti da questo o quell’altro autore.
Un fermento letterario, insomma, come l’Italia non aveva mai visto. Inutile dire, anche se è importante farne riferimento, che questo periodo concorre alla completa e maggiore maturità letteraria del Maestro il quale, finalmente, si forma una autonoma coscienza psico-letteraria dalla quale cominciano a scaturire i primi zampilli di arte. Le sue novelle, i suoi articoli, le sue recensioni, vengono lette, discusse, criticate, dibattute.
Alla bellezza del periodo, stile pulito, si nota il taglio preciso (a volte un po’ arido) che lascia trasparire una grande anima ed una completa personalità. E’ un periodo fecondo, anche se ancora lontano dai capolavori.
Ma già nella mente del Maestro si animano e quindi si materializzano parecchi personaggi che aspettano il turno per trovare vita nelle sue pagine.
Perché noi possiamo inquadrare meglio questa fase evolutiva-letteraria di Pirandello, per addentrarci meglio nei meandri della sua anima, sembra opportuno ricordare e riportare un passo significativo dell’analisi condotta dal prof. Leone de Castris, che pone l’accento sulle prime esperienze letterarie, le quali come abbiamo detto preludono all’ingigantire (come qualità e quantità) dell’opera del Maestro.
Tra l’altro è assai importante, perché appunto da questo periodo, poi, bisogna partire per la conseguente costruzione dell’uomo Pirandello, il quale come in seguito si vedrà si troverà ad affrontare un problema che per un verso cambierà il corso della sua vita.
“Bastano queste lucide prese di posizione (si fa riferimento a quanto scritto da Pirandello nel saggio Arte e coscienza di oggi, N.d.A.) a mostrare come non è in ambito di mediazioni culturali in senso stretto e tanto meno letterario, che nasce la crisi intellettuale di Pirandello: essa è piuttosto la proiezione immediata di una immagine sconvolta del mondo che in questi anni comincia a delinearsi nella solitudine della sua coscienza. Alla verifica intellettuale di questa immagine avrà certo concorso l’incontro, non occasionale, col filone irrazionalistico della cultura romantica tedesca negli anni di Bonn; ma il suo vero ambito di formazione è pur sempre la società e la storia del giovane Pirandello. […] Sono gli anni della fatica senza riconoscimenti, ma soprattutto sono gli anni della completa disillusione etico-politica; quelli in cui il disagio d’un ambiente apparsogli meschino e inerte e la visione già intuita del corrompersi d’una classe politica (nell’ambito della quale si svolgono i quotidiani rapporti dello scrittore) si approfondiscono definitivamente”. [18]
[18] Leone de Castris, Op. Cit., pag. 52-53
Inevitabilmente ci accorgiamo che la somma di esperienze dirette, di letture e studi, precedentemente assimilate, ora trovano applicazione e sfogo in quella mente che dopo la riflessione, la meditazione, la constatazione, concretizza il suo pensiero attraverso gli scritti. In questo periodo, in questa atmosfera, in questa maturità letteraria, nasce quello che poi sarà definito Pirandellismo, ovvero il modo di ragionare, di vedere le cose, secondo l’autore siciliano.
Una società priva di senso gli appariva come uno spettro e gli uomini che vivevano con essa, tanti manichini disarticolati. Appare abbastanza chiaro che il discorso fatto dallo scrivano (agli occhi di molti “poco colto”, così da poter essere “turlupinato”), a mente della signora Fiorica, rivela invece tutta la sagacia propria dell’uomo che vive di esperienza facendola propria ed assumendola come dote incomparabile di cultura che soppianta i tanti “pezzi di carta” così agognati, così vilmente “acquistati” che danno sì un titolo, ma certamente il titolo di somaro, aggiunto a quello di cavaliere o commendatore.
E da quelle parti di tanti somari, (pardon!), titolati, è copiosa la “messe”.
Rimane sublime il discorso di Ciampa quando dinanzi alla meraviglia e alla costernazione dei presenti, lo scrivano sfodera uno dei suoi celebri monologhi.
“… Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignore! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentare fuori. A quattr’occhi, non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma degli altri, no; degli altri lo vuole rispettato”. [19]
[19] Luigi Pirandello, Il berretto a sonagli, Atto I, Scena IV
Però egli stesso ne avvertiva il disagio; certamente non provava gusto nello scrivere, ma non poteva esimersi. Ecco perché la sua prosa piaceva poco, anche se interessava. Tra l’altro in quel periodo erano molti i critici che non condividevano le opere di Pirandello creando, attraverso i loro scritti, un muro che divideva irrimediabilmente l’autore e la massa che, per un vero, dava ascolto a quelle indicazioni critiche le quali spesso portavano la firma di notissimi autori e quindi padroni di un certo credito.
Scrive Nella Zoia: “Il ragionamento, in Pirandello, nasce sempre da una passione e da un sentimento; passione e sentimento che, quanto più son dolorosi tanto più urgono, e quanto sono più fondi e connaturati a tutto l’essere, tanto più eccitano la ragione a reagire al loro tormento. Circolo chiuso”. [20]
[20] Nella Zoia, Op. Cit., pag. 21
Un’ultima annotazione, per poi riprendere il discorso interrotto, per quanto riguarda la visione negativa della vita, la negazione di certi valori sociali (con “sociali” vogliamo comprendere tutti i valori ad essa inerenti) che sono stati al centro della dialettica pirandelliana. A tal proposito ci serviamo, ancora, di un altro pensiero di Nella Zoia: “Il suo relativismo nasce da quella che fu anche detta negazione dei valori fondamentali della vita. Ma alla negazione, se mai, giunse dopo averli cercati, i valori fondamentali, anzi, il valore assoluto che desse, alle due vite, un senso”. [21] Ibidem pag. 11
Intanto mentre Pirandello, a Roma, viveva una realtà tutta letteraria, nella lontana Girgenti i suoi facevano i conti con un’altra tutta diametralmente opposta. Infatti il padre, che non dimenticava il suo Luigi (gli aveva fatto andare a monte un matrimonio; in verità anche il genitore in un secondo tempo aveva dato una mano a sciogliere quell’impegno, ma solo per motivi d’interesse) vedeva di buon occhio che la figlia di Calogero Portulano Antonietta si impalmasse con il figlio Luigi il quale dovette recarsi, per questo motivo, a Girgenti. [22]
[22] Calogero Portulano, audace, era stato con Garibaldi nel Trentino a sedici anni. S’era trovato nei moti di Romagna con Giovanni Pascoli. Rientrato nell’isola si era buttato nel commercio. Quando incontrò Stefano Pirandello era ancora povero e propose al Pirandello il meccanismo d’una vera e propria campagna al rialzo. Il risultato, dopo qualche esitazione di Stefano, fu splendido. Dopo aver consegnato una busta nella quale era scritta “dote di mia figlia Antonietta” al Pirandello, il Portulano andò a Messina a montare macchine da far quattrini. Ritornò ancora più ricco. La figlia di costui, Antonietta, era figlia unica, ricca, educata ottimamente dalle suore di San Vincenzo. Donna Caterina, essendo cugina di sua madre, veniva a esserle quasi zia.
I due “imprenditori” decisero di far sposare i propri figli con la complicità di Donna Caterina.
Si dice che Portulano fosse estremamente geloso tanto che lasciò morire la moglie di parto, evitando che un qualsiasi medico la potesse soccorrere. Per questo Antonietta non ebbe modo di conoscere la madre. Per tutta la vita il di lei padre si potrò nel cuore quella tragedia che così duramente lo aveva colpito. Continuò ad accumulare, lavorando come un matto, ricchezze tanto da essere considerato forse il più ricco di quelle contrade.
Cosa che non dispiaceva certamente a Stefano Pirandello, anche lui con il pallino degli affari e poter mettere le mani sulla dote dei Portulano lo allettava per cui poco si ebbe a curare dei veri sentimenti che dovevano unire i due giovani che, non era possibile rifiutare, accettarono quel matrimonio già deciso dai rispettivi genitori. Muore nel 1906.
Inutile dire che i due soci, Calogero Portulano e Stefano Pirandello, si erano già messi d’accordo su tutto. (Come si usava a quel tempo!). Ai due giovani non restava che conoscersi, guardarsi da lontano, scambiarsi poche parole, ed attendere la data delle nozze, già in precedenza fissata dagli infaticabili genitori, che avevano il senso spiccato degli affari.
Come doveva pesare tutto questo al giovane Luigi già “vittima” di quel furore catartico che iniziava ad invaderlo e a renderlo meno accondiscendente, seppur “obbediente” alla volontà paterna che non bisognava mettere in discussione. A Pirandello nulla sfuggirà di quei riti, ormai cerimoniosi e assurdi, ma attuali (a quell’epoca!) giacché poi li ritroveremo nel suo romanzo I vecchi e i giovani. Fu un fidanzamento che sulle prime sembrò sfumare e questa volta per l’atavica gelosia del Portulano, nei confronti del genero. Ma Antonietta, inverosimilmente, mostrò decisione e non volle tornare indietro sulle decisioni prese. Luigi le era piaciuto e intese sposarlo. Che dire? Il giovane Luigi, preso come una automa, anche se consapevole, si lasciò guidare e senza volerlo (diciamo che lo volle senza tanti isterismi o vari entusiasmi) si trovò a Girgenti pronto per le nozze. Il Pirandello che fin qui abbiamo analizzato (letterato, riflessivo, refrattario a qualsiasi vincolo sentimentale, alla scoperta e alla decifrazione dell’astruso mistero della vita) era veramente pronto (intellettualmente, psicologicamente, sentimentalmente) a fare questo passo? Quale volontà (la sua o quella del padre Stefano) aveva in quel momento ragione di prevalere? Quasi irretito, vittima non reagente della volontà altrui, il giovane si apprestò ad impalmare Antonietta, per la quale, in verità, nutriva della simpatia perché oltre ad essere una bella ragazza, rispecchiava il carattere della donna siciliana alla quale il Maestro era attaccato e legato. [23]
[23] Luigi Capuana si felicitò con l’amico Luigi Pirandello, al quale fece pervenire questa lettera: “Godo infinitamente di saperla felice… Voglio rallegrarmi allo spettacolo della sua felicità i miei omaggi alla gentile Maga o Fata che ha prodotto il miracolo di trarla fuori dal ‘Labirinto’, com’ella ha detto”.
Però c’era una qualche cosa, che magari a prima vista sfuggiva, che non quadrava: offuscava, diremo, la mente di Pirandello. Cos’era? La decisione certo non scaturiva da un suo preponderante desiderio; la subiva, e forse questo, in seguito, potrà essere una delle cause perché il matrimonio con Antonietta subirà dei traumi assai noti o comunque celati per rispettare ricordi e fatti personalissimi che il lettore, deve, comunque, conoscere per comprendere meglio l’Uomo Pirandello.
Pietro Seddio
Pirandello. L’uomo del Caos
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