Di Davide Zazzini.
Pirandello ritocca sempre a partire dall’ultimissima versione disponibile e direttamente sulle edizioni a stampa, per cui pochissimi interventi colpiscono i manoscritti autografi, peraltro quasi tutti scomparsi.
Luigi Pirandello: Novelle per sempre
Poco prima degli anni 20 del Novecento Pirandello, smessi almeno ufficialmente i panni del critico letterario, si dedica convintamente alla revisione delle sue novelle per pubblicare con la casa editrice fiorentina Bemporad per la prima volta una silloge unitaria. Tra nuove storie e continue revisioni, tra bisogno di espansione ed esigenza di riscrittura che resiste anche al fascino esclusivizzante di altri generi come il romanzo, il teatro o la sceneggiatura cinematografica, vengono vagliati tutti i racconti già scritti e ne sono aggiunti costantemente dei nuovi in un processo generativo senza fine, che va dalla giovinezza (il primo abbozzo cade nel 1884: La Capannetta, apparsa sul quotidiano torinese La Gazzetta del popolo), fino alla morte nel 1936, ma in verità anche oltre con le pubblicazioni postume del 1937. La novellistica, come detto, è lo spazio letterario prediletto sin dalla gioventù e mai abbandonato nemmeno per assecondare lo straordinario successo che intanto hanno le sue rappresentazioni teatrali in Italia e in Europa. E finalmente dal 1922 i vari racconti cominciano a circolare uniti: fino al 1935 vengono pubblicati in ben quindici volumi, nel grande progetto unico delle Novelle per un anno: il risultato è un caleidoscopio variegatissimo e cangiante di storie con intarsi veristi e simbolisti, uno al giorno, per tutto l’anno solare, per tre lustri, presentando scene assolutamente familiari e quotidiane trasfigurate dalla forza corrosiva dell’ironia in una dimensione inaspettata e grottesca. La novella, infatti, “per la sua brevità, per la condensazione della narrazione, per la possibilità di protrarre il paradosso… di presentare un personaggio sghembo e di conservalo così fino alla conclusione” (Franca Angelini) sopporta un altissimo tasso di sperimentazione, ed è adattissima all’esigenze di satira sociale e di umorismo, oltre che in grado di assorbire ed amalgamare più influenze letterarie senza mai perdere di vista la linearità dell’intreccio.
Tra tutte, sembrano due le forze propellenti dell’incessante labor limae che affianca le pubblicazioni: da una parte c’è il bisogno “soggettivizzare” questo calderone di storie, di rendere la propria coscienza il centro di analisi e rifrazione del mondo facendo gravitare sempre il narrato attorno ai propri ideali di vita; dall’altra è vivissima l’esigenza di efficacia stilistica e immediatezza nei contenuti. Se guardiamo al metodo di intervento, ogni fase redazionale sembra essere concepita come un sistema a sé, per cui correzioni (stilistico-narrative, discorsive o tematico-descrittive che siano) avvengono sempre alla fine, a novella pubblicata: Pirandello ritocca sempre a partire dall’ultimissima versione disponibile e direttamente sulle edizioni a stampa, per cui pochissimi interventi colpiscono i manoscritti autografi, peraltro quasi tutti scomparsi. Sicuramente la perdita delle carte originali ad oggi riamane un ostacolo spesso insormontabile per ricostruire con chiarezza tutte le fasi compositive, anche se preziosissimi per la ricostruzione indiretta delle fasi redazionali rimangono i vari Epistolari privati, pieni di rimandi letterari e intellettuali, dove fioccano confessioni di rielaborazioni, segnali di dubbi metodici e indizi di mutamenti ideologici.
Alla base del continuo processo di riscrittura, infatti, vivono profondi convincimenti etici che fanno traslare continuamente la prospettiva di significato di ogni singolo testo e, di conseguenza, la sua ricezione di pubblico. Ad una analisi più approfondita, infatti, non sfuggirà che spesso fabula ed intreccio vengono “stuccate” per farsi portatrici di una visione ideologica se non completamente nuova, in parte corretta. Qualche numero per quantificare senso e portata degli interventi: delle 238 novelle pubblicate, 35 sono rielaborate a più livelli e spesso più di una volta, di cui ben dodici prima del 1900, anche se una percentuale sorprendentemente bassa di queste confluirà nelle Novelle per un anno (solo il 20%) ; quello che va dal 1900 al 1909, inoltre, è un periodo particolarmente fecondo: ben 84 novelle pubblicate, di cui solo 13 sono passate al setaccio, sintomo di una maggiore soddisfazione per gli esiti artistici raggiunti ; il decennio successivo fino al 1920 rafforza questa tendenza: tantissime novelle pubblicate, pochissime riscritte per intero, sintomo anche questo di una padronanza stilistica e contenutistica ancora maggiore, a predominare, infatti, sono correzioni di singoli passaggi e non revisioni strutturali.
Importante in questo senso è lo spartiacque del 1919: dopo la Grande Guerra Pirandello è nel pieno dei preparativi per una raccolta finalmente organica e da questo momento comincerà le revisioni con una frequenza mai registrata prima. Il processo di attualizzazione delle novelle ha spesso come conseguenza diretta l’eliminazione degli elementi immediatamente comici, subito riassemblati in una più amara dimensione satirico-umoristica. Non solo, ma il trauma della Prima Guerra Mondiale innesca anche un nuovo impulso alla revisione per poter dare ai personaggi e alle situazioni descritte una coloritura più impressionistica, vibrante e vitale: gli interventi amplificano tutte le possibilità sensoriali, coloristiche e olfattive del testo, ridimensionando evasioni astratte e ruminamenti filosofeggianti che avevano innervato ampiamente ad esempio, il versante dei romanzi primo-novecenteschi come Il fu Mattia Pascal (1904).
Analizzando, poi, gli intervalli di tempo tra una revisione e l’altra, si nota come 1/3 delle novelle sono riscritte abbastanza presto, non più di sette anni dopo la loro prima pubblicazione e che solo in 16 casi il periodo di decantazione si allunga: per queste altre passano minimo 15 e massimo 26 anni prima dei ritocchi. Ma non mancano anche revisione perpetue: Nonno Bauer esce per la prima volta 1897 su Il Marzocco e viene riplasmata continuamente tra il 1902 e il 1919 per essere pubblicata definitivamente nel sesto volume di Novelle per un anno nel 1923 con il titolo Il giardinetto lassù. Tra due ombre, poi, dalla sua prima pubblicazione (1° gennaio 1907 su Il Marzocco) conoscerà altre due fasi di riscrittura nel 1921 e nel 1923. Sole e Ombra, infine, è uno degli esempi emblematici di rielaborazione continuata: novella giovanile, pubblicata molto presto (Rassegna settimanale universale, 1° novembre 18961), viene rivista senza sosta dal 1902, cambiando progressivamente l’intreccio, entrando in Novelle per un anno nel 1922 e pubblicata poi postuma nel 1937.
Se infatti è indubitabile la lealtà del suo autore al nucleo tematico di fondo della novella, che raramente viene snaturato, ci sono continui assestamenti di opere sentite in continuo divenire, mai definitivamente compiute, ma sempre perfettibili, pur non tradendo mai le leggi di coerenza interiore e comprensibilità del testo; emerge anche un più completo e sfaccettato approfondimento psicologico dei personaggi che ne smaschera implacabilmente debolezze e contraddizioni comportamentali.
Si pensi a Salvazione, prima pubblicazione sempre ne Il Marzocco nel 1899, che nel 1902 entra in Quand’ero matto, Streglio, Torino e che nel 1923 diventa La Maestrina Boccamè: sin dal titolo la semplificazione cerca una focalizzazione maggiore verso il protagonista, assecondata anche da una sforbiciata di parecchie pagine al personaggio maschile Tito Sbronzi ed ad una valorizzazione delle descrizioni paesaggistico-ambientali: nell’edizione del 1923 sotto una nuova luce leggiamo la descrizione iniziale di Porto Empedocle: ora è diventata più impressionistica, pittorica, quasi oleografica, e filtrata sempre dall’emotività del personaggio perché figlia di un processo costante di focalizzazione interna, di ricerca dell’interiorità. Anche il finale viene riscritto con una più vena umoristica: la maestrina, rimasta ormai sola, pensa incessantemente al suo primo amore, che non ha più memoria di lei, a cui ha deciso di affidare tutta la sua vita, tutte le diecimila lire conservate nella Cassa di Risparmio. Il sentimento, rimasto intatto nel tempo, è sconfinato ora in un’adorazione disarmata per quello che rimane uno dei momenti più emotivamente forti della sua scialba esistenza: la maestrina è emozionata e profondamente scossa, la scena si sta facendo sempre più patetica, così il narratore nelle ultimissime righe decide di smorzare il profluvio pietistico con una certa dose di umorismo distaccato e apparentemente bonario: ecco allora comparire uno specchio con cui vediamo, non visti, la bocca smunta e il mento traballante della donnina pronta a scoppiare in lacrime; con uno stacco prospettico ed una rifrazione visuale che capovolge la prospettiva visiva del lettore, siamo usciti dalla coscienza del personaggio e grazie allo specchio lo abbiamo visto da fuori, né siamo più obbligati a solidarizzare con lui, ma chiamati a riflettere sulla debolezza morale e sull’incomunicabilità emotiva del genere umano in sé, a prescindere dai suoi singoli interpreti. Per cui il lettore, che conosceva la storia delle prime pubblicazioni, può rimanere sorpreso e straniato dato che lo scenario ora è cambiato: non più una coloritura pietistica con una conclusione su un’unica, misera prospettiva, interna alla signorina Boccarmè, ma lo scorcio di uno spazio nuovo da un angolo visivo più ampio che, uscito dall’identificazione passiva con il personaggio, è chiamato a occupare da sé per ripensare in extremis tono e significato dell’intera novella.
Anche Notizie del mondo subisce un cambiamento nel finale: se nella prima pubblicazione (Rivista d’Italia 1901) è l’Io narrante che, dopo la morte del suo fraterno amico Momo, decide di sposare la sua giovane vedova, nell’edizione del 1922 resiste alla tentazione e se ne distacca, preferendo la fedeltà al sentimento di amicizia oltre la morte. Questo perché l’autore ha preso nel frattempo coscienza degli esiti potenzialmente devastanti della passione al di fuori delle convenzioni (o costrizioni) che la società impone all’individuo (tema fecondissimo in tutta la letteratura occidentale e non estraneo, ovviamente, anche all’esperienza verista) a tal punto da sacrificarli sull’altare del buoncostume. Perciò alla “castrazione” erotica del personaggio, si allinea la castrazione delle potenzialità eversive della scrittura, che si risemantizza ossequiosamente dentro il recinto della morale borghese, rifiutando, coerentemente con tutta la poetica dello scrittore girgentano, di farsi vessillifera di una ideologia sentimentale più libertaria e sovversiva. Tale “correzione” affonda a ben vedere le radici in convinzioni pessimistiche sulla natura umana e sulle possibilità gnoseologiche ad essa concesse maturate da Pirandello: se le certezze conoscitive si sgretolano a tal punto da imbrigliare la vita ad antiche leggi sociali convenzionali ed inflessibili, il lettore stesso non può (più) affidarsi alle certezze etiche della voce narrante, che perde definitivamente il suo potere oracolare: l’IO pirandelliano non ha più nessun senso oggettivo da offrire al pubblico, nessun baluardo cui aggrapparsi nel marasma della contemporaneità, così anche i suoi desideri naturali si annientano nello scontro con le leggi sociali, arrivando inconsciamente perfino a difenderla e replicare il suo potere omologativo.
Anche a livello stilistico-lessicale la scrittura sembra piegarsi ad un vento di sobrio conservatorismo, livellando influenze letterarie italiane ed europee per conformarsi ad un registro uniforme e medio, senza arabeschi e scintillii letterari che allontanerebbero il lettore da una piena immersione nel narrato. Ogni stadio di rielaborazione cerca una lingua limpida e piana, comprensibile da tutti, a tutte le latitudini del Paese e traducibile anche all’estero, fino ad essere celebrata dalla critica come “il primo esempio di koinè italiana” (Gianfranco Contini). Questo perché il tono “medio”, pur tollerando inserti dialettali, apporti da lingue straniere o prestiti isolati da lingue speciali, non ha altro scopo se non quello di rappresentare l’immediatezza del parlato e la vita interiore dei personaggi senza filtro, così nelle novelle, come anche nei romanzi (esempio mirabile è in questo senso Uno nessuno e centomila) e nel teatro.
Si può concludere pertanto che le varie riscritture testimoniano un’idea della composizione come un atto creativo aperto per natura e continuamente perfettibile che tiene in vita per decenni la storia raccontata. Il testo è inteso come un magma vivo ed incandescente, sempre pronto a prendere forme nuove, per cui al variare di elementi tematici o strutturali, variano e si ricalibrano continuamente le traiettorie semantiche di tutto il racconto. Le novelle, se sono un campo di forze aperto elementi nuovi e vecchi che entrano nel foglio e lì sono messi continuamente a reagire, diventano così un cantiere aperto per natura; ad un attento esame filologico delle fasi di redazione non potrà sfuggire, infatti, che l’ultima edizione spesso non è più sovrapponibile alla prima a stampa della stessa novella, per cui la revisione è diventata un nuovo atto di creazione, una (ri)nascita della storia, sempre attuale eppure antichissima, che testimonia ad ogni nuovo stadio raggiunto la ramificazione genealogica dal suo primo progenitore. Pertanto è utile pensare alle novelle non come ad un forziere letterario fissato una volta per tutte, ricoperto di ceralacca, ma come uno dei segni più splendenti di una fucina artistica che l’autore non smette mai di forgiare, creando da un canovaccio di base, mille altri sentieri narrativi per far corrispondere sempre la materia artistica al progredire del suo pensiero etico-politico.
Fonti bibliografiche:
Franca Angelini, Il teatro del Novecento da Pirandello a Fo, Bari, Laterza, 1960;
Gianfranco Contini (a cura di), Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1997;
Alberto Asor Rosa, Breve storia della letteratura italiana, volume II, Roma, G. Einaudi, 2013.
Davide Zazzini
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