Luigi Pirandello e le biblioteche

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Indubbiamente narratore e drammaturgo più che poeta, sono emerse alla luce le letture che hanno condotto Pirandello a formulare una sua teoria del Personaggio umoristico, e di qui alla teatralizzazione della narrativa.

Indice Tematiche

Luigi Pirandello e le biblioteche

Luigi Pirandello e le biblioteche

da Internet Culturale

Versione digitale mostra Roma
Teatro dei Dioscuri – 7 nov. – 31 dic. 1996 

Indice

1. Ginnastica da camera: le letture di Pirandello
2. Metrica e poesia

3. Il Giudizio su Pascoli
4. Contro D’annunzio
5. I Dioscuri del Regime
6. Pirandello Dantista
7. O poeta o filologo: la vocazione letteraria
8. L’amore per il teatro
9. Pirandello e i libri
10. Il via vai dei libri
11. Il cacciatore di parole

1. Ginnastica da camera: le letture di Pirandello

Del terribile terremoto che colpisce Messina nel dicembre 1908, radendola quasi al suolo, s’avvertono i contraccolpi anche a Girgenti. Pirandello é lí, come sempre al lavoro, curvo sulle sue carte, quando i libri sistemati alla rinfusa negli scaffali precipitano sulla sua metodica solerzia di narratore:

«Mio padre ci racconta d’esser rimasto fra il tavolo e due scaffali di libri che alternativamente gli venivano addosso con tutto il peso dei volumi. Dava una spinta a questo e dietro front per tenere su l’altro di turno per cinque minuti buoni. Una ginnastica da camera da cui non c’era verso di esimersi».

E quanto riporta il figlio Fausto, offrendoci non col pennello, ma con la memoria partecipe, un ritratto del padre sorpreso mentre si difende da un crollo rovinoso e per noi simbolico. Innumerevoli testimonianze ci restituiscono infatti un Pirandello davvero assediato, fra cumuli di carte, dai libri in bilico sullo scrittoio.
Ma i libri, col terremoto, si direbbero in rivolta, proprio come i Personaggi del suo più celebre dramma, tanto da contraddire chi ha in diverse occasioni sostenuto che si legge con frutto solo negli anni della giovinezza, quando l’artista é in formazione. In seguito, «sincerità» e «originalità» (capisaldi della poetica di Pirandello) dovranno avere la meglio in una sorta di ruminazione solitaria, dove immagini e idee altrui inquinerebbero senz’altro la vasta orma inconfondibile che egli intende stampare.

D’obbligo la presa di distanza dalle letture «nutrici». In teoria, però, e non in pratica; perché, nonostante che la sua opera possa apparire «una delle più povere di innesti letterari», basterebbe a smentire tale opinione il secondo atto dell’Enrico IV, ai limiti del plagio, visto che si chiude con la replica, alla lettera, di un manuale di storia. Senza togliere neppure una foglia alla corona d’alloro che spetta a Pirandello, il saggista, il narratore o il drammaturgo non si privano di un ben attrezzato laboratorio, in modo che la «fonte» é spesso individuabile nella sua pagina, riga dopo riga, battuta dopo battuta, con una trasparenza che talora s’impone.
Se mai, discostandosi in parte dai grandi coevi – Pascoli e d’Annunzio – Pirandello non aderisce alla cosiddetta cultura delle «fonti», e fin dagli anni universitari si piegherà controvoglia alla filologia erudita della Scuola storica allora dominante.
Tuttavia, l’insanabile divario tra i faticosi studi specialistici e la libera creazione artistica sembra più che altro una posa, ben presto smentita dai primi esiti letterari, senza contare che il debuttante giungerà persino a censurare gli scrittori «digiuni di fílologia». Dovremo perciò eludere in molti casi le affermazioni di Pirandello: alle sue spalle, quando i documenti lo consentono, é possibile verificare a oltranza il contrario di ciò che dichiara perentorio. Si dirà addirittura nauseato, per esempio, dalla narrativa «alla slava» di moda nei primi anni ’90, che taccia di scompostezza e di morbosità; ed ecco che invece non sa resistere, benché costretto a ligie economie, all’acquisto di un «capolavoro del Tolstoi»:

«L’altro giorno, per non dire varfantarie [menzogne], ho speso L. 2 per un libro. Non ce ne avevo in tasca, perché esco sempre senza soldi, e ho dovuto farmele prestare da Giovannino Lauricella, non sapendo resistere alla tentazione di comprare La morte di Ivan Ilitsch, capolavoro del Tolstoi».

E per sua stessa ammissione, si sa che Dostoevskj entra nel novero delle letture capitali:

«[…] riconosce di aver avuto le impressioni più forti dai russi: Dostoevskj».

Non si deve dunque dar credito al Pirandello che offre della propria officina un’immagine coincidente col suo tormentato e affollato cervello.

2. Metrica e poesia

Indubbiamente narratore e drammaturgo più che poeta, sono emerse alla luce le letture che hanno condotto Pirandello a formulare una sua teoria del Personaggio umoristico, e di qui alla teatralizzazione della narrativa. Un poco in ombra resta invece l’officina del poeta, che si picca di esserlo anche contraddicendo (umoristicamente) le proprie attitudini. Così, rammaricandosi di esercitare – come dice – la «professione di novellaro», lamenta la scarsa fortuna della sua poesia presso gli editori:

«nessuno pensa più che cominciai da poeta».

E dire che al tempo di queste battute – siamo nel 1904 – sembra essersi messo infine il cuore in pace. Non si era però ancora rassegnato ai ripetuti dinieghi quando pativa l’impossibilità di dare alle stampe la raccolta Labirinto: confessa di «struggersene», cercando in ogni modo di spianare la via al libro, forse anche con uno scritto di metrica militante, al quale deve avere dato mano visto che si diffonde con Adolfo Orvieto intorno allo studio «rivoluzionario» che propone al «Marzocco» nel 1901:

«[…] Le invio la prima parte d’un articolo, in cui ho raccolto la parte polemica d’un mio lungo studio su la Metrica, che mi costa parecchi anni di assiduo lavoro. Mi sembra che questo articolo possa vivamente interessare tutti i cultori di poesia, e non debba passare inosservato. E’ addirittura rivoluzionario! E sarà come una iniezione di ossigeno, alla maniera del dott. Ox, ai parrucconi della scienza metrica.
Se questa prima parte Le piace, mi affretterò a mandarLe la seconda, prima di sabato».

Si direbbe che gli prema la pubblicazione urgente della sua Metrica, d’altronde accolta con favore dalla rivista, perché la seconda puntata giunge poco dopo a Firenze, precisandosi ora anche il titolo dell’annoso lavoro, polemico fino alla provocazione:

«mi affretto a rimetterLe la seconda parte dell’articolo Il ritmo nella poesia. Vedrà che farò strillare certamente qualcuno. Ho dubitato per un momento che questo mio studio non fosse acconcio al nostro Periodico, ma poi ho detto a me stesso: – O perché il Marzocco, così vivo e battagliero in tanti altri campi, non dovrebbe esserlo pure in quello dell’erudizione? Erudizione, per modo di dire: lo studio, come Ella vede, é tutto contro l’erudizione dei parrucconi, e si fa forte delle leggi della natura.
Mi resta ancora da mandarLe la terza ed ultima parte; e lo farò sui primi della settimana ventura».

Non resta traccia, purtroppo, del lungo saggio, né le lettere successive ai fratelli Orvieto torneranno sull’impresa battagliera, di cui é davvero inverosimile che nulla sia rimasto: non verrà riesumata neppure in Arte e scienza, il volume di saggi che nel 1908, in tutta fretta, Pirandello allestisce per l’ assegnazione della cattedra ordinaria, riproponendo lavori anche antichi. Puntuali digressioni intorno alla metrica non mancano comunque fra quelle pagine, a cominciare da un paragrafo contenuto nel saggio d’apertura che dà il titolo al libro, «come usa in Francia», rileverà un poco velenoso uno dei commissari. Discorrendo delle «regole istintive» della creazione artistica, Pirandello si rivolge esemplarmente a quelle del verso, appoggiandosi a uno dei suoi grandi maestri, il grecista Fraccaroli. Dalla sua viva voce, l’allievo ha appreso nell’ateneo palermitano i principi D’una teoria razionale di metrica italiana, edito proprio nell’anno, il 1887, del suo noviziato universitario. E con note di lettura la preziosa guida alla versifícazione si conserva nella Biblioteca del Pirandello che a quelle pagine torna senz’altro allorché gli accade di riferirsi alle «sillabe lunghe» o al «ritmo anapestico».
Lettore e seguace di Tommaseo, che sostiene i vantaggi dell’assonanza rispetto alla rima, Pirandello predilige però i versi rimati.

3. Il Giudizio su Pascoli

E’ in una lettera di Pirandello a Mastri che compare il doppio bersaglio – Pascoli e d’Annunzio – della sua polemica di sempre:

«Lasci ad altri parentetiche e interrogative retoriche, le lasci pure a Pascoli e d’Annunzio, la cui arte, com’Ella sa, detesto (avrò torto!) con tutte le forze dell’anima: quella del Pascoli per una ragione, quella di d’Annunzio per centomila. L’uno mi dà l’asma, l’altro… – ma forse non siamo d’accordo su questo giudizio, caro Mastri. Ma non importa, ciascuno per la sua via, nella libertà dell’arte».

Un aggiustamento di tiro, a questo punto, s’impone almeno per Pascoli. La cerchia del «Marzocco», alla quale Mastri appartiene, va sostenendo il poeta romagnolo specie tramite Gargano, e non sarà il caso di infierire contro interlocutori che gli premono. Tiene perciò a precisare:

«Riconosco, badi, pregi d’ispirazione sincera e anche di fattura, nel Pascoli, ma non mi pare che bastino a compensare i gravissimi difetti. L’originalità di questo poeta mi sembra in gran parte accattata, cercata faticosissimamente con mezzucci di forma, strambi, astrusi, e giocolamenti di stile e scherzetti d’ombre».
Insomma, ecco molto in anticipo le riserve di Croce, e quelle di d’Annunzio, che discorrendo un giorno con il romagnolo Mussolini darà di Pascoli questa lapidaria definizione: «grandissimo poeta del meschino arzigogolo e perfin del bisticcio peregrino».

Ma con alcuni correttivi, limitatamente al Pascoli, l’opinione di Pirandello andrà mitigandosi nel tempo. Lo testimoniano innanzitutto Le canzoni di re Enzio fittamente annotate (e istoriate), superstiti nella sua Biblioteca; e una pagina del prediletto Micheli (Letteratura che non ha senso, 1900) ricopiata dall’autore dell’Umorismo dove una myrica viene presa quale esempio di poesia favolosa.
Per memorizzare il passo Pirandello produce così quegli innumerevoli foglietti scambiati spesso per suoi, contenenti cioè sue osservazioni, e che viceversa appartengono al laboratorio del prensile lettore.
Degno di nota anche un ultimo segnale del giudizio che si é via via mitigato: l’accesso, finalmente, alla repubblica delle lettere smussa le punte polemiche e il Pirandello dei Sei personaggi é disposto a concessioni benevole. Egli certo nega di appartenere alla schiera dei decadenti (un tempo diceva «cascanti») ormai obsoleti, fra i quali, tuttavia, Pascoli resta il più attuale. Siamo al 4 dicembre 1921 quando il drammaturgo celebrato risponde alla recensione dei Sei personaggi procurata per il «Convegno» da Eugenio Levi:

«Lei crede che la mia arte sbocchi “fatalmente in quella che in senso largo si può chiamar decadema” e che sia da collocare “tra le varie esperienze per cui é passato lo spirito italiano nell’ultimo ottocento”, e pone quello che chiama il mio nichilismo tra le varie avventure, che oggi ci sembrano così lontane, del verismo asimbolico di Verga, dell’estetismo furente del d’Annunzio e dell’impressionismo crepuscolare del Pascoli.
Ebbene no, caro Levi, sembrano così lontani anche a me – lontanissimi – il Verga e il d’Annunzio. Forse un po’ meno il Pascoli, la cui angosciata sensibilità può sonare ancora “attuale” . Come vuol mettermi tra loro? in un’avventura di “ieri”? Sono purtroppo e “senza alcun sospetto” nell’avventura “d’oggi” e “di domani” Guardi me l’ha detto, or è poco, e fatto vedere e toccare con mano il Tilgher parlando dei “relativisti contemporanei”, tra i quali mi mette e tra i quali con mia grande sorpresa mi son dovuto riconoscere, tardi apprendendo ciò che essi dicono, e che é proprio lo stesso – o su per giù – di quanto ho detto e séguito a dire io, senz’avere la più lontana notizia di loro, perché da me solo e dai tormenti del mio spirito e dalle tragiche oscure esperienze della mia vita, illuminata dal mio solo intelletto, é venuta questa mia coscienza del mondo.
La quale, mi permetta di dirLe, caro Levi, non é per nulla nichilista, come a Lei pare perchè ritorna per necessità, inevitabilmente all’Assoluto, che solo per necessità “appare” negato in quanto é l’Infinito che necessariamente “si finisce” in forme, che non sono un male di cui ci si debba “liberare”, ma la “vita” (o il male della vita, se Lei vuole) che è da soffrire inevitabilmente, in questo “esilio” della forma».

4. Contro D’annunzio

Pascoli è morto da un pezzo, non ancora sessantenne; d’Annunzio invece é tutt’altro che liquidabile nel 1921: alla fine dell’anno, con la data simbolica del 4 novembre uscirà, il Notturno «comentario delle tenebre» al quale non mancano i connotati di una dirompente modernità. E non a caso é un best-sellers.
Così, anche dopo la morte di Pascoli, e anche dopo i correttivi che non fanno che decantare, in fondo, l’antico giudizio espresso intorno a Myricae, Pirandello non riuscirà ad affrancarsi dalla convinzione del «complotto» ordito contro di lui. L’intramontabile d’Annunzio fa rivivere Pascoli. Se il Vate usurpatore ora domina il campo, incontrastato Pirandello non dimentica che i due «fratelli» amici e nemici si sono tenuti bordone a vicenda, escludendolo.
Ancora ai soliti foglietti di laboratorio occorre rivolgersi per imbattersi nello sfogo aperto di un risentimento sempre vivo . Non datati, gli appunti si collocano dopo il 1912 l’anno della morte di Pascoli, ma forse prima del 1915, data l’assenza di ogni accenno al poeta soldato che cercherà di riscattare il discutibile divismo di sempre vestendo i panni del salvatore della patria.
Nessuna allusione, infatti, all’«avventura» dannunziana che al contrario informa le accuse mosse contro il retore nel 1920, nella commemorazione di Verga, davvero incomprensibile se non sullo sfondo dell’impresa di Fiume. Qui, in combutta, due poeti si contendono la successione di Carducci, e a dispetto della scarsa presenza di opere di d’Annunzio nella sua superstite Biblioteca, Pirandello rivela un’attenta lettura del Commiato, la lirica con la quale Alcyone (1903) veniva dedicato “all’ultimo figlio di Virgilio”.
Di antico e nuovo livore si colorano tre foglietti dispersi e mutili:

«Tra i tanti bisogni, pare che il popolo italiano abbia anche questo, perentorio: di sapere chi debba di tempo in tempo riconoscere e considerare suo maggior poeta vivente.
Morto Giosué Carducci, che per tale fu meritatamente riconosciuto e considerato lungo tempo, il popolo italiano si trovò davanti due candidati al posto di maggior poeta vivente: Gabriele d’Annunzio e Giovanni Pascoli.
I due candidati si erano già tra loro riconosciuti e considerati. L’uno su per una costa, l’altro su per l’altra, tutti e due alla fine si sarebbero ritrovati su la vetta del monte, s’intende della gloria.
Morto Giosué Carducci, i due candidati ebbero la cattiva ispirazione di darsi la voce (oh, velata di pianto) da una costa all’altra del monte
– Fratello… – Ci siam noi, coraggio!
– Fratello… – Tu…”
rispose loro un urlo di protesta e d’indignazione del popolo sinceramente commosso. Poi l’uno, senza aspettar l’altro, ghermì dal letto del morto una torcia funeraria e saltò su la vetta, solo.
La chiamò fiaccola, lui, quella torcia da morto, e si mise ad agitarla lassù, come tutti sanno, proclamandosi da sé unico erede; e nessuno, a nome del testamento del poeta, rispose no.
Ma si trattava, in fin dei conti, della gloria.
Io non intendo di negare a Gabriele d’Annunzio il titolo e il vanto di maggior poeta vivente d’Italia, tanto più che egli, a mio modo di vedere, risponde in tutto e per tutto al tipo del letterato italiano quale la tradizione così detta classica, o la retorica per consolazione nostra lo foggiava: cioè un letterato che poteva anche darsi la pena di pensare per conto suo, purché i pensieri tolti in prestito altrui sapesse convenientemente vestire d’una forma che, non nata dentro a un tempo col pensiero, doveva naturalmente esser soltanto esteriore, senza intimità quindi e, per inevitabile conseguenza, artificiosa; un letterato la cui arte, priva d’un contenuto ideale suo proprio, doveva per forza ridursi a una elegante mera esercitazione verbale, di cui essa, la Retorica»”.

La partita con d’Annunzio non si chiude però sulla livida ma rassegnata constatazione del suo primato retorico bene accetto dagli Italiani. Quando il «Natale di sangue» sta per concludere la «penultima ventura», la commemorazione degli ottant’anni di Verga offre a Pirandello, il 2 settembre 1920, l’opportunità di intervenire contro il Vate di nuovo in primo piano con la guerra e ancor più con la Reggenza di Fiume: un protagonismo che non poteva essere più schiacciante.
Opposto allo stile di «cose», ecco lo stile di «parole» – come dire il dantismo e il petrarchismo perennemente antitetici nella nostra storia letteraria. E inoltre Pirandello ribadisce qui un antico assioma: «la vita o si vive o si scrive», ma riferendosi più a sé che a Verga, perché é lui, controfigura del grande conterraneo, ad aver patito l’ingombrante presenza di d’Annunzio.
Pronunciando il Discorso catanese, alla vigilia del trionfo teatrale, il frustrato rancoroso non ignora quanto l’amico Tozzi ha appena affermato: la «salute» di Verga può essere apprezzata solo dopo la «malattia» di d’Annunzio.
Pirandello gli farà eco: «sazi e stanchi» della «troppa letteratura» dannunziana, ora i giovani si rivolgono al sobrio maestro siciliano. E infine concluderà:

«[…] la vita o si vive o si scrive. Dove non c’é la cosa, ma le parole che la dicono; dove vogliamo esser noi per come la diciamo, c’é, non la creazione, ma la letteratura, e anche letterariamente, non l’arte ma l’avventura, una bella avventura, che si vuol vivere scrivendola o che si vive per scriverla».

L’insistenza sull’«avventura» va decifrata attraverso la vicenda fiumana: la massima ribalta sulla quale d’Annunzio sia riuscito a esibirsi. Ma se brucia a Pirandello, quest’ennesima rappresentazione in grande stile veniva salutata – ironia della sorte – proprio dal Verga e proprio mentre l’erede designato lo giudica depresso dall’abile millantatore, vittima com’é del falso oro che ha abbagliato gli italiani. Verga approva la marcia di Ronchi e soffre per la «vittoria mutilata» senza mezzi termini, aprendosi con la Sodevolo il 4 ottobre 1919:

«[…] La sola cosa che mi resta é il pensiero di questa nostra Patria che lotta con amici e nemici in questo momento. Ma vivaddio […] ci sono degli uomini che hanno del ginger come d’Annunzio»,

e insisterà, anche lui contro «Gegoia», il «basilisco Nitti», indirizzando, il 15 maggio 1920, un entusiastico saluto all’impresa di Fiume:

«Viva d’Annunzio, e chi sta con lui».

Di ginger, certo, abbonda il Reggente del Carnaro e visto così, nel retroscena, il Discorso di Pirandello si risolve davvero, per qualche aspetto, in una commedia degli equivoci…

5. I Dioscuri del Regime

E d’Annunzio? Resta impassibile dinanzi alle accuse? Non risulta neppure che i due si siano conosciuti o che abbiano direttamente comunicato prima del 1926: una lettera del Capo-comico giunge allora al Vittoriale, con la richiesta di «rinnovare in Roma i fasti» della Nave o della Figlia di Iorio. Nel conto delle intese e delle tensioni vanno tenute le avances rivolte da Pirandello alla Duse da un lato, e dall’altro le galanterie (doni e lusinghe) che d’Annunzio riserva a Marta, per lui Martha, Abba. Ma prima di giungere alla concordia discors imposta ai due dal regime in un’occasione di parata qual é il Convegno Volta del 1934, molt’acqua é scorsa sotto i ponti di una rivalità che conta al proprio attivo non poche stoccate.
Due lustri dopo, la Figlia di Iorio sederà gli animi, benché Pirandello non abbia desistito dalle censure commemorando Verga all’Accademia d’Italia nel 19l4. Non ignora i favori che Mussolini concede a d’Annunzio; ma mentre prima erano le frustrazioni a secernere il veleno, ora é il successo a incattivirlo: a fama e riconoscimenti del resto la patria non corrisponde com’é nelle attese di una lunga e sofferta emarginazione. Il regime colma di lusinghe la cattività del Vate, rilutta invece a consegnare nelle mani di chi saprebbe risollevarle le sorti del Teatro italiano.
Nel carteggio con Marta Abba, soprattutto durante la trasferta berlinese patita come un esilio, Pirandello dà sfogo allo sconforto. Ha sacrificato la sua nuova ricchezza all’impresa del «Teatro d’Arte», naufragata perché gli é venuto meno il sostegno decisivo del regime; tanto vale, ancora una volta, vivere un’altra vita: quella che si scrive, quella dei Personaggi assillanti e riottosi, che torturano il torturatore.
Anche per d’Annunzio gli ultimi anni si venano di delusione. Non avrebbe potuto esser lui il Duce d’Italia?
Il tempo che passa, insomma, smussa le punte di entrambi e i riguardi scambievoli del 1934 non sembrano esclusivamente di maniera. Rivolto ad Antonio Bruers, vice-cancelliere dell’Accademia d’Italia, di stanza spesso al Vittoriale per la sistemazione di Archivio e Biblioteca, l’apprezzamento nei confronti di Pirandello viene formulato perché giunga al regista-interprete:

«Sono certo che la nuova interpretazione per merito di Luigi Pirandello rivelerà forse per la prima volta la bellezza vera di quella dialogata canzone».

6. Pirandello Dantista

In verità, anche se imboccate in senso inverso, le strade di d’Annunzio e di Pirandello s’incrociano spesso. Il cronista mondano degli anni ’80 preferisce le redazioni dei giornali alle aule universitarie; ma farà poi carte false per rivendicare la formazione accademica che gli è mancata. Non ha mai frequentato una lezione né di Monaci né di Occioni e dirà invece che questi sono i suoi maestri, gli stessi – é noto – di Pirandello’. Il quale a sua volta, provvisto di un curriculum di tutto rispetto, ripudierà filologia e glottologia e mal sopporterà l’insegnamento universitario che lo distrae dal colloquio quotidiano con gli esigenti Personaggi.
Basti in proposito l’insofferenza con la quale si sottomette, nel 1908, al giudizio della Commissione che gli concede l’ordinariato. Eppure, il meglio della filologia é chiamato a esprimersi su di lui, che non ha mai dimesso la polemica contro l’erudizone dei «parrucconi». Lamenta cosí, dinanzi a Novati, Barbi o Flamini, eminenti studiosi, che essi non sapranno emettere verdetti – ne é convinto – sulla Stilistica, la materia che egli insegna presso il Magistero femminile di Roma. Lo sfogo é con l’amico Bontempelli, contro i giudici, «professori d’Università, professori di Storia della Letteratura Italiana, i quali, naturalmente, non sanno che cosa sia né che si debba intendere per Stilistica. E chi lo sa?».
Sicuro dei ligi studi universitari di Palermo, Roma e Bonn, Pirandello contesta, e spesso con fondamento, la fílologia erudita che conosce bene. Non é stata reperita «l’edizione della Commedia utilizzata» da Pirandello, che invece a un’edizione commentata fa certamente capo. Del resto nella residuale Biblioteca mancano testi posseduti senz’altro dallo scrittore e dal professore di stilistica: vuoti che si colmano rivolgendosi alle Biblioteche di chi ha condiviso con lui una precisa stagione culturale, al di là di inimicizia e rivalità. Così, lo stesso Scartazzini-Vandelli che d’Annunzio definisce «il mio ‘Dante scolastico», é lettura obbligata e la troviamo sul tavolo di lavoro anche del nostro glossatore pignolo e insieme stravagante. Ciò che gli preme, leggendo la Commedia, sono le vicende dei Personaggi e la scelta di Scartazzini si motiva forse attraverso l’apparato critico che comprende i commentatori antichi in ricche note storico-documentarie. Dinanzi alla narrazione di Dante si direbbe che Pirandello cerchi di «vedere la scena». Resta da stabilire la datazione di glosse e foglietti. Per quanto riguarda questi ultimi, il rinvio allo studio di Corrado Ricci, L’ultimo rifugio di Dante a Ravenna, ci colloca intanto all’altezza rivelatrice del 1921.
Da tempo tuttavia Pirandello si dedica allo studio della Commedia, e assai prima di dare alle stampe i suoi tre lavori danteschi: ciò che sapremmo con maggiore esattezza se si risolvesse una volta per tutte la questione dell’impegno attivo che a Bonn lo vede alle prese con l’Inferno di Dante. E’ proprio allora che esordisce il Pirandello «professore», secondo quanto ne dice ai famigliari:

«Col primo maggio […] comincerà il corso delle mie lezioni. Ho scelto per tema l’Inferno di Dante»
(18 aprile 1890).

7. O poeta o filologo: la vocazione letteraria

Nell’adolescenza non ha dubbi: rifiuta gli studi tecnici per dedicarsi a quelli umanistici; ma quando avrà persuaso il padre riluttante che la sua vocazione letteraria é irrinunciabile, l’ambiente mercantile dal quale proviene sarà per lui un termine di paragone e da quell’angolo osserva se stesso con lucidità. Mette perciò subito le mani avanti, prevedendo la cattedra universitaria che certo lo attende, com’é disposto a scommettere fin dal 1886, non appena si é iscritto alla Facoltà di Lettere di Palermo:

«Mi preparo a studi enormi, volenterosamente. Se riuscissi in questo modo a incretinire, sarebbe forse la mia e la vostra fortuna! In questi quattro anni di Università debbo preparare il mio titolo per una cattedra. Ho ideato uno studio colossale intorno alla Favola, che scriverò in latino. Intanto mi é indispensabile la conoscenza del tedesco. Ci vuole anche questo. E dalli e dalli e dalli sulla mia povera testa! Un giorno o l’altro può darsi che si spezzi… “Et el mi piace”, direbbe il Boccaccio…»’.

Il progetto é chiaro, perseguito con tenacia e senza risparmio di lodevoli iniziative. II Carducci che rimproverava a Pascoli di non dedicarsi allo studio del tedesco, non si sarebbe compiaciuto del diciannovenne tempestivo e lungimirante? Il quale ha nelle mire, oltre la fama, il denaro – quel denaro che gli verrà, a lungo, dal padre operoso a cui sono ignote le lusinghe delle Muse, quanto mai lontane da zolfo e commerci.
Non appena si é cimentato in un’opera «originale» (così definisce Belfagor), subito avverte:

«Ho fatto leggere tutto il lavoro al Prof. di Latino all’Università, Giacomo Cortesi, e mi rispose che ad opera finita, s’impegnerà di farlo pubblicare a Roma, facendomelo pagare per quel che vale. Comincerà per tempo a guadagnar qualche cosa. E da ora in poi non mi ispirerà che questo: far denaro».

E insiste, quasi non abbia altra meta che il guadagno:

«Amo lo studio che mi darà pane».

Mentre poi annuncia di aver composto in soli tre giorni una Comedia volgare, suggestionato dalla Duse, magistrale interprete della Dame aux camélias, tiene a precisare che egli non si appaga di esiti dilettanteschi, puntando alle pratiche realizzazioni delle proprie attitudini:

«Ho scritto in tre giorni una Comedia volgare, in sette scene: se fra cinque o sei giorni, rileggendola, mi piacerà ancora, la darò alla Duse per la rappresentazione. Ho saputo che lo zio Giorgio mi dà continuamente titoli non molto graziosi, a causa della mia tenacità negli studi, a scapito dei miei interessi, e di quelli principalmente di mio padre. Io, da parte mia, non so fargli torto davvero […]
Io ho una sete inestinguibile di guadagno, perché vedo che senza denaro non si é uomini in nulla e per nulla, e perciò a fine di crearmi una posizione sociale modesta e comoda, al più presto, mi piegherei perfino alle più ingrate e penose fatiche. Darei dieci annidella mia vita pur di conoscere il modo di arricchire in un anno, senza farmi impiccare in sei mesi».

Due anni dopo, quando con la trasferta romana cade il velo delle illusioni, non ci sorprenderà questo sfogo:

«Sfacchino tutto il giorno, miei cari, trafficando con la merce di minor valore: le parole!».

I famigliari, a cui sono destinate (e forse in parte le determinano) le battute «mercantili», avevano d’altra parte modo di smentire tanto scetticismo. L’amore di Pirandello per l’arte e per lo studio si rivela di continuo dietro la maschera di chi vuol apparire disincantato.

8. L’amore per il teatro

Pirandello mostra subito un irresistibile trasporto per il genere teatrale. La sorella Lina, con la quale la confidenza é più libera e diretta, é l’interlocutrice di una sorta d’invasamento, dove sono notabili sia gli albori del metateatro, sia il revival aristofanesco che ha senz’altro qualcosa da suggerire intorno alle operazioni nascostamente classiche del futuro drammaturgo.
Le scrive il 30 novembre 1886:

«Di questi tempi, io non so che sia, ma ho addosso la febbre di voler fare. Studio e lavoro. Sono come elettrizzato, scrivo inconsciamente come se qualcosa che non é in me mi dettasse pensieri ed immagini. Vorrei farti sentire una, due scene di quella mia Comedia, che é buona, buona assai… Lasciamelo dire, ché con te non é superbia. Son sicuro che susciterà favorevole rumore sia per la novità del concetto, sia per la novità dell’azione. Figurati che nel primo atto costringo gli spettatori del teatro a far da attori nella mia commedia, e trasporto l’azione del palcoscenico all’orchestra. Vi ho introdotto la scena dei cori, come nell’ antiche commedie greche – tanto per mostrare il contrasto della vita com’é, e la vita come la vivono quei miei uccelli dall’alto. Quelle scene sono stupende! Non ti parlo dei tipi singolarmente studiati e da studiare con la cura più minuziosa, coscienziosamente […]».

É salda, nel giovane Pirandello, la consapevolezza della propria vocazione. E resisterà al deludente protrarsi dell’insuccesso se varcando la soglia del Teatro Valle, appena ventenne, avverte e sa ridire gli effetti di una passione sconvolgente. Niente – si capisce – potrà frenare il suo slancio verso le scene. Se la Scuola verista mira a dare l’«illusione della realtà», per lui si tratta di sommare «illusione» e «illusione». Personaggi «reali», sul palcoscenico del Valle, devono sopportare l’interferenza di Personaggi competitivi benché informi, che l’Autore in erba non sa tenere a bada. C’é poi un «amor sensuale» del Teatro come intérieur connotato dall’odore di gas e di vernice. Fomenta quella che intanto Pirandello chiama «allucinazione»:

«Ieri sera sono stato al teatro Valle […] alla rappresentazione della Morte civile, per Tommaso Salvini, che stasera darà l’Otello, e che per conseguenza mi farà spendere lire 3 – è una calamita quell’uomo, che finirà per essere una calamità. Oh il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell’aria pesante che vi si respira, gravemente odorata di gas e di vernice, mi ubriaca; e sempre a metà della rappresentazione mi sento preso dalla febbre, e brucio. É la vecchia passione che mi vi trascina, e non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d’azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma o da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d’un subito saltare sul palco scenico.
Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: é una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio d’applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi. Nel teatro Valle, quando verrà la Duse, io farò la mia prima prova seria».

 

9. Pirandello e i libri

A nulla varranno i ripetuti ammonimenti dei suoi maestri: o poeta o filologo. Carducci e Graf smentiscono la dura alternativa, e Pirandello, sulle prime, segue quelle orme, rivelando attraverso un’intera costellazione metaforica gli studi «matti e disperatissimi». Così, una volta i libri beneamati saranno le sue «anime», come quando lamenta che si siano smarrite le Odi barbare di Carducci. É a Bonn, e attende l’arrivo di un baule:

«Apprendo con piacere che avete già spedito il mio baule. Dite intanto a Innocenzo che le Odi barbare di Carducci io le ho lasciate a Porto-Empedocle, e devono esser costì. Se non ci sono, vuol dire che sono andate perdute. Che tutte codeste mie anime (scusate, volevo dire: codesti miei libri) debbano subire la stessa sorte? Bada, Annetta mia, io proibisco recisamente che un libro esca anche per un giorno solo da casa nostra. Se non sono sicuro di questo, io perderò del tutto la pace. Amo i miei libri quanto me stesso».

Altra volta il libri sono il «mare» e lui il «marinaio». E’ da pochi giorni nella Capitale:

«[…] Non ho con me i miei libri e per ciò sono come un marinaio cui manchi il mare, se non che a me quel mare serve per annegarmivi e dimenticarmi».

Finché ci comparirà dinanzi un Gregorio Samsa, non sotto specie d’insetto ma di carta stampata:

«[…] mi identificherò con una pagina di libro, per mostruosa e inaudita metamorfosi, diventerò carta stampata, e mi prenderanno, ahimé, con due o più dita, e senz’altro, così come ve lo sto per dire, mi imposteranno in uno scaffale di biblioteca. É raccapricciante: tergetevi le lagrime, e compatitemi».

La metamorfosi aveva raggiunto peraltro anche il padre – libro in più tomi visto che é alto di statura, «lungo lungo», come dice il fíglio. Talora si trattadelle note a margine contenute nel libro-padre:

«[…] io porto in cuore un vizioso orgoglietto che spesso mi lusinga a credere che io sappia un poco far la cronaca di tutti i cuori: credo pure – lasciamelo dire – di saper leggere anche nel tuo, come si fa in un libro stampato. E nel tuo libro – cioé, volevo dire nel tuo cuore – io trovo le più belle pagine e le più geniali, ma spesso vi trovo pure qualche nota in margine che mi mette sopra dolorosi pensieri e mi fa crollare il capo, come per pena che si rimpianga in silenzio. Di queste benedette note in margine oggi voglio parlarti, e tu lasciami dire […]».

Non si creda a una retorica solo giovanile, perché anche il trentenne, ormai padre di famiglia, continua a praticare la metamorfosi prediletta. Nel 1897, mentre sta per nascere la secondogenita, Lietta, le solite immagini lo soccorrono. Pare perciò naturale che un giorno, nella premessa ai Sei personaggi, dica che «il mistero della creazione artistica é il mistero stesso della nascita naturale». In questi termini annuncia l’imminente nascita della figlia:

«Antonietta da parecchi giorni si lagna di certi dolorini, che possono esser nunzii del parto imminente; e forse no. Aspettiamo. – Padre in aspettativa di due figli!!! Uno édito; l’altro, o l’altra, in corso di stampa… La recensione me la farete voi, e voglio sperare che sarà favorevole, come per l’altro libretto intitolato Stefanuccio. Libretto che, aumentando di giorno in giorno il numero delle pagine, si va rimpinzando di sempre nuove diavolerie».

Fra poco, proprio nel 1897, Pirandello avvierà la carriera dell’insegnamento, anche se per la cattedra, che la matricola già persegue quale obiettivo, in fondo, non troppo remoto, occorre invece ancora un decennio. Di fronte al dilemma – o poeta o filologo – ha scelto la prima via, e non poteva essere altrimenti: ogni testimonianza relativa ai suoi studi lo sorprende in moti di aperta insofferenza.
Topo di Biblioteca, Pirandello, non poteva davvero diventare. Dei topi comunque aveva seguito le tracce alla «Lucchesiana», durante un’esplorazione pilotata da Monaci che gli suggerisce di non trascurare i codici antichi conservati a Girgenti. Ma non a caso, ciò che resta di significativo di quell’esplorazione é il racconto a tutto tondo dell’apprendista filologo. Questo saprà fare, anche in futuro, dove la filologia come la Biblioteca divengono temi narrativi. Si pensi al Fu Mattia Pascal o ai numerosi racconti in cui l’erudito, il bibliofilo o il bibliomane sono presi di mira. Ripercorriamo i primi passi nella «Lucchesiana». L’elenco dei codici di quella Biblioteca appare accurato, ma é l’autoritratto a tradire il futuro di Pirandello. Che stende dunque per Monaci, nelle «idi di settembre 1889», un esteso resoconto intorno ai manoscritti di cui ha preso visione:

«Sono circa cento, e quasi tutti tenuti male, anzi alcuni ridotti a tale da non poterne far più conto e copia. Bibliotecario é un certo prete Schifano, pressochè illetterato, il quale nella lite pendente tra la sede vescovile e il municipio sulla proprietà di quella biblioteca non rende da anni ragione della sua incuria né all’una né all’altro. E tutto va in perdizione. Non saprei adeguatamente manifestarLe la strana e dolorosa impressione ricevuta al primo entrare in quella sede, cui non dirò mai dello studio e del raccoglimento, e bisogna che Ella lavori un po’ di immaginazione.
Vidi nella penombra fresca che teneva l’ampio stanzone rettangolare, presso un tavolo polveroso, cinque preti della vicina Cattedrale e tre carabinieri dell’attigua caserma in maniche di camicia, tutti intenti a divorare una insalata di cocomeri e pomidori. Restai ammirato. I commensali stupiti levarono gli occhi dal piatto e me li confissero addosso. Evidentemente io ero per loro una bestia rara e insieme molesta. Mi appressai rispettosamente (perché no?) e domandai del bibliotecario. «Sono io», mi rispose uno degli otto, con voce afflitta dal boccone non bene inghiottito; « Vengo a chiederLe il permesso di vedere se in questa… (non dissi taverna ma biblioteca) sono dei manoscritti…». «Là giú, là giú, in quello scaffale in fondo», mi interruppe la stessa voce impolpata di un nuovo boccone, e gli otto bibliotecari si rimisero a mangiare. Lo scaffale accennatomi era aperto: chi ne avesse avuto voglia avrebbe potuto servirsi a comodo; ma quei libri non conoscono altri visitatori che i topi e gli scarafaggi. …
Scorsi quasi tutti in una settimana e mezzo questi manoscritti; ma attendervi bene sopra non potei, sia perché lo stato di mia salute me lo vietava, sia perché in un luogo come quello tutto é possibile tranne che studiare. Chiesi al Municipio, chiesi alla sede Vescovile il permesso di portarmi in casa qualche volume, e non ebbi che risposte incerte, piene di strane esitazioni. Poi non potei più nulla e tutto restò. Ora mi dispongo a partire per la Germania».

10. Il via vai dei libri

Sulle cause della trasferta di Bonn si sa quanto Nardelli, biografo estroso e talora inventivo, ha narrato vivacemente. Onorato Occioni, professore veneziano di latino, cade in errore traducendo Plauto. Pirandello non tace, suscitando le ire del latinista. Quindi per sottrarsi a eventuali ritorsioni migra Oltralpe, dietro consiglio di Monaci. A Roma lo studente era approdato per tentare la via del teatro, lasciando Palermo, dove Cortesi e Fraccaroli l’avrebbero potuto trattenere se l’obiettivo non fosse stato più un debutto che un corso di studi. E per Pirandello – bisogna convenirne – é un vera disgrazia sbarcare a Roma nel 1887. Nei cieli dell’Urbe brilla l’astro accecante di d’Annunzio. Beniamino della sorte, é lui a mietere consensi e successi che non lasciano spazio ad altri.
E a d’Annunzio Pirandello si riferisce non appena é giunto a Roma. Confessa di aver bruciato tutte le sue carte e sfoga torvo il fastidio represso:

«Mi dà ai nervi questo presentarmi come poetino da salotto, e voglio che un mio libro e non una persona dica agli altri quello che sono, se pur sono qualche cosa. Sempre, a ogni lode che ricevo d’un imbecille, sia uomo o donna, il mio primo moto istintivo é quello di cacciargli un pugno in bocca, per il gusto bizzarro di farlo récere diversamente. Io non so chi mi abbia accanato dietro fin qui la tisicuzza fama di poeta. E’ una jettatura, per Giove Statore! Che io mi sappia, io non ho cocomeri in corpo, e quindi dolori che piacciono alle donne».

Un’invivibile capitale «bizantina» che ignora le sue aspirazioni, un’Università mediocre («i professori sono d’una ignoranza nauseante»): l’incidente con Occioni é provvidenziale per Pirandello. Roma ha «vinto» anche lui, e non perché a sopraffarlo é la dolce vita fin de siécle, ma perché le oppone una caparbia resistenza.
Cupo e scontroso, poco propenso alla goliardia, Pirandello é un ben ligio studente. Ha da tempo intrapreso – sappiamo – lo studio del tedesco («perché é vergogna massima non conoscerlo») e dell’inglese («continuo con amore lo studio dell’inglese»), frequenta assiduamente le Biblioteche romane e le letture di questi anni già rivelano talune sue tendenze: predilige opere «umoristiche».
Intanto il Don Chisciotte, almeno nella mirabile versione dialettale di Giovanni Meli (Don Chisiotti e Saciu Panza, poema eroi-comicu, di cui cita le ottave siciliane già nel 1886); le Operette morali di Leopardi, come risulta da un preciso riferimento alle mummie di Federico Ruysch; Gargantua et Pantagruel (acquista tutto Rabelais nel settembre 1887); Svetonio, «non castrato dai retori parrucconi»; Plauto e Terenzio, «per farne un serio confronto con la commedia nostra del Cinquecento», la Mandragola, soprattutto, «decor nostro!»; il teatro di Goldoni, «questo bel mago veneziano»; Aristofane, trasparente già nei suoi Uccelli dall’alto e nel paragone fra se stesso e il Dioniso delle Rane….
Fittissime poi le tracce della continua consuetudine col grande Trecento, modello allora additato a ogni giovane che intendesse misurarsi in rime o prose. La pratica di Dante, della Vita nuova oltre che la Commedia, risulta persino da un giornaletto liceale, mentre Boccaccio sbuca a ogni battuta nel carteggio con gli amici o con i famigliari, specie quando il tono é ironico o quando si tratta del suo penoso insuccesso:

«[…] senza una stretta al cuore potrei tornare a bruciare tutta la carta che ho sporcato, quando anche scarso, direbbe il Boccaccio, più che il fistolo, non mi decidessi per avventura a venderla a un salumaio o a un fruttivendolo».

II debito contratto a Palermo con il libraio Pedone ci informa inoltre su origine e entità della Biblioteca di Pirandello: ammonta a 10 lire al mese nel 1886, già a 15 l’anno successivo, a cui si aggiungono le 50 lire per la Teubneriana, collana di classici immancabile presso uno studioso che si rispetti. E a Roma, dove non potrà fare assegnamento su acquisti rateali, le richieste di denaro, rivolte al padre con diplomazia, si faranno pressanti. Così, al momento di lasciare la Capitale per la Germania i libri sono tanto numerosi che un problema urgente si pone:

«lo non posso assolutamente portarmi tutti i miei libri in Germania, perché la spesa sarebbe enorme e mi converrebbe meglio comprarli un’altra volta. A evitar ciò io porterò i miei libri con me in Sicilia e li lascerò presso di voi riportandomene pochissimi, i soli necessari, in un sacco a mano, in un sacco cioè in cui la dogana non mette mano».

Non appena però giunge a Bonn, dei libri lasciati in patria ha «ardente» bisogno. Grazie al via vai sappiamo quali volumi premessero all’emigrato:

«Se non avete ancora spedito il mio baule, desidero ardentemente, che vi mettiate dentro i seguenti libri:
1° Catulli, Tibulli, Propertíi – Carmina edizione dei Classici latini stampata a Lipsia, editore Teubner – della quale edizione troverete molti libri (copertina gialla) tra quelli che ho lasciato, e anche questo.
2° I fascicoli della storia universale che trattano del «Periodo della Rivoluzione e della Restaurazione 1818-1851» – di Teodoro Flachte – saranno press’a poco una ventina.
3° Le Odi barbare e le Nuove Odi barbare di Giosué Carducci.
4° Commento metrico a XIX odi di Orazio di Ettore Stampini (edizione Loescher – Torino).
Questi libri (ove il baule sia stato spedito) tranne i fascicoli della Storia universale, desidererei che mi fossero spediti per pacco postale. Raccomando a Innocenzo di farmi pervenire anche una copia delle «Terze Odi Barbare» di Giosué Carducci, appena verranno a la luce, che sarà tra breve, se di già non lo sono. Egli potrà rivolgersi al Pedone in Palermo».

A singhiozzo, chiederà ciò di cui non sa privarsi, ed é molto: i Saggi di critica letteraria di Canello (anch’egli allievo di Bonn), La Favola e le Favole di Lessing, per uno studio sul folklore siciliano da allegare alla tesi di laurea. Oppure si tratta di saggi di storia o dei Nibelunghi, lasciati nella «cassa», custodita da Annetta, e invece indispensabili. Gli devono infatti essere spediti al più presto

«i seguenti libri, che troverete nella mia cassa:
1° Enrico Hallam: l’Europa nel medio-evo;
2° Gervinus: Storia della rivoluzione Greca (non so bene se é di Gervinus, ma ad ogni modo il titolo é giusto – credo che siano due volumi);
3° La Rovina dei Nibelunghi, traduzione di A.Gabrielli».

Anche il Firenzuola, così spesso additato da d’Annunzio quale modello di lingua dovrà varcare le Alpi:

«Prego Annetta d’inviarmi dalla mia cassa di libri le Opere di Agnolo Firenzuola, due volumi», mentre per lo studio su Cecco Angiolieri, a cui si accinge, deve assolutamente recuperare appunti e libri:
1°) Un fascio di carta (doppia, a quadretti) dove son trascritti da me i sonetti di Cecco Angiolieri – secondo il codice Chigiano, sui quali devo fare uno studio insieme ad altri di poeti umoristici del XIII secolo.
2°) Brunetto Latini, di Rodolfo Renier.
3°) D’Ancona, Studi di crit. e di storia letteraria.
4°) G. Trezza, Studi critici».

Allo scadere del soggiorno tedesco, nell’aprile 1891, i libri saranno così numerosi che si propone un vero e proprio trasloco. A quelli che sono emigrati si sommano i nuovi acquisti, sia per la personale «biblioteca fílologica» («attrezzi» dice «del mio mestiere»), sia per alimentare l’artista invero ridimensionato a Bonn, ma non mai messo a tacere. Andrà infatti collocato in Germania l’incontro con Chamisso, Richter o Tieck, quando rinverdiscono anche antiche predilezioni come Heine o Lenau.
Pirandello si é oltremodo dedicato allo studio traendone almeno due importanti risultati: la laurea in glottologia e la definitiva avversione nei confronti della Scuola storica. Già da tempo però lamenta che i suoi studi «non imparano a vivere». Insieme con lo «spettacolo della vita», Pirandello «fischia» i suoi studi, il cui vantaggio – si rassegna – é quello di dare pane:

«Non più versi, non più commedie, non più fantasie – tutta questa é merce che non dà pane… ma tedesco e tedesco e poi tedesco, e glottologia e filologia e lessicografia, e chi non schiatta é bravo!».

11. Il cacciatore di parole

La Biblioteca di Pirandello ci restituisce, se sfogliamo i libri superstiti, un cacciatore di parole. Il glottologo laureato a Bonn si rivela un lettore straordinariamente attrezzato. Le glosse marginali sono spesso documentarie, ma accanto ad esse altri segni di lettura testimoniano che é la questione della lingua a mobilitare in primo luogo il narratore o il drammaturgo. Un ricco laboratorio si dischiude così a chi esamina i segni apposti di volta in volta nei libri che Pirandello sceglie, fínalizzando quanto legge alla compilazione di un proprio vocabolario. Del resto, anche i Taccuini consistono per lo più in repertori linguistici: glossari dove si tesaurizzano segmenti del discorso pronti per l’uso.
A muovere l’interesse spesso é la normalizzazione della pronuncia dialettale, siciliana e non, e lo stesso accade in quelle pagine dei Taccuini in cui Pirandello fissa locuzioni vicine al parlato quale canovaccio della scrittura a venire. Così almeno sembra, anche stando ai pronunciamenti di poetica: «il soggetto [dell’opera] é un germe che tante volte può esser contenuto in una parola colta in una conversazione». Finora però ben poco si conosceva del laboratorio pirandelliano perché si potesse condurre un’indagine sulla sua tesaurizzazione lessicale: due fogli – per esempio – del Taccuino cosiddetto di Coazze, stesi durante il soggiorno a Montepulciano del 19036. Materia troppo scarna per desumerne una prassi costante, che invece un ricco reperto, di recente emerso, suggerisce al di là delle congetture azzardate. É così ormai evidente: Pirandello compila instancabile lunghe liste di motti, frasi idiomatiche, battute di dialogo… che troveranno poi corrispondenza nell’opera. Il lavoro di scavo rivela quindi da un lato il lettore sagace, pronto ad appropriarsi della coeva saggistica militante; dall’altro, se ci si attiene a Foglietti e Appunti, sorprendiamo il previdente accumulatore di formule, dettami, dichiarazioni di principio. Alla fine della sua vita, nonostante il particolare, intimo rapporto che lo scrittore intrattenne con i libri, Pirandello esibisce una certa “noncuranza”:

“Non sono punto bibliofilo. Le edizioni rare e preziose non mi dicono nulla. Anche nel libro quello che conta, quando c’è, è lo spirito. Il resto è carta che ingombra. Non credo di possedere tutti i libri che ho stampati e che mi sono stati tradotti.”

E ancora:

“ oramai non tengo a conservare specialmente nulla!. Non ho più casa mia. Vado da un paese all’altro… Viaggio. Sono un viaggiatore senza bagagli”.

Quella estraneità dal mondo che culminerà nelle ultime volontà da rispettare

“Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me”.

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