Di Marialaura Simeone.
È proprio il passaggio sulla scena a dare a «L’uomo dal fiore in bocca» la distanza dalla scrittura narrativa al dramma. Sono le pause tra un concetto e l’altro, sono le voci degli attori sussurrate o gridate, sono i gesti, i movimenti di essi, sono tutto ciò che la rappresentazione lascia solo immaginare.
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L’uomo dal fiore in bocca: una lettura futurista [1]
[1] L’intervento è stato scritto appositamente per il 51 Convegno di studi pirandelliani. Essendo, questo convegno, incentrato sul laboratorio di scrittura creativa, ho preferito un approccio non tanto scientifico, ma teso piuttosto a dare un’ipotesi di lettura (creativa) de L’uomo dal fiore in bocca.
Il copione de L’uomo dal fiore in bocca nacque “senza che Pirandello lo avesse mai scritto”. Lo raccontava Ercole Patti al «Corriere della sera»: “Bragaglia aveva molto insistito per avere da lui qualcosa, almeno un breve atto per il Teatro degli Indipendenti; e un giorno Pirandello per accontentarlo prese un suo volume vi scelse la novella Caffè notturno e segnando con una matita rossa negli stretti margini delle pagine stampate qualche brevissima didascalia e una o due mezze battute mise su in pochi minuti l’atto unico” [2] . Prima di diventare “L’uomo dal fiore in bocca”, il brevissimo atto teatrale è, appunto, la novella pubblicata il 15 agosto 1918 su «La rassegna italiana» con il titolo Caffè notturno, in seguito divenuta La morte addosso e pubblicata nella raccolta Il carnevale dei morti nel 1919, ripubblicata nella raccolta In silenzio nel 1923. Infine pubblicata nel 1926, come atto unico, nella raccolta Maschere nude.
[2] Ercole Patti, L’uomo dal fiore in bocca, «Corriere della sera», 14 ottobre 1966. Riportato in Luigi Pirandello, Maschere Nude, a cura di Alessandro D’amico, Milano, Milano, Mondadori, Collezione I Meridiani, vol. III, p. 551.
Il viaggio dalla novella all’approdo drammatico occupa uno spazio importante nella carriera artistica di Pirandello: nel 1918 siamo in una fase antecedente i Sei personaggi in cerca d’autore, un teatro dove il salotto borghese è la “stanza della tortura” [3] dei personaggi e dove, tutto sommato, i drammi mantengono un’andatura classica. Con la riscrittura dei Sei personaggi nel 1925 inizia una nuova fase del teatro pirandelliano, con la concezione del palcoscenico come “spazio mentale” [4] .
[3] L’espressione è di Giovanni Macchia, cfr. Idem, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1981.
[4] Claudio Vicentini, Pirandello. Il disagio del teatro, Venezia, Marsilio, 1993.
La scena teatrale diventa lo spazio dell’immaginazione, dell’evocazione, della rappresentazione dei fantasmi mentali dell’autore. All’altezza del 1926 questo cambiamento di rotta è appena avvenuto, eppure il dramma, già rappresentato al Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia nel 1923, e prima di essere rappresentato dallo stesso Teatro d’Arte di Pirandello nel 1926-1927, non subisce modifiche sostanziali.
Apparentemente l’atto unico conserva tutta la semplicità della novella, limitandosi a chiarificare alcuni dettagli nelle didascalie, e aggiungendo delle pause, ben ventinove, a interrompere il dialogo. A differenza della novella che inizia ex abrupto, senza indicazioni di luogo e tempo, nel dramma una didascalia iniziale chiarisce ora e luogo della vicenda:
Si vedranno in fondo gli alberi d’un viale, con le lampade elettriche che traspariranno di tra le foglie. Ai due lati, le ultime case d’una via che immette in quel viale. Nelle case a sinistra sarà un misero Caffè notturno con tavolini e seggiole sul marciapiede. Davanti alle case di destra, un lampione acceso. Allo spigolo dell’ultima casa a sinistra, che farà cantone sul viale, un fanale anch’esso acceso. Sarà passata da poco la mezzanotte.
Il dialogo, quasi un monologo, tra l’uomo malato di tumore e l’avventore che ha perso il treno si svolge come nella novella. Vengono aggiunte oltre le già citate pause, altre brevi didascalie sulla moglie che lo osserva da lontano e sull’atteggiamento “cupo” dell’uomo dal fiore in bocca. E per tre volte viene specificato che l’uomo dal fiore in bocca “riderà”, di quel riso amaro tipico dei personaggi pirandelliani [5] .
[5] Sul riso nella produzione drammaturgica di Pirandello cfr. Graziella Corsinovi, Tra urlo e risata: prospettive espressioniste nel teatro di Pirandello, in Aa. Vv. Pirandello e le avanguardie, Atti del 35 Convegno Internazionale di studi pirandelliani di Agrigento, a cura di Enzo Lauretta, Agrigento, Edizioni Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, 2009, pp. 33-43.
La novella termina, in maniera dolente, con la raccomandazione dell’uomo dal fiore in bocca all’avventore di trovare un cespuglio (ma bello grande) e di contarne i fili per sapere quanti giorni avrà ancora da vivere. Nel dramma dopo la raccomandazione, l’uomo dal fiore in bocca “s’avvierà, canticchiando a bocca chiusa il motivetto lontano, verso il cantone di destra; ma a un certo punto, pensando che la moglie sia lì ad aspettarlo, volterà e scantonerà dall’altra parte, seguito con gli occhi del pacifico avventore quasi basito”. Una conclusione in qualche modo più aperta di quella della novella.
Appare chiaro, tuttavia, come le modifiche siano del tutto trascurabili, almeno in apparenza. L’atto unico non viene caricato di alcuna pretesa avanguardistica, come temevano i critici alla notizia della messinscena di Bragaglia nel 1923. Fausto Maria Martini esprimeva, ad esempio, la sua preoccupazione sulle colonne de «La tribuna»: “Una novità di Pirandello in un teatro d’eccezione! E una dichiarata appartenenza dell’atto al ‘teatro sintetico’. C’era davvero in vista, per gli ascoltatori, il terrore o l’orgoglio di dover esporre il proprio cervello a una prova decisiva…Non è sempre facile capire Pirandello quando scrive per le scene consuete; figurarsi poi quando dedica le sue fatiche di commediografo ad un teatro d’eccezione” [6] .
[6] Fausto Maria Martini, «La tribuna», 22 febbraio 1923. Riportato in Luigi Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca, Maschere Nude, III, a cura di Alessandro D’Amico con la collaborazione di Alessandro Tinterri, Milano, Mondadori, I Meridiani, p. 552.
L’atto si rivelò, al contrario, tra i più comprensibili dell’autore, la messinscena di Bragaglia si limitò a “suggerire agli spettatori l’ambiente, con l’abile disposizione di alcune tele sotto una luce violacea, una porticina illuminata e presso a quella un tavolo e delle sedie, una finestretta bassa con l’inferriata, due lampioni. E durante il dialogo un violino sonava in sordina, come lontanissimo, una canzone napoletana” [7] . Anche la messinscena del Teatro d’Arte di Pirandello nella stagione 1926-1927, fu piuttosto semplice se non per “un cielo paonazzo, assolutamente irreale” creato dallo scenografo Guido Salvini [8] . Eppure qualcosa cova sotto questo atto apparentemente semplice se, dagli anni Quaranta in poi, a rappresentarlo siano stati gruppi di teatro sperimentale: il Gruppo Posizione a Novara nel 1942-43, il Teatro di ricerca di Pontedera nel 1983, i Teatri Uniti di Napoli nel 1990.
[7] Silvio D’amico, «L’idea nazionale», 22 febbraio 1923. Riportato in Luigi Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca, Maschere Nude, III, a cura di Alessandro D’Amico con la collaborazione di Alessandro Tinterri, cit., p. 554.
[8] Cfr. Alessandro D’Amico-Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico: la Compagnia del Teatro d’Arte di Roma 1925-1928, Palermo, Sellerio, 1987, p. 212.
Si può provare, allora, a dare una lettura futurista de L’uomo dal fiore in bocca, partendo da quella “dichiarata appartenenza dell’atto unico al teatro sintetico” di cui parlava Fausto Maria Martini. Iniziamo con la definizione di sintetico per i Futuristi: “sintetico” vuol dire “brevissimo. Stringere in pochi minuti, in poche parole e in pochi gesti innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli”. In questo senso l’atto unico pirandelliano può essere futurista. Nel brevissimo atto unico, il più breve degli atti di Pirandello, in “poche parole e in pochi gesti” sono sintetizzate “innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli”. L’avventore rappresenta l’aspetto vano e superficiale della vita, il suo “dramma” è di aver perso il treno per tornare a casa, e “drammi” quotidiani sono sua moglie e le sue figlie, espressione della vacuità femminile [9] .
[9] Non è da meno l’uomo in questione. “L’Umanità è mediocre. La maggioranza delle donne non è superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Esse sono uguali. Tutte e due meritano lo stesso disprezzo”, recitava il Manifesto della donna futurista nel 1912. Cfr. Valentine De Saint-Point, Il manifesto della donna futurista, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2006.
L’uomo dal fiore in bocca, al contrario rappresenta – volendo usare un’espressione pirandelliana – “chi ha capito il giuoco” della vita, dovendola perdere le dà un valore ben diverso. Non potendola più vivere in prima persona, guarda quella degli altri, come racconta al pacifico avventore:
Alla vita degli estranei intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. […] Ora mi occupa questo, ora quello. In questo momento mi sta occupando lei, e creda che non provo nessun piacere del treno che ha perduto, della famiglia che lo aspetta in villeggiatura, di tutti i fastidi che posso supporre in lei.
Vengono fuori da questo breve atto, il rapporto che l’avventore ha con sua moglie e le sue figlie e quello, ben diverso, tra l’uomo dal fiore in bocca e sua moglie:
Mi sorveglia da lontano. E mi verrebbe, creda, d’andarla a prendere a calci. Ma sarebbe inutile. È come una di quelle cagne sperdute, ostinate, che più lei le prende a calci, e più le si attaccano alle calcagna. Pausa Ciò che quella donna sta soffrendo per me, lei non se lo può immaginare. Non mangia, non dorme più. Mi viene appresso, giorno e notte, così, a distanza. E si curasse almeno di spolverarsi quella ciabatta che tiene in capo, gli abiti. Non pare più una donna, ma uno strofinaccio. Le si sono impolverati per sempre anche i capelli, qua sulle tempie; e ha appena trentaquattro anni.
Pausa
Mi fa una stizza, che lei non può credere. Le salto addosso, certe volte, le grido in faccia: – Stupida! – scrollandola. Si iglia tutto. Resta lì a guardarmi con certi occhi…con certi occhi che, le giuro, mi fan venire qua alle dita una selvaggia voglia di strozzarla. Niente. Aspetta che mi allontani per rimettersi a seguirmi a distanza.
L’analisi futurista può continuare basandosi su una delle misurazioni dedicate da Filippo Tommaso Marinetti a Pirandello. Marinetti non esita a definire il drammaturgo siciliano “il più alto e il più profondo”, addirittura “il più futurista” [10] . Sottolinea “la sua ansia di un’arte nuova, di un’arte-vita, di un’arte dinamica” [11] . Ne rivela “la potenza filosofica che penetra, sviscera e crea i problemi più astrusi dello spirito e i tormenti più dolorosi della carne; la potenza dialettica che vivifica fino allo spasimo questi problemi, ne precisa colla sua luce accecante tutte le ramificazioni come fa il sole africano nelle oasi dopo le piogge; la potenza drammatica che sceglie fra tutti i problemi spirituali i più foschi e i meno seducenti per piantarli spavaldamente sul palcoscenico dove il pubblico passatista vorrebbe si eternasse il cretinissimo triangolo dell’adulterio elegante; la potenza di prestigio ingegnosità e stregoneria scenica che tiene questi problemi ritti in piedi come esseri vivi e palpitanti e li impone all’anima smarrita e terrorizzata dal pubblico” [12] .
[10] [11] [12] Filippo Tommaso Marinetti, «L’Impero», 30 aprile 1927. Riportato in Alessandro D’Amico-Alessandro Tinterri, Pirandello capocomico: la Compagnia del Teatro d’Arte di Roma 1925-1928, cit., pp. 251-253. Sui rapporti tra Pirandello e il Futurismo cfr. Mario Verdone, Pirandello e il Futurismo, in Aa. Vv., Pirandello e le Avanguardie, Atti del 35 Convegno Internazionale di studi pirandelliani di Agrigento, a cura di Enzo Lauretta, cit., pp. 45-54
La potenza filosofica che penetra sviscera e crea i problemi più astrusi e i tormenti più dolorosi: l’atto unico di Pirandello è una riflessione sulla vita, da cui siamo coinvolti senza rendercene conto, occupandoci e preoccupandoci delle banalità quotidiane, mentre ci rendiamo conto di quanto sia importante solo nel momento in cui sappiamo di perderla:
[…] Non sappiamo come sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che on si soddisfa mai, che non si può soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua…a queste noje…a tante stupide illusioni…insulse occupazioni…Sì, sì. Questa che ora qua è una sciocchezza…questa che ora qua è una noja…e arrivo finanche a dire, questa che ora è per noi una sventura, una vera sventura…sissignori, a distanza di quattro, cinque, dieci anni, chi sa che sapore acquisterà…che gusto, queste lagrime…E la vita, perdio, al solo pensiero di perderla… specialmente quando si sa che è questione di giorni…
La potenza dialettica che vivifica fino allo spasimo questi problemi: evidente, ne L’uomo dal fiore in bocca, lo scontro tra la vita e morte. La vita è nello sguardo dell’uomo dal fiore in bocca, attraverso le vetrine, sui giovani commessi mentre preparano i pacchetti:
Eh, ben legati, me l’immagino: con quell’arte speciale che mettono i giovani di negozio nell’involtare la roba venduta… Pausa Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rossa, levigata… ch’è per se stessa un piacere vederla…così liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza…La stendono sul banco e poi con garbo disinvolto vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben piegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l’altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di più per amore dell’arte; poi ripiegano da un lato e dall’altro a triangolo e cacciano sotto le due punte; allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legare l’involto, e legano così rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d’ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito. Attaccarmi così – dico con l’immaginazione – alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata.
E ancora nella vita che degli estranei, cui si attacca grazie alla sua fervida immaginazione:
Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…
Questa vita che l’uomo dal fiore in bocca vorrebbe vivere, o almeno veder vivere, viene disturbata dalla moglie, innocente creatura che vorrebbe solo dargli le amorevoli e necessarie cure, ma che rappresenta la morte che lo attende:
Ma che povera signora! Vorrebbe, capisce? ch’io me ne stessi a casa, quieto, tranquillo, a coccolarmi in mezzo a tutte le sue più amorose e sviscerate cure; a godere dell’ordine perfetto di tutte le stanze, della lindura di tutti i mobili, di quel silenzio di specchio che c’era prima in casa mia, misurato dal tic-tac della pendola del salotto da pranzo. – Questo vorrebbe! Io domando ora a lei, per farle intendere l’assurdità… ma no, che dico l’assurdità! la macabra ferocia di questa pretesa, le domando se crede possibile che le case d’Avezzano, le case di Messina, sapendo del terremoto che di li a poco le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene tranquille sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della commissione edilizia municipale. Case, perdio, di pietra e travi, se ne sarebbero scappate! Immagini i cittadini di Avezzano, i cittadini di Messina, spogliarsi placidi placidi per mettersi a letto, ripiegare gli abiti, mettere le scarpe fuori dell’uscio, e cacciandosi sotto le coperte godere del candor fresco delle lenzuola di bucato, con la coscienza che fra poche ore sarebbero morti. – Le sembra possibile?
La potenza drammatica che sceglie fra tutti i problemi spirituali i più foschi e i meno seducenti per piantarli pavaldamente sul palcoscenico: lo svelamento della verità all’avventore, e il mostrargli la “morte addosso”, è l’acme della tragedia:
Mi lasci dire! Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso…Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: «Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso ». E con quelle due dita protese, la piglia e butta via… Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano quieti e tranquilli a ciò che faranno domani e doman l’altro. Ora io, Si alzerà. Caro signore, ecco…Venga qua… Lo farà alzare e lo condurrò sotto il lampione acceso. Qua sotto questo lampione…Venga…Le faccio vedere una cosa…Guardi, qua, sotto questo baffo…qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: – Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!»
La potenza di prestigio ingegnosità e stregoneria scenica: Non vi è nulla di eclatante, ma alcuni passaggi de L’uomo dal fiore in bocca evocano i “drammi di oggetti futuristi” [13] .
Nelle parole dell’uomo dal fiore in bocca, gli oggetti acquistano vita, si umanizzano. L’uomo dal fiore in bocca chiede all’avventore se abbia mai fatto caso ai salottini d’attesa dei medici: […]
Dico, quelle sale…Pausa
Ci ha fatto attenzione? Divano di stoffa scura, di foggia antica…quelle seggiole imbottite, spesso scompagne…quelle poltroncine…E` roba comprata di combinazione, roba di rivendita, messa lí per i clienti; non appartiene mica alla casa. Il signor dottore ha per sé, per le amiche della sua signora, un ben altro salotto, ricco, bello. Chi sa come striderebbe qualche seggiola, qualche poltroncina di quel salotto portata qua nella sala dei clienti a cui basta questo arredo cosi, alla buona, decente, sobrio. Vorrei sapere se lei, quando andò con la sua figliuola, guardò attentamente la poltrona o la seggiola su cui stette seduto, aspettando.
[…] Avrebbero piacere quelle seggiole d’immaginare chi sia il cliente che viene a sedere su loro in attesa del consulto? che male covi dentro? dove andrà, che farà dopo la visita? Nessun piacere. E così io: nessuno! Vengono tanti clienti, ed esse sono là, povere seggiole, per essere occupate.
È proprio il passaggio sulla scena, in conclusione, a dare a L’uomo dal fiore in bocca la distanza dalla scrittura narrativa al dramma. Sono le pause tra un concetto e l’altro, sono le voci degli attori sussurrate o gridate, sono i gesti, i movimenti di essi, sono tutto ciò che la rappresentazione lascia solo immaginare. Tutto quanto di filosofico, dialettico e drammatico.
[13] Mario Verdone paragonava la sintesi di Marinetti del 1916, La camera dell’ufficiale con la novella di Pirandello Spunta un giorno (1928). Cfr. Mario Verdone, Pirandello e il Futurismo, in Aa. Vv., Pirandello e le Avanguardie, Atti del 35 Convegno Internazionale di studi pirandelliani di Agrigento, a cura di Enzo Lauretta, cit.cit., p. 49. A mio avviso si potrebbero citare anche Un ritratto (1914) e La camera in attesa (1916). Nella novella Un ritratto il narratore della storia si trova in un salotto ad aspettare il padrone di casa e gli sembra di essere osservato dagli oggetti: “Nel salottino, tenuto in una triste penombra, restai in piedi a guardare con un senso indefinibile di fastidio i mobiletti nuovi, disposti in giro, ma come per non servire. Non stavano certo ad aspettar nessuno quei mobiletti in quel salottino appartato e sempre chiuso. E il senso di pena, con cui li guardavo, me li faceva ora sembrare intorno come stupiti di vedermi tra loro; non ostili, ma neppure invitanti”. Ne La camera in attesa una stanza tenuta intatta da anni da tre sorelle, non appena queste chiudono le persiane, è come se prendesse vita. Vivi i mobili e gli oggetti su di essi: “Si dà pur luce ogni mattino a questa camera, quando una delle tre sorelle a turno viene a ripulirla senza guardarsi attorno. L’ombra, tuttavia, appena le persiane e le vetrate della finestra sono richiuse e raccostati gli scuri, si fa subito cruda, come in un sotterraneo; e subito, come se quella finestra non sia stata aperta da anni, il crudo di quest’ombra s’avverte, diventa quasi l’alito sensibile del silenzio sospeso vano sui mobili e gli oggetti, i quali, a lor volta, par che rimangano sgomenti, ogni giorno, della cura con cui sono stati spolverati, ripuliti e rimessi in ordine. […] Sul tavolino da notte, però, la boccetta dell’acqua, di cristallo verde dorato, panciuta, incappellata del suo lungo bicchiere capovolto, pigliando di tra gli scuri accostati della finestra dirimpetto un filo di luce, sembra ridere di tutto quello sgomento diffuso nella camera. Nell’attesa della fiamma che deve consumarla, s’è ingiallita quella candela sul trifoglio della bugia, come una vergine matura. E c’è da scommettere che le due figurine monellescamente smorfiose della scatola di fiammiferi la paragonino alle tre sorelle stagionate che vengono un giorno per una a ripulire e a rimettere in ordine la camera”.
Marialaura Simeone
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