143. Lumìe di Sicilia – Novella

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Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 20 e 27 maggio 1900, poi in Quand’ero matto, Streglio, Torino 1902/1903.
«Col volto in fiamme, gli occhi sbarrati, la bocca aperta, egli restò a contemplarla, istupidito. Come mai ella… così? Nudo il seno, nude le spalle, le braccia nude,., tutta fulgente di gemme e di stoffe… Non la vedeva, non la vedeva più come una persona viva e vera davanti a sé.»

Novella dalla Raccolta “Il vecchio Dio” (1926)

Approfondimenti nel sito:
Sezione Teatro – Lumíe di Sicilia – 1910

««« Introduzione alle novelle

Lumìe di Sicilia
 Nuovo Teatro Insieme – Lumie di Sicilia – 2008. Immagine dal Web.

Lumìe di Sicilia – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Lumìe di Sicilia – Audio lettura 2 – Legge
Valter Zanardi

12. Lumìe di Sicilia – 1900

***** La lumía è il frutto di una pianta del genere Citrus con fiori rosa, molto profumato e simile per il sapore acidulo al limone.

             – Teresina sta qui?

             Il cameriere, ancora in maniche di camicia, ma già impiccato in un altissimo solino, squadrò da capo a piedi il giovanotto che gli stava davanti sul pianerottolo della scala: campagnolo all’aspetto, col bavero del pastrano ruvido rialzato fin su gli orecchi e le mani paonazze, gronchie dal freddo, che reggevano un sacchetto sudicio di qua, una vecchia valigetta di là, a contrappeso.

             – Teresina? E chi è? – domandò a sua volta, inarcando le folte ciglia giunte, che parevano due baffi rasi dal labbro e appiccicati lì per non perderli.

             Il giovanotto scosse prima la testa per far saltare dalla punta del naso una gocciolina di freddo, poi rispose:

             –    Teresina, la cantante.

             –    Ah, – sclamò il cameriere, con un sorriso d’ironico stupore: – Si chiama così, senz’altro, Teresina? E voi chi siete?

             –    C’è o non c’è? – domandò il giovanotto, corrugando le ciglia e sorsando col naso. – Ditele che c’è Micuccio e lasciatemi entrare.

             –    Ma non c’è nessuno a quest’ora, – rispose il cameriere, col sorriso rassegato su le labbra. – La signora Sina Marnis è ancora a teatro e…

             –    Anche zia Marta? – lo interruppe Micuccio.

             –    Ah, lei è il nipote?

             E il cameriere si fece subito cerimonioso.

             – Favorisca allora, favorisca. Non c’è nessuno. Anche lei a teatro, la Zia. Prima del tocco non ritorneranno. È la serata d’onore di sua… come sarebbe di lei, la signora? cugina, allora?

             Micuccio restò un istante impacciato.

             – Non sono… no, non sono cugino, veramente. Sono… sono Micuccio Bona – vino; lei lo sa. Vengo apposta dal paese.

             A questa risposta il cameriere stimò innanzi tutto conveniente ritirare il lei e riprendere il voi; introdusse Micuccio in una cameretta al bujo presso la cucina, dove qualcuno ronfava strepitosamente, e gli disse:

             – Sedete qua. Adesso porto un lume.

             Micuccio guardò prima dalla parte donde veniva quel ronfo, ma non poté discernere nulla; guardò poi in cucina, dove il cuoco, assistito da un guattero, apparecchiava da cena. L’odor misto delle vivande in preparazione lo vinse: n’ebbe quasi un’ebbrietà vertiginosa: era poco men che digiuno dalla mattina; veniva dalla provincia di Messina; una notte e un giorno intero in ferrovia.

             Il cameriere recò il lume, e quello che ronfava nella stanza, dietro una cortina sospesa a una funicella da una parete all’altra, borbottò tra il sonno:

             –    Chi è?

             –    Ehi, Dorina, su! – chiamò il cameriere. – Vedi che c’è qui il signor Bonvicino.

             –    Bonavino, – corresse Micuccio, che stava a soffiarsi su le dita.

             –    Bonavino, Bonavino, conoscente della signora. Tu dormi della grossa: suonano alla porta e non senti. Io ho da apparecchiare, non posso far tutto io, capisci?, badare al cuoco che non sa, alla gente che viene.

             Un ampio sonoro sbadiglio, protratto nello stiramento delle membra e terminato in un nitrito per un brividore improvviso, accolse la protesta del cameriere, il quale s’allontanò esclamando:

             – E va bene !

             Micuccio sorrise, e lo seguì con gli occhi, attraverso un’altra stanza in penombra, fino alla vasta sala in fondo, illuminata, dove sorgeva splendida la mensa, e restò meravigliato a contemplare, finché di nuovo il ronfo non lo fece voltare a guardar la cortina.

             Il cameriere, col tovagliolo sotto il braccio, passava e ripassava, borbottando or contro Dorina che seguitava a dormire, or contro il cuoco che doveva esser nuovo, chiamato per l’avvenimento di quella sera, e lo infastidiva chiedendo di continuo spiegazioni. Micuccio, per non infastidirlo anche lui, stimò prudente ricacciarsi dentro tutte le domande che gli veniva di rivolgergli. Avrebbe poi dovuto dirgli o fargli intendere ch’era il fidanzato di Teresina, e non voleva, pur non sapendone il perché lui stesso; se non forse per questo, che quel cameriere allora avrebbe dovuto trattar lui, Micuccio, da padrone, ed egli, vedendolo così disinvolto ed elegante, quantunque ancor senza marsina, non riusciva a vincere l’impaccio che già ne provava solo a pensarci. A un certo punto però, vedendolo ripassare, non seppe tenersi dal domandargli:

             – Scusi… questa casa di chi è?

             – Nostra, finché ci siamo, – gli rispose in fretta il cameriere. E Micuccio rimase a tentennare il capo.

             Perbacco, era vero dunque! La fortuna acciuffata. Affaroni. Quel cameriere che pareva un gran signore, il cuoco e il guattero, quella Dorina che ronfava di là: servi tutti a gli ordini di Teresina. Chi l’avrebbe mai detto?

             Rivedeva col pensiero la soffitta squallida, laggiù laggiù, a Messina, dove Teresina abitava con la madre. Cinque anni addietro, in quella soffitta lontana, se non fosse stato per lui, mamma e figlia sarebbero morte di fame. E l’aveva scoperto lui, lui, quel tesoro nella gola di Teresina! Ella cantava sempre, allora, come una passera dei tetti, ignara del suo tesoro: cantava per dispetto, cantava per non pensare alla miseria a cui egli cercava di sovvenire alla meglio, non ostante la guerra che gli movevano in casa i genitori, la madre specialmente. Ma poteva abbandonar Teresina in quello stato, dopo la morte del padre? Abbandonarla perché non aveva nulla, mentre lui, bene o male, un posticino ce l’aveva, di sonator di flauto nel concerto comunale? Bella ragione! E il cuore?

             Ah, era stata una vera ispirazione del cielo, un suggerimento della fortuna, quel far caso alla voce di lei, quando nessuno ci badava, in quella bellissima giornata d’aprile, presso la finestra dell’abbaino che incorniciava vivo vivo l’azzurro del cielo. Teresina canticchiava un’appassionata arietta siciliana, di cui Micuccio ricordava ancora le tenere parole. Era triste Teresina, quel giorno, per la recente morte del padre e per l’ostinata opposizione dei parenti di lui; e anch’egli – ricordava – era triste, tanto che gli erano spuntate le lagrime, sentendola cantare. Pure tant’altre volte l’aveva sentita, quell’arietta; ma cantata a quel modo, mai. N’era rimasto così impressionato, che il giorno appresso, senza prevenire né lei né la madre, aveva condotto con sé, su nella soffitta, il direttore del concerto, suo amico. E così erano cominciate le prime lezioni di canto, e, per due anni di fila egli aveva speso per lei quasi tutto il suo stipendio: le aveva preso a nolo un pianoforte, comperate le carte di musica e qualche amichevole compenso aveva pur dato al maestro. Bei giorni lontani! Teresina ardeva tutta nel desiderio di spiccare il volo, di lanciarsi nell’avvenire che il maestro le prometteva luminoso; e, frattanto, che carezze di fuoco a lui, per dimostrargli tutta la sua gratitudine, e che sogni di felicità comune!

             Zia Marta, invece, scoteva amaramente il capo: ne aveva viste tante in vita sua, povera vecchietta, che ormai non aveva più fiducia nell’avvenire: temeva per la figliola, e non voleva che ella pensasse neppure alla possibilità di togliersi da quella rassegnata miseria; e poi sapeva, sapeva ciò che costava a lui la follia di quel sogno pericoloso.

             Ma né lui né Teresina le davano ascolto, e invano essa si era ribellata quando un giovane maestro compositore, avendo udito Teresina in un concerto, aveva dichiarato che sarebbe stato un vero delitto non darle migliori maestri e una compiuta educazione artistica: a Napoli, bisognava mandarla al conservatorio di Napoli a qualunque costo.

             E allora lui, Micuccio, senza pensarci due volte, l’aveva rotta coi parenti, aveva venduto un poderetto lasciatogli in eredità dallo zio prete, e mandato Teresina a Napoli a compiere gli studi.

             Non l’aveva più riveduta, da allora. Lettere, sì… aveva le sue lettere dal conservatorio e poi quelle di zia Marta, quando già Teresina si era lanciata nella vita artistica, contesa dai principali teatri, dopo l’esordio clamoroso al San Carlo. A pie di quelle tremule incerte lettere raspate alla meglio su la carta dalla povera vecchietta c’eran sempre due paroline di lei, di Teresina, che non aveva mai tempo di scrivere: «Caro Micuccio, confermo quanto ti dice la mamma. Sta’ sano e voglimi bene». Eran rimasti d’accordo che egli le avrebbe lasciato cinque, sei anni di tempo per farsi strada liberamente: erano giovani entrambi e potevano aspettare. E quelle lettere, nei cinque anni già trascorsi, egli le aveva sempre mostrate a chi voleva vederle, per distruggere le calunnie che i suoi parenti scagliavano contro Teresina e la madre. Poi s’era ammalato; era stato per morire; e in quell’occasione, a sua insaputa, zia Marta e Teresina avevano inviato al suo indirizzo una buona somma di danaro: parte se n’era andata durante la malattia, ma il resto egli lo aveva strappato a viva forza dalle mani rapaci dei suoi parenti e ora, ecco, veniva a ridarlo a Teresina. Perché, denari – niente! egli non ne voleva. Non perché gli paressero elemosina, avendo egli già speso tanto per lei; ma… niente! non lo sapeva dire lui stesso, e ora più che mai, lì, in quella casa… – denari, niente! Come aveva aspettato tant’anni, poteva ancora aspettare. Che se poi denari Teresina ne aveva d’avanzo, segno che l’avvenire le si era schiuso, ed era tempo perciò che l’antica promessa s’adempisse, a dispetto di chi non voleva crederci.

             Micuccio sorse in piedi, con le ciglia corrugate, come per raffermarsi in questa conclusione; si soffiò di nuovo su le mani diacce e pestò i piedi per terra.

             – Freddo? – gli disse, passando, il cameriere. – Poco ci vorrà, adesso. Venite qua in cucina. Starete meglio.

             Micuccio non volle seguire il consiglio del cameriere che, con quell’aria da gran signore, lo sconcertava e l’indispettiva. Si rimise a sedere e a pensare, costernato. Poco dopo, una forte scampanellata lo scosse.

             –    Dorina, la signora! – strillò il cameriere infilandosi in fretta e in furia la marsina, mentre correva ad aprire; ma vedendo che Micuccio stava per seguirlo, s’arrestò di botto per intimargli:

             –    Voi state qua; prima lasciate che la avverta.

             –    Ohi, ohi, ohi…  – si lamentò una voce insonnolita dietro la cortina; e, poco dopo, apparve un donnone tozzo, affagottato, che strascicava una gamba e non riusciva ancora a spiccicar gli occhi, con uno scialle di lana fin sopra il naso, i capelli ritinti d’oro.

             Micuccio stette a mirarla allocchito. Anche colei, sorpresa, sgranò tanto d’occhi in faccia all’estraneo.

             – La signora, – ripetè Micuccio.

             Allora Dorina riprese d’un subito coscienza:

             – Eccomi, eccomi… – disse, togliendosi e buttando dietro la cortina lo scialle e adoperandosi con tutta la pesante persona a correr verso l’entrata.

             L’apparizione di quella strega ritinta, l’intimazione del cameriere diedero a un tratto a Micuccio, avvilito, un angoscioso presentimento. Sentì la voce stridula di zia Marta:

             – Di là, in sala! in sala, Dorina!

             E il cameriere e Dorina gli passarono davanti reggendo magnifiche ceste di fiori. Sporse il capo a guardare, in fondo, la sala illuminata e vide tanti signori in marsina, che parlavano confusamente. La vista gli s’annebbiò: era tanto lo stupore, tanta la commozione, che non s’accorse egli stesso che gli occhi gli si erano riempiti di lagrime: li chiuse, e in quel bujo si strinse tutto in sé, quasi per resistere allo strazio che gli cagionava una lunga squillante risata. Era di Teresina? Oh Dio, e perché rideva così, di là?

             Un grido represso gli fece riaprir gli occhi, e si vide davanti – irriconoscibile – zia Marta, col cappello in capo, poveretta! oppressa da una ricca splendida mantiglia di velluto.

             –   Come! Micuccio… tu qui?

             –   Zia Marta… – esclamò Micuccio, quasi impaurito, restando a contemplarla.

             –   Come mai! – seguitò la vecchietta, sconvolta. – Senza avvertire? Che è stato? Quando sei arrivato? Giusto questa sera… Oh Dio, Dio…

             –   Sono venuto per… – balbettò Micuccio, non sapendo più che dire.

             –   Aspetta! – lo interruppe zia Marta. – Come si fa? come si fa? Vedi quanta gente, figliuolo mio? È la festa di Teresina, la sua serata… Aspetta, aspetta un po’ qua…

             –   Se voi, – si provò a dir Micuccio, a cui l’angoscia stringeva la gola, – se voi credete che me ne debba andare…

             –   No, aspetta un po’, ti dico, – s’affrettò a rispondergli la buona vecchietta, tutta imbarazzata.

             –   Io però, – riprese Micuccio, – non saprei dove andare in questo paese… a questa ora…

             Zia Marta lo lasciò, facendogli con una mano inguantata segno d’attendere, ed entrò nella sala, nella quale poco dopo a Micuccio parve si aprisse una voragine; vi s’era fatto d’improvviso silenzio. Poi udì, chiare, distinte, queste parole di Teresina:

             – Un momento, signori.

             E di nuovo la vista gli s’annebbiò, nell’attesa ch’ella comparisse. Ma Teresina non comparve, e la conversazione fu ripresa nella sala. Tornò invece, dopo pochi minuti che a lui parvero eterni, zia Marta senza cappello, senza mantiglia, senza guanti, meno imbarazzata.

             – Aspettiamo un po’ qua, sei contento? – gli disse. – Io starò con te… Adesso si fa cena… Noi ce ne staremo qua. Dorina ci apparecchierà questo tavolino, e ceneremo insieme, qua; ci ricorderemo de’ bei tempi, eh?… Non mi par vero di trovarmi con te, figlietto mio, qua; qua, appartati… Lì, capirai, tanti signori… Lei, poverina, non può farne a meno… La carriera, m’intendi? Eh, come si fa! Li hai veduti i giornali? Cose grandi, figlio mio! Ma io… io, come sopra mare, sempre… Non mi par vero che me ne possa star qua con te, stasera.

             E la buona vecchietta, che aveva parlato parlato, istintivamente, per non dar tempo a Micuccio di pensare, alla fine sorrise e si stropicciò le mani, guardandolo, intenerita.

             Dorina venne ad apparecchiare la tavola, in fretta, perché già di là, in sala, il pranzo era cominciato.

             – Verrà? – domandò cupo, Micuccio, con voce angosciata. – Dico, per vederla almeno.

             – Certo che verrà, – gli rispose subito la vecchietta, sforzandosi di vincere l’impaccio. – Appena avrà un momentino di largo: già me l’ha detto.

             Si guardarono tutt’e due e si sorrisero, come se finalmente si riconoscessero. Attraverso l’impaccio e la commozione le loro anime avevano trovato la via per salutarsi con quel sorriso. «Voi siete zia Marta» – dicevano gli occhi di Micuccio. – «E tu, Micuccio, il mio caro e buon figliuolo, sempre lo stesso, poverino!» – dicevano quelli di zia Marta. Ma subito la buona vecchietta abbassò i suoi, perché Micuccio non vi leggesse altro. Si stropicciò di nuovo le mani e disse:

             –    Mangiamo, eh?

             –    Ho una fame, io! – esclamò, tutto lieto e raffidato, Micuccio.

             –    La croce, prima: qua posso farmela, davanti a te, – aggiunse la vecchietta con aria birichina, strizzando un occhio, e si segnò.

             Il cameriere venne a offrir loro il primo servito. Micuccio stette bene attento a osservare come faceva zia Marta a trarre dal piatto la porzione. Ma quando venne la sua volta, nel levar le mani, pensò che le aveva sporche dal lungo viaggio, arrossì, si confuse, alzò gli occhi a sogguardare il cameriere, il quale, compitissimo ora, gli fece un lieve inchino col capo e un sorriso, come per invitarlo a servirsi. Fortunatamente zia Marta venne a trarlo d’impaccio.

             – Qua qua, Micuccio, ti servo io.

             Se la sarebbe baciata dalla gratitudine! Avuta la porzione, appena il cameriere si fu allontanato, si segnò anche lui in fretta.

             – Bravo figliuolo! – gli disse zia Marta.

             Ed egli si sentì beato, a posto, e si mise a mangiare come non aveva mangiato mai in vita sua, senza più pensare alle sue mani, né al cameriere.

             Tuttavia, ogni qual volta questi, entrando o uscendo dalla sala, schiudeva la bussola a vetri e veniva di là come un’ondata di parole confuse o qualche scoppio di risa, egli si voltava turbato e poi guardava gli occhi dolenti e affettuosi della vecchina, quasi per leggervi una spiegazione. Ma vi leggeva invece la preghiera di non chieder nulla per il momento, di rimettere a più tardi le spiegazioni. E tutt’e due di nuovo si sorridevano e si rimettevano a mangiare e a parlare del paese lontano, d’amici e conoscenti, di cui zia Marta gli domandava notizie senza fine.

             – Non bevi?

             Micuccio stese la mano per prendere la bottiglia; ma, in quella, la bussola della sala si riaprì; un fruscio di seta, tra passi frettolosi, uno sbarbaglio, quasi la cameretta si fosse d’un tratto violentemente illuminata, per accecarlo.

             – Teresina…

             E la voce gli morì sulle labbra, dallo stupore. Ah, che regina!

             Col volto in fiamme, gli occhi sbarrati, la bocca aperta, egli restò a contemplarla, istupidito. Come mai ella… così? Nudo il seno, nude le spalle, le braccia nude,., tutta fulgente di gemme e di stoffe… Non la vedeva, non la vedeva più come una persona viva e vera davanti a sé. Che gli diceva? Non la voce, né gli occhi, né il riso: nulla, nulla più riconosceva di lei, in quell’apparizione di sogno.

             – Come va? Stai bene ora, Micuccio? Bravo, bravo… Sei stato malato, se non m’inganno… Ci rivedremo tra poco. Tanto, qui hai con te la mamma… Siamo intesi, eh?

             E Teresina scappò via in sala, tutta frusciante.

             – Non mangi più? – domandò timorosa, poco dopo, zia Marta per rompere lo sbalordimento di Micuccio.

             Questi si voltò appena a guardarla.

             – Mangia, – insistette la vecchia indicandogli il piatto.

             Micuccio si portò due dita al colletto affumicato e spiegazzato e se lo stirò, provandosi a trarre un lungo respiro.

             – Mangiare?

             E agitò più volte le dita presso il mento, come se salutasse, per significare: non mi va più, non posso. Stette ancora un pezzo silenzioso, avvilito, assorto nella visione di poc’anzi, poi mormorò:

             – Come s’è fatta…

             E vide che zia Marta scoteva amaramente il capo e che aveva sospeso di mangiare anche lei, come se aspettasse.

             – Ma neanche a pensarci più… – aggiunse poi, quasi tra sé, chiudendo gli occhi.

             Vedeva ora, in quel suo bujo, l’abisso che s’era aperto tra loro due. No, non era più lei – quella lì – la sua Teresina. Era tutto finito… da un pezzo, da un pezzo ed egli, sciocco, egli stupido, se n’accorgeva solo adesso. Glielo avevano detto là al paese, e lui s’era ostinato a non crederci… E ora, che figura ci faceva a star lì, in quella casa? Se tutti quei signori, se quel cameriere stesso avessero saputo che egli, Micuccio Bollavino, s’era rotte le ossa a venire di così lontano, trentasei ore di ferrovia, credendosi sul serio ancora il fidanzato di quella regina, che risate, quei signori e quel cameriere e il cuoco e il guattero e Dorina! Che risate, se Teresina lo avesse trascinato al loro cospetto, lì in sala, dicendo: «Guardate, questo poveretto, sonator di flauto, dice che vuol diventare mio marito!». Glielo aveva promesso lei stessa, è vero; ma come avrebbe potuto allora supporre che un giorno sarebbe divenuta così? Ed era anche vero, sì, che egli le aveva schiuso quella via e le aveva dato modo d’incamminarvisi; ma ecco, ella era ormai arrivata tanto, tanto lontano, che egli, rimasto lì, sempre lo stesso, a sonare il flauto le domeniche nella piazza del paese, come avrebbe più potuto raggiungerla? Neanche a pensarci… E che cos’erano poi quei pochi quattrinucci spesi allora per lei, divenuta adesso una gran signora? Si vergognava solo a pensare che qualcuno potesse sospettare che egli, con la sua venuta, volesse accampar qualche diritto per quei pochi quattrinucci miserabili. Gli sovvenne in quel punto di avere in tasca il denaro inviatogli da Teresina durante la malattia. Arrossì: ne provò onta, e si cacciò una mano nella tasca in petto della giacca, dove era il portafogli.

             –    Ero venuto, zia Marta, – disse in fretta, – anche per restituirvi questo denaro che mi avete mandato. Che ha voluto essere, pagamento? restituzione? Vedo che Teresina è divenuta una…, sì, mi pare una regina! vedo che… niente! neanche a pensarci più! Ma, questo denaro, no: non mi meritavo questo da lei… È finita, e non se ne parla più… ma, denari, niente! Mi dispiace solo che non sono tutti…

             –    Che dici, figliuolo mio? – cercò d’interromperlo, afflitta e con le lagrime a gli occhi, zia Marta.

             Micuccio le fé’ cenno di star zitta.

             –    Non li ho spesi io: li hanno spesi i miei parenti, durante la malattia, senza ch’io ne sapessi nulla. Ma vanno per quella miseria che spesi io allora… vi ricordate? Non ci pensiamo più. Qua c’è il resto. E io me ne vado.

             –    Ma come! Così di furia? – esclamò zia Marta, cercando di trattenerlo. – Aspetta almeno che lo dica a Teresina. Non hai sentito che voleva rivederti? Vado a dirglielo…

             –    No, è inutile, – le rispose Micuccio, deciso. – Lasciatela star lì con quei signori; lì sta bene, al suo posto. Io, poveretto… L’ho veduta; m’è bastato… O piuttosto, andate pure… andate anche voi di là… Sentite come si ride? Io non voglio che si rida di me… Me ne vado.

             Zia Marta interpretò nel peggior senso quella risoluzione improvvisa di Micuccio: come un atto di sdegno, un moto di gelosia. Le sembrava ormai, poverina, che tutti – vedendo sua figlia – dovessero d’un tratto concepire il più tristo dei sospetti, quello appunto per cui ella piangeva inconsolabile, trascinando senza requie il suo cordoglio segreto fra il tumulto di quella vita di lusso odioso che disonorava sconciamente la sua stanca vecchiaja.

             –    Ma io, – le scappò detto, – io ormai non posso più farle la guardia, figliuolo mio…

             –    Perché? – domandò allora Micuccio, leggendole a un tratto negli occhi il sospetto ch’egli non aveva ancora avuto; e si rabbujò in volto.

             La vecchietta si smarrì nella sua pena e si nascose la faccia con le mani tremule, ma non riuscì a frenar l’impeto delle lagrime irrompenti.

             –    Sì, sì, vattene, figliuolo mio, vattene… – disse soffocata dai singhiozzi. – Non è più per te, hai ragione… Se mi aveste dato ascolto!

             –    Dunque, – proruppe Micuccio chinandosi su lei e strappandole a forza una mano dal volto. Ma fu tanto accorato e miserevole lo sguardo con cui ella gli chiese pietà portandosi un dito su le labbra, che egli si frenò e aggiunse con altro tono, forzandosi a parlar piano: – Ah, lei dunque, lei… lei non è più degna di me. Basta, basta, me né vado lo stesso… anzi, tanto più, ora… Che sciocco, zia Marta: non l’avevo capito! Non piangete… Tanto, che fa? Fortuna, dicono… fortuna…

             Prese la valigetta e il sacchettino di sotto la tavola, e s’avviava per uscire, quando gli venne in mente che lì, dentro il sacchetto, c’eran le belle lumìe ch’egli aveva portato a Teresina dal paese.

             – Oh, guardate, zia Marta, – riprese.

             Sciolse la bocca al sacchetto e, facendo riparo d’un braccio, versò quei freschi frutti fragranti sulla tavola.

             –    E se mi mettessi a tirare tutte queste lumìe, – soggiunse, – su la testa di quei galantuomini là?

             –    Per carità, – gemette la vecchia tra le lagrime, facendogli un nuovo cenno supplichevole di tacere.

             –    No, niente, – riprese Micuccio, ridendo acre e rimettendosi in tasca il sacchetto vuoto. – Le avevo portate a lei; ma ora le lascio a voi sola, zia Marta.

             Ne prese una e la accostò al naso di zia Marta.

             – Sentite, zia Marta, sentite l’odore del nostro paese… E dire che ci ho anche pagato il dazio… Basta. A voi sola, badate bene… A lei dite così: «Buona fortuna!» a nome mio.

             Riprese la valigetta e andò via. Ma per la scala, un senso d’angoscioso smarrimento lo vinse: solo, abbandonato, di notte, in una grande città sconosciuta, lontano dal suo paese; deluso, avvilito, scornato. Giunse al portone, vide che pioveva a dirotto. Non ebbe il coraggio d’avventurarsi per quelle vie ignote, sotto quella pioggia. Rientrò pian piano, rifece una branca di scala, poi sedette sul primo scalino e appoggiando i gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani, si mise a piangere silenziosamente.

             Sul finir della cena, Sina Marnis fece un’altra comparsa nella cameretta. Vi trovò la mamma che piangeva anche lei, sola, mentre di là quei signori schiamazzavano e ridevano.

             – È andato via? – domandò, sorpresa.

             Zia Marta accennò di sì col capo, senza guardarla. Sina fissò gli occhi nel vuoto, assorta, poi sospirò:

             – Poverino…

             Ma subito dopo le venne di sorridere.

             –    Guarda, – le disse la madre, senza frenar più le lagrime col tovagliolo. – Ti aveva portato le lumìe…

             –    Oh, belle! – esclamò Sina, con un balzo. Strinse un braccio alla vita e ne prese con l’altra mano quanto più poteva portarne.

             –    No, di là no! – protestò vivamente la madre. Ma Sina scrollò le spalle e corse in sala gridando:

             –    Lumìe di Sicilia! Lumìe di Sicilia!

Raccolta Il vecchio Dio
01 – Il vecchio Dio – 1901
02 – Tanino e Tanotto – 1902
03 – Al valor civile – 1902
04 – La disdetta di Pitagora – 1903
05 – Quand’ero matto… – 1902
06 – Concorso per referendario al Consiglio di Stato – 1902
07 – «In corpore vili» – 1895
08 – Le tre carissime – 1894
09 – Il vitalizio – 1915
10 – Un invito a tavola – 1902
11 – La levata del sole – 1901
12 – Lumìe di Sicilia – 1900

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