L’uomo del Caos – Capitolo 1: La fine di un incubo

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Di Pietro Seddio

Alla sua morte si tirò un sospiro di sollievo, come se ci si fosse tolto un gran peso. Ormai non poteva nuocere più. I suoi drammi? Be’, sarebbero stati messi a congelare, quasi dimenticati e tutto il chiasso creato attorno a lui sarebbe scemato. Con Pirandello scompariva un accusatore della borghesia, colui che aveva osato ribellarsi ad una situazione sociale che rispecchiava per molti lati il feudalesimo di tipo pseudo-liberale, è vero, ma sempre feudalesimo era.

Pirandello. L’uomo del Caos

Per gentile concessione dell’ Autore

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L uomo del Caos. Capitolo 1

“Bisogna che il tempo passi e porti via tutti gli scenari della nostra vita,
il mio me lo sono già arrotolato sotto il braccio”.
Luigi Pirandello

Pirandello. L’uomo del Caos
Capitolo 1
La fine di un incubo

Lavoratore instancabile sorretto da un forte temperamento, Luigi Pirandello continuò a scrivere ed annotare per tutta la vita. Anche quando gli amici più intimi pochi in verità osservarono che s’era fatto d’improvviso taciturno e sembrava, di colpo, invecchiato pur senza smarrire l’arroganza, lui proprio, nel volere certe cose pensarono ad un eccessivo affaticamento: nessuno ne avrebbe potuto prevederne la morte. [1]

[1] Così nel ricordo del nipote Andrea Pirandello: “Era la fine di novembre. Sei giorni dopo Pirandello si sarebbe messo a letto per una influenza che al terzo giorno degenerò in polmonite. Morì la mattina del 10 dicembre. Noi bambini, malati anche noi, udimmo sbigottiti il grande urlo sulle nostre teste e un tuono di passi come di gente che fugge al piano di sopra. Pochi attimi dopo sapemmo che Nonno era spirato in quel momento. I parenti e gli amici presenti, all’annunzio avevano gridato ed erano corsi verso la camera”. (Cit. in Pirandello, in occasione della rappresentazione dell’opera I Giganti della Montagna, con la regia di Giorgio Strehler, nella stagione teatrale 1994/95)

Pochi giorni prima della sua scomparsa, il Maestro fu costretto a letto con la febbre. Stava lavorando alla riduzione cinematografica de Il fu Mattia Pascal, ed aveva abbozzato il terzo atto della commedia I giganti della montagna. Riceveva ugualmente gli amici con cui trascorreva parti delle giornate, l’ultima delle quali fu più agitata del solito: aveva “combattuto” tutta la notte coi “giganti” al fine di trovare una soluzione finale.

Quando vi riuscì, fu troppo tardi: morì la sera del 10 dicembre 1936. Da quel preciso istante, iniziò il dopo-Pirandello. La sua lettera-testamento suscitò scalpore: compendiava una vita di luci ed ombre, contrastati, strenue lotte, vittorie e sconfitte, un’esperienza umana difficilmente ripetibile.

Il Maestro era davvero morto!

Mentre Ojetti, suo vero amico, faceva scivolare la sua mano sulla leggendaria fronte del Maestro, ormai fredda, tanti occhi si sforzavano di leggere la lettera testamentaria, d’analizzarla e soprattutto interpretarla. Anche nel momento di testare, Pirandello non mancò di stupire. Molti definirono scandalose le sue ultime volontà che, secondo alcuni, confermavano il suo essere ateo e “mangiapreti”; ma i più compresero l’importanza d’una scelta coerente alla poetica di un autore che aveva partorito personaggi ricchi sì di contraddizioni, ma mai banali o fini a loro stessi.

Quest’episodio contribuì ad alimentare le fantasie dei giornalisti, che iniziarono a costruire il “mito” di Pirandello, forse con l’accondiscendenza, misuratissima, del Maestro.

Se si scorre attentamente la sua vita, tuttavia, si può comprendere che tali volontà sono coerenti ad una lucida logica, rispondendo in pieno alle sue esigenze spirituali.

Eh si!, anche perché Pirandello aveva un’anima e, come tutti i mortali, era soggetto a riflessioni, pentimenti, emozioni e via discorrendo.

Certo la sua opera, all’epoca tutta da scoprire e valorizzare, (comunque importante perché gli aveva fruttato il Nobel) contribuiva non solo ad accrescere la fama, ma addirittura a rinnegarne l’umanità e la spiritualità che lo caratterizzavano.

La sua dialettica drammaturgica e letteraria era stata troppo chiassosa, perché ci si potesse occupare anche della sua spiritualità. La si era voluta identificare, frettolosamente, con l’insieme della sua opera, per molti aspetti negativa o addirittura nichilista, per poter intravedere uno spiraglio di speranza. Tanto è vero che il prete chiamato a benedire la salma e le due suore che vegliarono il Maestro durante la notte, certamente pregarono con più intensità, sicuri di essere di fronte alla salma di un miscredente. Anche per loro, anzi: soprattutto per loro, Pirandello altro non era che un povero ateo bisognoso del conforto spirituale. Ma dopo morto. Da vivo era stata tutta un’altra storia.

Resta comunque il fatto che anche il Maestro, di fronte alla morte, divenne un uomo qualunque, soggetto alle fatiche preagoniche, al doloroso distacco dalla terra, e se a molti ciò può sembrare irriverente, si dirà subito che il Maestro morì mentre si assopiva, come milioni di uomini.

Ritornando alla scrittura testamentaria, non sbaglieremo nel sottolineare che i primi a rimanere sorpresi furono proprio i suoi amici: quelli che si vantavano di conoscerlo, che ebbero il privilegio di ascoltarlo, stargli vicino, assistere alla sua morte.

Quelle poche righe, sbiadite, avevano avuto il potere di suscitare tanto scalpore come la complessa problematica di tutta la sua opera.

Tra l’altro non bisogna dimenticare che Pirandello era stato insignito del Nobel e, a quel tempo (quasi più di mezzo secolo), l’avvenimento era seguito con particolare interesse. Oggi, magari, nel turbinio degli avvenimenti che scuotono il mondo, passa inosservato o vi presta orecchio il cultore perché poi possa ricordarlo ai posteri.

Comunque, l’essere insignito del Nobel significò per Pirandello non un episodio accademico, ma un riconoscimento ufficiale e contemporaneamente un condizionamento, come chiariremo nei prossimi capitoli. Quelle frasi scarne, quindi, scritte da un Nobel che per anni aveva tenuta desta la cultura internazionale, possiamo dire, (che aveva accresciuto polemiche e critiche a non finire, anche consensi), rappresentava il vero ed unico patrimonio culturale che l’autore affidava ai posteri.

Una sintesi d’una vita letteraria quasi non voluta o comunque non cercata disperatamente, facendo diluire o scomparire del tutto l’essenza (di una vita) di un uomo che era nato in una cittadina dell’entroterra siciliano (Girgenti, ovvero l’antica Akragas), con il mare africano che lambiva le coste.

Un territorio di ignoranza, di miseria, di sopraffazione, di lotte sociali, di pregiudizi che Pirandello aveva, nel tempo, assorbito e non del tutto digerito.

Ecco perché quel foglio, ancora oggi, lascia sgomenti, esterrefatti; proprio perché ci rivela l’umanità di Pirandello come cercheremo di spiegare.

Nel redigere quel testamento il Maestro era consapevole che la sua morte, così come la sua vita, avrebbe suscitato scalpore e cercò fin dalla prima frase di prevenire il fracasso:… sia lasciata passare in silenzio la mia morte… lui che aveva sempre odiato il rumore ma che, per ironia della sorte, vi si era trovato circondato e immerso.

Forse il bisogno preponderante di serenità, dopo una vita spiritualmente tormentata, avventurosa e sempre in movimento, a contatto con tanta e tanta gente.

Ora aveva necessità di pace, di ritrovarsi solo, sotto il secolare pino e lasciato a meditare. Tra l’altro anche i suoi personaggi erano stati “uomini” in cerca di pace, sempre a contatto con realtà che li avvilivano, li avviluppavano ed inutilmente per anni avevano cercato di divincolarsi.

La tragedia dei Sei Personaggi che, in sintesi, chiedevano soprattutto nel narrare la loro triste vicenda, di ritrovare la pace perduta; ritrovare loro stessi, intimamente. [2]

[2] La tragedia del personaggio senza autore è di per sé un mito che si consuma veramente così co me vuole l’ideologia pirandelliana, giacché ‘la vita non conclude e se non conclude è segno che non de ve concludere è che vano è dunque cercare una conclusione’”.

Enzo Lauretta, I Giganti della montagna nella mitologia del mito, Cit. in L. Pirandello, Piccolo Teatro di Milano, Op. Cit.)

Ma per fare questo (e quindi non essere più Personaggi) dovevano vivere fino in fondo il loro dramma in una trasfigurazione essenziale che lo stesso autore, nella Prefazione della “commedia”, cerca di spiegare.

“E che cos’è il proprio dramma per un personaggio?

Ogni fantasma, ogni creatura d’arte, per essere, deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragione d’essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere”. [3]

[3] Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Ed. Mondadori Mi, 1971, pag. 18

Questo cozzarsi di passioni, di sentimenti, di ansie, il Maestro prima di trasmetterli ai suoi personaggi li aveva vissuti lui medesimo ed ora era giusto che anelasse alla pace, alla tranquillità.

Seppur lo spirito indomito non era invecchiato, il corpo risentiva di certo di tutti i travagli fisici e morali sostenuti nel corso della sua vita. Quindi una morte serena, seguita dal silenzio; quasi passare inosservato. Strano a dirsi, come vedremo, neppure da morto troverà l’agognata pace. Non c’è niente da fare: un uomo è segnato dal destino anche dopo morto.

… Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiere, non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzii né partecipazioni…

I giornali nazionali ed esteri riportarono in prima pagina e con lunghi articoli la morte di Pirandello e tutti si affrettarono a tessere elogi funebri. Tonnellate di inchiostro furono versati in quei giorni, perché il mondo tutto sapesse.

Se Pirandello aveva fatto parlare di se, come pretendeva che la sua morte passasse inosservata? In coscienza sapeva che non sarebbe stato possibile, per un Nobel; ma ha voluto egualmente che si conoscesse la sua precisa volontà.

Emerge chiaramente il contrasto tra l’uomo Pirandello ed il letterato Pirandello. L’uomo consapevole dei propri limiti, l’uomo che dimentica le peripezie vissute e, nello stesso tempo, l’artista che deve continuare a fare notizie, ad interessare i cronisti (…ai nemici preghiere…) che sembrano aspettare la sua morte perché da questa aumenteranno la tiratura dei loro giornali. Il contrasto tra uomo ed artista balza evidente, appare chiaro ed irreversibile, se si pensa che, anche oggi, molti di loro restano vittime della popolarità e spesso si rammaricano di essere assai noti e non considerati uomini anonimi.

E’ una condizione insostenibile, dura, e spesso si assiste a fatti pietosi, quali ad esempio l’essere vivisezionato, ridotto a rottame da giornalisti senza scrupoli. Anche Pirandello non era stato immune da questa sorta di schiavitù e, per quanto gli competeva, ora cercava di sottrarsi almeno da morto.

Pietà e sdegno per il suo corpo?

Certamente il Pirandello spirituale avvertiva il disagio del Pirandello umano. Un contrasto sempre ed assai evidente.

… Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga nudo, in un lenzuolo. E niente fiori e nessun cero acceso…

Rinnegava, forse, la pietà (quasi sempre falsa!) di quanti lo avrebbero circondato da morto. Non chiedeva niente a nessuno, quasi evitava altri eventuali fastidi. Un atto di sdegno verso coloro che restavano?

O forse l’accentrare su quel corpo spoglio la compassione di quanti lo avrebbero visto?

Certo è che quelle parole suonavano sinistre e più sinistra risultava la sua figura adagiata sul letto, rischiarata da una timida fonte di luce, almeno per le suore che vegliavano tremanti, in quell’atmosfera d’inferno.

… Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta…

Una sorta di beffa, chiara, a quanti forse prevedevano discorsi celebrativi, onoranze pompose, degne d’un grande personaggio. Ha certamente giocato un brutto tiro a quanti avrebbero volutamente speculato. Non ha voluto neppure gli amici. Forse già prevedeva il vespaio di discorsi dietro il carro funebre; i discorsi (quelli d’occasione!) che lo avrebbero fatto rivoltare nella bara. Ha preferito andarsene da solo, quasi sdegnosamente. Una risposta alle iniquità, alle falsità, a quanti poveri di spirito lo avevano circondato credendo di accattivarsi le sue simpatie. [4]

[4] “Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada bagnata, tutto puntato in avanti per non scivolare. Veniva fatto di scorgere ogni cosa cone il caro maestro l’avrebbe veduta. La bara di abete tinto da poco con una mano di terra bruna, fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero fermi al cancello a vederla partire verso gli alberi brumosi in fondo al viale”.

Corrado Alvaro, Prefazione alle Novelle, Cit. in Album Pirandello, Ed. Einaudi/Mondadori Mi,1992, pag. 314).

Li ha lasciati con un palmo di naso. Chissà quante risate nel vedere quelle facce le quali nel leggere il testamento vedevano svanire i loro mille propositi! Solo i veri, pochissimi, amici, hanno capito ed esaudito almeno in parte l’ultima volontà del Maestro.

Più che un testamento, sembra una poesia.

La bellezza del verso che si realizza attraverso un linguaggio duro e tagliente, fa ancor più risaltare il significato. La parola “nudo”, ne completa il fascino, e sembra entrare in un’atmosfera del tutto cinematografica.

Egli vide il suo funerale, vide la sua spoglia nuda avvolta nel lenzuolo mentre veniva chiusa nella bara per essere poi cremata.

… Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare, sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui…

Vide la carrozza che si perdeva, silenziosa, tra la nebbia del mattino, e vide i volti dei pochi, intimi amici, che con lo sguardo accompagnavano quel feretro che scompariva, laggiù, in fondo alla strada avvolta dalla foschia.

Forse solo lo zoccolare dei cavalli ignari di portare all’ultima dimora un grande personaggio che da quel momento sarebbe rimasto, per tutti, un “mito” e forse una “leggenda”.

Mentre non tanto distante da quel feretro si creava una sorta di paranoica confusione per la sensazionale notizia della sua morte, attorno a lui era silenzio, era commosso rispetto per le sue ultime volontà. Ma quel silenzio, attorno alla sua bara, non era sincero. La festa era certamente rimandata. Era stato imposto da Pirandello che da morto, ancora con fermezza da Capocomico, dirigeva lo svolgersi della rappresentazione.

Quella mestissima cerimonia, altro che non era che una rappresentazione, forse la più vera, quella più tipica all’indole del Maestro. Così come non era riuscito in vita ad avere quello che più desiderava: la pace, la tranquillità dello spirito, li volle avere da morto.

Ci si è voluti soffermare su quest’ultimo atto della vita di Pirandello, proprio per dare un quadro che ne compendiasse tutta la vita, così travagliata e tormentata, come i suoi personaggi, che non solo sono il frutto della sua immaginazione, ma la sua incarnazione.

Pochi autori sono riusciti, come lui, a trasferire la personale complessa personalità nei propri personaggi, ed in questa proiezione che l’autore diventa grande ed immortale.

Al di là di tutti i concetti teorici di filosofie, dialettiche varie e riscoperte dopo la sua morte da illustri studiosi, la vera esistenza pirandelliana emerge nell’attimo in cui si constata che i vari Ciampa, Adriano Meis (Il fu Mattia Pascal), i Sei Personaggi, Enrico IV, ecc., altri non sono che i diversi momenti spirituali del Maestro che si incarna e si identifica, creando un anello indissolubile tra spirito e materia, tra concezione teorica e azione teatrale.

“Nell’ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e m’invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo.

Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che, alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.

Con chi potevo io veramente comunicare, se non con loro, in un momento come quello? E mi accostai a quell’angolo, e mi forzai a discernerle a una a una, quelle ombre nate dalla mia passione, per mettermi a parlare pian piano con esse”[5]

[5] Luigi Pirandello, dalla Novella Colloqui con i Personaggi, Ed. N. Compton 1993, pag. 450

Inutile dire che le sue volontà furono del tutto rispettate, anche se le ceneri non vennero disperse, ma raccolte in un’urna cineraria e sepolte, prima al cimitero del Verano a Roma, e dopo molte peripezie traslate ad Agrigento (Girgenti) e deposto sotto il famoso “pino”, laggiù in zona Caos.

E’ vero che egli aveva suggerito anche questa ipotesi, ma è pur vero che ciò suona (non si vuole mancare di rispetto, ma tentare di analizzare tutti gli aspetti umani) come piccola “civetteria”, creando l’alternativa tra l’essere disperso ed il poter riposare dentro una rozza pietra. Anche qui l’uomo sembra avere il sopravvento.

Il contrasto interiore tra il letterato con una forma mentis particolare e l’uomo bisognoso di piccole cose per realizzarsi cozzano violentemente. Una sorta di pietà che intende trasferirsi a posteriori, perché ne conservino le ceneri. Forse anche un piccolo peccatuccio di vanità, dato che i primi periodi della lettera testamentaria non lasciano possibilità di poter trasgredire alle sue ultime volontà.

Il Maestro era consapevole del peso della sua produzione, del peso della sua personalità e non lasciare nessuna traccia tangibile (oltre le sue opere) di se stesso sembrò spaventarlo, atterrirlo. Ne indicò l’alternativa ed ancora oggi la sua tomba, nuda e singolare, è meta di migliaia di visitatori a testimonianza di questo piccolo desiderio civettuolo.

Ed è giusto: è in sincronia con il personaggio Pirandello, in quanto solo attraverso i piccoli episodi e le sfumature si riesce a comprendere meglio l’umanità (nella duplice composizione di materia e spirito) che non attraverso la sua complessa produzione letteraria assai vasta.

Un Pirandello grande, ma nello stesso tempo, anch’egli schiavo dei peccati, delle ansie, dei tormenti della sua stessa umanità.

Sarebbe assurdo voler considerare il Maestro scevro da questi peccati, da questi limiti in quanto ne verrebbe falsata la figura, l’insieme della sua struttura psico-spirituale, ed è per questo che l’analisi interiore deve essere condotta con rigore, anche se si crede di smitizzarlo o addirittura di offenderlo.

La critica letteraria, fine a se stessa, spesso tralascia questi aspetti, scegliendo il terreno più facile per modo di dire e quindi creando il personaggio: ed è giusto. Ma non si possono biasimare coloro i quali, per opportunismo, hanno paura di narrare episodi che forse potrebbero suonare male e quindi tralasciano volutamente tali possibilità.

Non si avrà mai un quadro completo, sincero, vero. Perché non dire quindi che anche Pirandello era un uomo, essenzialmente un Uomo, il quale aveva vissuto anni terribili, che aveva superato prove assurde durante la sua vita intensa e con la certezza di essere anche la causa, la vittima, il vincitore. Certi episodi, che in seguito analizzeremo, non ne diminuiscono la grandezza, la compendiano ed umilmente, con obiettività ed analisi accurata, è giusto scoprire questa faccia non meno importante di quella già nota. Ecco: la sua morte, il dopo morte, il suo testamento mostrano ancor più i contrasti, certe umane aspirazioni e se da un lato il Maestro vuole un funerale particolare, dall’altro cerca un appiglio ch’è desiderio più forte di quello di vedere sperdute le sue ceneri.

Tutti sappiamo che dopo morte, la metamorfosi del nostro corpo non ci interessa più, eppure quanti sono disposti a farsi sezionare, a lasciare alcune parti vitali per trapianti e quanti vogliono essere sepolti nell’anonima terra?

E’ la pietà dei vivi o l’egoismo dei morti a far si che i cimiteri diventino città meravigliose dove marmi, sculture, luci s’intrecciano con dispendio di mezzi e di costi?

E’ quindi anche giusto che Pirandello abbia consigliato di trasferire le sue ceneri nella rozza pietra assumendola come punto di riferimento. Ma al di là del fatto esteriore s’inserisce quello interiore per cui l’anima del Maestro s’identifica nella materia diventandone un tutt’uno omogeneo, un incastro indissolubile.

Tra l’altro è bene ricordare che, come detto, anche dopo morto lo stesso fece parlare di sé in quanto non fu facile riportare ad Agrigento le sue ceneri, giacché al Verano erano state tumulate senza nessuna precisa indicazione, e ci vollero dieci anni prima che la città potesse riavere le spoglie del suo figlio più illustre.

Non si dimentichi, a questo punto, che il clero si oppose strenuamente perché non si effettuasse la loro traslazione e che non potessero avere il giusto riposo e di conseguenza l’inevitabile pellegrinaggio e sempre più crescente riconoscimento dei posteri.

Il rapporto tra Pirandello e il clero ed una parte del cattolicesimo letterario non fu certamente idilliaco in quanto lo scrittore siciliano per lunghi decenni fu inviso tanto è vero che le sue opere non entrarono mai a far parte delle biblioteche cattoliche e tanto meno indicate come letture da effettuare. [6]

[6] Dalla lettera del Sindaco di Agrigento Salvatore Lauricella, il 5 ottobre 1946, al Segretario della Sezione della Democrazia Cristiana di Agrigento:
“… l’attuale Ministro della Pubblica Istruzione (Gonella), che è Democratico Cristiano, mi ha fatto conoscere stamani il suo disappunto, per il fatto che l’Amministrazione Comunale di Agrigento, Democratico Cristiana, si interessi alle onoranze di Luigi Pirandello, sia perché questi si è fatto cremare e sia perché l’iniziativa è partita dalla Corda Fratres, che è un organismo di marca massonica”.

 Intanto il 17 dicembre 1946 Antonino Reggiani, presidente della Società M. S. fra Reduci Garibaldini, aveva inviato al Sindaco di Agrigento Giovanni Lauricella, la seguente lettera:
“… avevamo il timore che trascorsi i dieci anni prescritti, esse (le ceneri) fossero gettate nello ossario comune. Quella profanazione non sarebbe avvenuta: eravamo disposti a qualsiasi cosa. Chi fu incaricato di andarle a rilevare nel deposito del Verano stentò alquanto a ritrovarle”.

Chi fu incaricato di andarle a rilevare nel deposito del Verano stentò alquanto a ritrovarle. Si accusava Pirandello di ateismo ed appare evidente che non si condividessero le sue idee e teorie che spesso avevano scandalizzato il clero ed una parte dei cattolici, anche autorevoli. Basti pensare a Papini, per esempio, che per lunghi anni si scagliò contro lo scrittore siciliano perché… non riuscì mai ad incontrar quell’Autor Sommo.

Questo distacco con il clero ed i cattolici sarà anche uno dei motivi per i quali le spoglie non troveranno pace nemmeno dopo i tanti anni trascorsi dalla sua morte a dimostrazione di come il tarlo dell’incomprensione, dell’odio, del sordo partitismo niente può nemmeno di fronte alla morte e dire che il perdono e la pietà (elementi basi della carità cristiana) dovrebbero indurre a diversi atteggiamenti.

Vuol dire che loro cattolicesimo predicava bene ma reagiva in maniera del tutto negativa, tanto da continuare ad accanirsi contro uno scrittore che non era più in vita. Anche se erano vivi e quanto mai attuali e presenti i suoi personaggi. E forse questo li turbava più della morte del Maestro.

Quella presenza ingombrante che certamente sarebbe durata nel tempo. Quel demonio d’un Pirandello, avrebbe fatto parlare anche dopo la sua morte!

Si deve all’impegno dell’allora Direttore del Museo Archeologico di Agrigento, prof. Zirretta, del prof. Mazzacurati di Roma e ad alcuni intellettuali di quella città la traslazione delle ceneri dal Verano al Caos dove arrivarono, dopo un soggiorno presso il Museo Archeologico di Agrigento in Piazza Municipio, nel 1956, con la partecipazione di autorità, ma soprattutto della cittadinanza che ora aveva modo di “onorare” il grande concittadino che poteva riposare in pace sotto il pino, testimone muto d’una vita irresistibile e comunque mai consumata nel tempo.

La sua casa, così vicina al luogo della sepoltura, intanto è diventata, dopo una serie di lavori un Museo Nazionale, meta di visitatori interessati ad ammirare cimeli appartenuti a Pirandello e soprattutto coinvolti da quella atmosfera particolare caratterizzata dalla brezza marina che arriva dal mare africano che lambisce la costa sottostante. [7]

[7] Il Decreto del Presidente della Repubblica porta la data dell’8 novembre 1949, n.1170

“Casa romita in mezzo a la natia campagna, aerea qui, su l’altipiano
d’azzurre argille, a cui sommesso invia fervor di spume il maro aspro africano,
 te sempre vedo, sempre, da lontano, se penso al punto in cui la vita mia
s’aprì piccola al mondo immenso e vano: da qui dico da qui presi il via.

Da questo sentieruolo fra gli olivi, di mentastro, di salvie profumato,
m’incamminai pe‘l mondo ignaro e franco.
E tanto e tanto o fiorellini schivi
tra l’erma siepe, tanto ho camminato per ricondurmi a voi deluso e stanco”. [8]

[8] Cit., in Pirandello a cura del Lyons Club di Agrigento, 1967, pag. 9

 Traspare l’amarezza d’un uomo che sente il peso d’una catarsi interiore e anela per far ritorno a casa come un uomo qualunque ingobbito dalle fatiche e quindi propenso a ritrovare tra le mura domestiche quella quiete e quella pace indispensabili per poter lenire le ferite.

Lui vi farà ritorno, dopo il lungo peregrinare, anche da morto, dopo molto tempo e grazie all’interessamento dei concittadini che non lo hanno mai dimenticato.

L’ateo, anche se l’umana pietà non dovesse dare posto all’interesse egoistico e partitico, non poteva avere la consacrazione ufficiale e se lui avesse voluto essere bruciato, dimostrando ancora una volta sdegno per il suo corpo (contrastando con taluni princìpi di etica morale e volendo ricordare che solo gli eretici venivano bruciati), che restasse nell’anonimato anche se per lui avessero parlato le opere, i personaggi. Così la pensava il clero e gran parte dei soliti “pietisti” cattolici assai noti per la loro falsità supportata da una infida carità che mal si conciliava con il dettato evangelico.

Questa umana ingratitudine frammista a boriosa ignoranza che rende ciechi, meschini, vili, proprio coloro che da mane a sera leggono il vangelo e tengono in mano il rosario, per non dire che sono frequenti battersi il petto. I cattolici! Pirandello li aveva bene identificati e loro, una volta morto il detestato “inquisitore” erano propensi a rendergli pan per focaccia. Era questa (e lo è ancora oggi!) la loro pietà e la cosiddetta carità cristiana!

Per l’episodio della traslazione esiste una fitta serie di corrispondenza tra autorità ecclesiastiche, municipali, statali a dimostrare ampiamente come il Maestro fu scomodo in vita e continuò ad esserlo anche dopo morto.

Tra le tante personalità che si adoperarono perché le ceneri di Pirandello facessero ritorno ad Agrigento, si ricorda l’allora sindaco di Agrigento (1946) Giovanni Lauricella, che tra l’altro evidenziava come il Ministro della Pubblica Istruzione (On. Gonella), era contrario a quella traslazione in quanto il Maestro si era fatto cremare e perché (non si dimentichi che l’onorevole Gonella era iscritto al partito della Democrazia Cristiana) l’iniziativa era partita dalla Corda Fratres, organismo di dichiarata convinzione massonica, (vedi note precedenti).

Intervenne anche l’on. Gaspare Ambrosini (deputato all’Assemblea Costituente e poi Giudice Costituzionale) che cercò di interessare il vescovo di Agrigento, [9] Monsignor Peruzzo, perché si adoperasse, presso gli organi della Chiesa refrattari, per riuscire a risolvere l’annosa, quanto spinosa, questione.

[9] “In conseguenza l’Amministrazione, secondo il prelodato Ministero – continua ancora la lettera del Sindaco Lauricella – dovrebbe disinteressarsi della cosa… mentre la Curia, nella persona del Vescovo, aveva fatto sapere che si potevano conciliare le esigenze del Comitato con quelle religiose”.

Sembra che il vescovo, di origini piemontesi, si sia mosso per non deludere la richiesta dell’onorevole Ambrosini, eminente esponente politico siciliano e giurista insigne che ora si trovava a Roma, pur essendo originario di Favara, un paese della provincia di Agrigento.

E siccome si conosce l’interesse politico dell’allora vescovo, assai amico del cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, si può pensare che quel “favore” era da considerare: do ut des. In ogni caso fu proprio l’onorevole Ambrosini che da Roma scortò le ceneri di Pirandello su un aereo, concesso dagli Americani, che doveva atterrare all’aeroporto di Boccadifalco di Palermo per proseguire per Agrigento dove, in attesa che la casa natale ed il cippo funerario fossero sistemati, vennero custodite dentro un cratere attivo (l’urna cineraria), presso una sala del Museo Civico della città pirandelliana, in Piazza Muncipio, ora Piazza Luigi Pirandello.

Invece l’aereo non partì e la cassetta funeraria fu posta su di un treno speciale e con questo finalmente si arrivò a destinazione. [10]

[10] Da una testimonianza riportata da Giuseppe Longo, in La Sicilia è un’isola, 1962, riportiamo un brano significativo di quella trasvolata da Roma a Palermo su di un aereo americano che riportava le ceneri di Pirandello:

“… Non si sa come, la notizia che un aereo stava involandosi per la Sicilia si sparse, sicché decine di Siciliani, in agguato, sbucarono da dietro le casermette e le siepi a chiedere un passaggio… un posto. L’equipaggio americano, cui tutto quel che accadeva importava men che niente, ne caricò quanti ce n’entrarono… L’urna era stata deposta a terra, ma con quell’aspetto di piccola cassa funeraria aveva attirato l’attenzione dei più vicini edil custode, che era un agente di polizia, non seppe resistere e disse, ad uno che glielo chiedeva, che cosa contenesse. “Non vorrei commentò a voce alta quel siciliano che conosceva i fatti che la volontà di Pirandello di far spargere al vento le proprie ceneri dovesse realizzarsi proprio durante questo volo e per cause accidentali…”.
E così com’erano saliti, i partenti, alla iettatoria previsione, di gran malavoglia, a uno a uno, chi con una scusa e chi con l’altra, rimasero piede a terra… E sull’aereo rimasero l’urna, il custode e il professore Ambrosini. Ma i due aviatori, i quali erano rimasti più sorpresi dell’improvviso svuotamento dell’aeroplano che non della corsa al posto… incominciarono alla loro volta, a tergiversare”, simularono un’avaria e non partirono. Il professore Ambrosini riuscì ad ottenere un treno speciale, una littorina, per quel trasporto. Anche qui una folla di Siciliani stipò il treno che però alla fine si mosse.
“Quando l’alba… spuntò… il professore, che aveva sonnecchiato avvolto in una casalinga coperta, ridestatosi all’improvviso, sentì l’impellente bisogno di andare al gabinetto e… si avventurò col piede fra teste e gambe e piote cercando la strada. Ma quando giunse al termine… quale non fu il suo sbigottimento vedendo che la cassetta contenente l’urna preziosa era stata tolta dal bagagliaio e sistemata a terra a far da tavolo da gioco a quattro individui nerastri, con baffi e incolte capellature, i quali apparivano vigorosamente impegnati in una partita…”.
Quando l’urna con le ceneri dal Museo Comunale fu portata nella casetta del Caos e affidata ai contadini che lì abitavano, questi, secondo una testimonianza di Giovanni Artieri (Il Tempo, Roma 19 marzo 1959) timorosi che potesse rompersi, la ‘protessero’ avvolgendola con un grosso copertone d’autocarro.
(A quanto pare questo fatto è stato smentito dal Direttore del Museo, prof. Zierretta).

Cit. in Gaspare Giudice, Op. Cit., pag. 547 e segg.

Tutto questo fa emergere come il Maestro per tanti, forse troppi, fu un personaggio del tutto scomodo.

Ed ecco il punto: fu scomodo!

Questa precisazione è la sintesi della campagna vergognosa, quasi vessatoria e contraria, di tutta una presa di posizione che va al di là del merito letterario proprio perché il Maestro spesso veniva artatamente interpretato, o almeno certi suoi gesti, affermazioni, atteggiamenti, come uomo (ominicchio?), volutamente dimenticando che era l’autore di tante opere famose.

L’opportunismo cronachista spesso tralasciava l’analisi umana per fare posto all’analisi retorica, pseudo-letteraria, accrescendo in tal modo, inevitabilmente, il disagio che quell’uomo emanava e non solo attraverso le sue opere. Tanto è vero (risulta da testimonianze dirette) che tutte le volte in cui Pirandello tornava ad Agrigento e lo si vedeva passeggiare per Via Atenea, non erano in molti a salutarlo, quasi avessero soggezione e paura e lo stesso, allora, si andava a sedere al Bar Torrefazione accanto all’antica Farmacia Miceli, e lì se ne stava a bere il suo amaro caffè. Poi, sempre da solo, faceva ritorno a casa che si trovava nella parte alta della città, nei pressi del Duomo, già scalinata Cannella, che porta a Santa Maria dei Greci. Ed in quel rione, nella chiesa dell’Itria, il 27 gennaio 1894, furono celebrate le nozze di Luigi Pirandello con Antonietta Portulano dalla quale avrà tre figli. Anche per questa unione non mancarono gli intoppi in quanto i due essendo consanguinei non potevano contrarre matrimonio se non per espressa autorizzazione di una dispensa apostolica che venne concessa il 27 gennaio 1984.

“Anno Domini 1894, die vigesima septima januarii. Premissis denunciationibus tribus diebus festivis continuis inter missae conventualis solemnia quorun prima die 31 decembris 1893, secunda die 1 et tertia die 6 januarii 1894 ed obtenta dispensatione de impedimento de tertio in quarto grado con sanguineitatis a Dataria Apostolica per Cancellariam Episcopalem die 26 huius mensis sic concepta: Reverendissimo Canonico Magistro Cappellano huius S. Cathedralis Ecclesiae: Compiuta essendo la prova dello stato libero e dell’esposto fatto alla S. Sede per la dispensa matrimoniale ottenuta per organo della Dataria Apostolica in favore di Luigi Pirandello e di Antonietta Portulano di cotesta, sull’impedimento che loro osta del terzo in quarto grado di consanguineità in linea collaterale, con l’autorità apostolica delegatici da una parte dispensiamo a detto impedimento e dall’altro permettiamo lo sposalizio dei medesimi in faccia alla S. Chiesa giusta la forma Rituale Romano, qualora non vi sia altro impedimento e dichiariamo legittima la prole da nascere. Datum Agrigenti in Curia Episcopali die 26 Januarii 1894. Vicarius Generalis Cantor Chiarelli Can.cus Gaglio Cancellarius”. [11]

[11] Cit. in Pirandello a cura del Lions Club, Op. Cit.38

Si intravede all’orizzonte come questa unione, seppur benedetta e autorizzata dalla Dataria Apostolica, inizia a creare problemi che, nel tempo, si accumuleranno ed alcuni diventeranno assai gravi ed irreversibili

Ecco perché alla sua morte si tirò un sospiro di sollievo, come se ci si fosse tolto un gran peso. Ormai non poteva nuocere più. I suoi drammi? Be’, sarebbero stati messi a congelare, quasi dimenticati e tutto il chiasso creato attorno a lui sarebbe scemato.

Con Pirandello scompariva un accusatore della borghesia, colui che aveva osato ribellarsi ad una situazione sociale che rispecchiava per molti lati il feudalesimo di tipo pseudo-liberale, è vero, ma sempre feudalesimo era.

Si tirava, alfine, un sospiro di sollievo in quanto la sua vena poetica-letteraria non avrebbe più fatto male a nessuno e parimenti tirava un sospiro di sollievo il clero più volte messo in ridicolo da quel miscredente che come ultimo atto aveva espresso il desiderio di essere cremato.

Forse ricordavano molto bene l’ultima feroce battuta che il prof. Toti (Pensaci Giacomino!) ebbe a rivolgere a don Landolina (il subdolo prete così magistralmente ridicolizzato da Pirandello).

Che crede? Lei neanche a Cristo crede!  [12]

[12] Luigi Pirandello, Pensaci Giacomino, Atto III

E ritornando a quell’atto testamentario così sconvolgente, ci sembra appropriato riportare quanto scritto da Ugo Ojetti, uno dei pochi a leggere per primo quel documento… un foglio di quella carta sottile che una volta si vendeva dai tabaccai per un soldo con la busta. L’inchiostro è scolorito, la calligrafia minuta e serrata…

Si presume che il Maestro abbia scritto molto tempo prima il suo testamento, intorno al periodo compreso tra il 1911 e 1916, quando lo stesso era alle prese con i suoi problemi familiari che venivano a coincidere con le sue ristrettezze economiche, allo scarso successo delle prime opere e forse alle iniziali avvisaglie della malattia della moglie. In ogni caso, è anche certo, che solo gli amici più intimi (non tutti in verità) compresero che con Pirandello scompariva quasi un’epoca, una parte della loro stessa vita culturale e che si apriva un nuovo mondo popolato da personaggi pirandelliani tutti da scoprire.

I più invece pensarono che il vecchio siciliano avesse fatto meglio a non dare ascolto ai suoi tanti cervellotici personaggi. Anche se il Nobel lo aveva consacrato scrittore mondiale grazie a quegli stessi “cervellotici, in più giuravano che tale riconoscimento era del tutto arbitrario.

Si scatenò la ridda di ipotesi tendenti a dimostrare che a volere il Nobel per Pirandello fosse stato Benito Mussolini il quale, in un secondo tempo si era pentito tanto da aver snobbato il vincitore perché, a quanto sembra, lo avrebbe preteso lui medesimo. [13]

[13] (Già nel 1929 era stato nominato unitamente ad altri illustri personaggi, Accademico d’Italia seppur di questo titolo sembrò non darsene soverchio pensiero tale fu il suo comportamento che in più occasioni lo portò a denigrare, appunto, gli stessi componenti). Ed a proposito dei dissapori per quella nomina riportiamo una nota di Caprini che ha scritto: “… quando il premio Nobel fu assegnato a lui invece che a non so quale altro sostenuto dalla diplomazia del regime, la cosa poco piacque nelle alte sfere. Le quali evitarono festeggiamenti romani e si limitarono a mandare un sottosegretario culturale a una riunione fra amici in un circolo letterario a Milano”. Tra l’altro al ritorno da Stoccolma Pirandello non trovò nessuno ad attenderlo alla stazione, solo Massimo Bontempelli ebbe la cortesia di andarlo a prendere. Non c’erano giornalisti o fotografi ad attendere il premiato, nessuno.

E non si dimentichi che il Maestro, a quell’epoca, proprio perché ufficialmente iscritto al Partito Fascista, si era attirato le ire dei più che avevano gridato allo scandalo e certo non perdonavano quella decisione, frutto di tanto parlare, di tanto dire, di tanto scrivere. [14]

[14] Tra i tanti che si scagliarono contro questa decisione, particolare veemenza mostrò il senatore Amendola che in più occasioni, pubblicamente, lanciò proprie contumelie contro lo scrittore siciliano: “Tra gli intellettuali, vi potrebbe essere posto per uomini di genialità superiore come Marinetti e Pirandello… Basta col consesso dei paralitici e dei rimbambiti!”. Invece chi lo difese apertamente, interrompendo l’amicizia con Amendola, fu Giuseppe Prezzolini il quale ricevette una dura lettera dallo stesso senatore (29 settembre 1924) nella quale oltre ad attaccare l’ex amico per aver sostenuto Pirandello, così termina: “Va benissimo. Prendo atto. E sebbene con dolore – perché ricordo lunghi anni e molte cose – ti dichiaro che io non posso accettare questa tua manifestazione che considero per me oltraggiosa, e che i nostri rapporti finiscono qui, definitivamente. Tuo Giovanni Amendola”.

In tutto questo marasma come si comportò il Maestro?

Come sempre lapidario e con una risposta quanto mai precisa che dovette lasciar di stucco i tanti denigratori i quali non solo erano critici letterari, o pseudo tali, ma anche politici pronti a vedere in quell’uomo un nemico da combattere con tutti i mezzi. Forse volevano rendere pan per focaccia ai fascisti i quali si erano resi responsabili degli attacchi vergognosi contro l’altro grande letterato di quell’epoca, Roberto Bracco che a detta di molti era tra i presunti candidati al Nobel, osteggiato fortemente dai Fascisti che continuarono a perseguitare l’autore per tutta la vita.

E non si dimentichi che nel firmamento letterario non voleva essere secondo a nessuno il “vate”, ossia Gabriele D’Annunzio il quale, contrariamente a quello che faceva Pirandello, così taciturno e schivo, era quanto mai appariscente in tutto e per tutto e non mancava occasione di essere al centro dell’attenzione, a volte lontano dall’interesse culturale e letterario, intento com’era a perseguire altri traguardi.

Pirandello, dicevamo, così rispose: “La mia vita non è che lavoro e studio. Le mie opere, che alcuni credono non meditate e buttate giù di getto, sono invece il risultato di un lungo periodo di incubazione spirituale. Sono isolato dal mondo e non ho che il mio lavoro e la mia arte. La politica? Non me occupo, non me ne sono mai occupato. Se alludete al mio recente atto di adesione al fascismo, vi dirò che è stato compiuto allo scopo di aiutare il fascismo nella sua opera di rinnovamento e ricostruzione…”. [15]

[15] Cit. in Gaspare Giudice, Pirandello, Op. Cit. pag. 439

Una decisione che aveva sconcertato e che ora, anche se morto, non lasciava posto al pietismo nonostante il tentativo di spiegare i motivi di quella decisione.

Ma erano tempi bui e non tutti erano propensi a lasciare da parte inutili e sterili polemiche che di fronte al mistero della morte non avrebbero dovuto aver ragione di esistere. Dice giustamente Maria Alaimo, studiosa e critica oculata dell’opera pirandelliana:

“Così Pirandello, il quale, dalla casa natale di pietra e di terra, era balzato, come da un grembo viso, nel mondo, fino alle più lontane ribalte della gloria, ha voluto, con l’ultimo ritorno, della morte, ricongiungersi, riaffiggersi alle radici della vita primogenia. Ha sentito, così, di apporre, alla propria vicenda esistenziale sulla terra, un suggello unitario di morte e di vita. Anche se, essendo il suo spirito, pur nell’austero travaglio cui soggiacque, chiuso al riconoscimento di una superiore realtà che trascenda ogni realtà terrestre, labile e transeunte, tale suggello debba intendersi entro il raggio di una luce tutta e solamente umana”. [16]

[16] Maria Alaimo, La Casa dell’Uomo, Cit, in Pirandello, Lions Club Agrigento, Op. Cit., pag.13

La complessa tematica della sua opera era conosciuta, incompresa e si stentava di recepirla. Certi giudizi gratuiti, poi, avevano contribuito tra l’altro a creare una condizione di disagio non solo attorno al drammaturgo, ma anche coinvolgendo l’uomo. Lo stesso che non aveva esitato di aprire un contenzioso letterario con Benedetto Croce, parimenti, non aveva esitato a ridicolizzare quella parte di clero ancora così legato al potere come lo era una parte di società borghese che calpestava alcuni princìpi etici.

Quell’uomo che dal profondo Sud, era riuscito ad attirare l’attenzione del mondo letterario e di conseguire il premio Nobel.

Quell’uomo che ora con sdegno lasciava il mondo terreno senza mostrare alcun sentimento di riconoscenza nei confronti della società che veniva esclusa da quella morte mediante quelle poche righe scritte su un foglietto di carta di nessun valore, ma che sarebbe passato alla storia come uno dei più particolari e singolari testamenti olografi che siano stati redatti.

In quel fatidico 10 dicembre 1936 l’Italia letteraria si scrollava di dosso un personaggio incomodo e scomodo. Si tirava un sospiro di sollievo.

L’ultima testimonianza di quei momenti convulsi, quanto attorno al Maestro era pace e silenzio, ci viene dalla descrizione di Ojetti che ebbe il privilegio di assisterlo fino alla fine e immediatamente dopo.

“Gli pongo una mano sulla grande fronte. Attraverso il sudario credo di sentirla ancora tiepida. Poi gli stringo le mani congiunte. Altre mani prima di me devono aver toccato queste mani, accarezzato il volto; così il lino aderendo al tondo del cranio, al naso, agli zigomi, modella l’esile corpo, ne dà come un largo abbozzo…” [17]

[17] Cit. in Gaspare Giudice, Op. Cit., pag. 546

E non furono in pochi a chiedersi (come lo sono ancora oggi), ma chi era questo Pirandello?

Già, chi era effettivamente Luigi Pirandello?

Pietro Seddio

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