L’ombrello – Audio lettura 2

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Legge Giuseppe Tizza
«Ah, quell’ombrello era suo, ormai, tutto suo, suo unicamente, e mai lo avrebbe ceduto, neppure alla mamma! Che pena, intanto, che tutta quella pioggia andasse sprecata…»

Prime pubblicazioni: Novissima, anno IX, 1909, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.

Lombrello audiolibro
Adriana Laube, Angelo con ombrello. Dal sito dell’Autrice

L’ombrello

Voce di Giuseppe Tizza

******

​             – «Pue le bacchette, pue le bacchette» – ripeteva Mimi, sgambettando e cercando di pararsi davanti alla mamma che la teneva per mano sotto l’ombrello.

             All’altro lato Dinuccia, la sorellina maggiore, andava come una vecchina, seria e precisa, reggendo a due mani un altro ombrello, già vecchio, sforacchiato, che presto, comperato il nuovo, sarebbe passato alla serva.

             –    «E pue l’ombello», – seguitava Mimi, – «due ombello, due tappotti, quatto bacchette.»

             –    Sì, cara; le barchette e tutto; ma andiamo, su! – la esortava la mammina impaziente, che voleva andare spedita tra il confuso viavai della gente che spiaccicava pur lì sul marciapiedi, sotto lo spruzzolio incessante d’una lenta acquerugiola.

             Con sordi ronzii, tra accecanti sbarbagli le lampade elettriche già s’accendevano, opaline, rossastre, gialligne, davanti alle botteghe.

             Pensava, andando, quella mammina frettolosa, che le stagioni non avrebbero dovuto mutar mai, e l’inverno, sopra tutto, mai venire. Quante spese! E per i libri di scuola, che sempre ogni anno di nuovi; e ora per riparare dal freddo, dal vento, dalla pioggia quelle due povere piccine rimaste orfane prima che l’ultima avesse avuto il tempo d’imparare a dir babbo. Carnucce tenere! che strazio vederle andar fuori così sprovviste di tutto, certe mattine!

             Lei s’adoperava in tutti i modi; ma come bastare, con quel po’ di pensioncina lasciata dal marito, quando poi il crollo viene inatteso, e da tant’anni s’ha l’abitudine di viver bene?

             Quest’anno anche Mimi aveva cominciato a frequentare il giardino d’infanzia, ed erano altre sei lire al mese di tassa; perché… ma sì, non aveva saputo togliere Dinuccia, la maggiore, dalle scuole a pagamento per mandarla a quelle pubbliche; e le toccava di pagare per due, adesso. E le tasse erano il meno! Tutte alunne per bene, in quella scuola, e le sue piccine non dovevano sfigurare.

             Non si perdeva lei, no: morto il marito, che aveva vent’anni più di lei, pur dovendo attendere a quelle due creaturine, aveva avuto la forza di ripigliare gli studii interrotti all’ultimo anno; aveva preso il diploma; poi, avvalendosi del buon nome lasciato dal marito e delle molte aderenze ch’egli aveva, facendo anche considerare le sue tristi condizioni, era riuscita a ottenere una classe aggiunta in una scuola complementare. Ma la retribuzione, insieme con la pensioncina del marito, non bastava o bastava appena appena.

             Se avesse voluto… Non vestiva bene; non si curava più per nulla di sé; si pettinava, là, alla svelta, ogni mattina; s’appuntava un cappellino che non era più neanche di moda; e via alla scuola, senza guardare mai nessuno; eppure, se avesse voluto, già due partiti. Chi sa perché, anche quella sera là, mentre andava frettolosa fra le sue bambine, tutti si voltavano a mirarla; e pioveva! Figurarsi, però, se lei avrebbe voluto mai dare un altro babbo a Dinuccia e a Mimi. Pazzie! pazzie!

             Quell’ammirazione, intanto, quegli sguardi ora arditi e impertinenti, ora languidi e dolci, colti a volo per via, con apparente fastidio o anche, certe volte, con sdegno, le cagionavano in fondo una frizzante ebbrezza; le ilaravano lo spirito; davano quasi un sapore eroico a quella sua rinunzia al mondo, e le facevano stimar bello e lieve il sacrifizio per il bene delle due figliuole.

Era un po’ il piacere dell’avaro, il suo; dell’avaro che non soffre tanto delle privazioni a cui s’assoggetta, pensando che, se volesse, potrebbe godere senz’alcuna difficoltà.

Ma che sarebbe dell’avaro, se da un momento all’altro l’oro del suo forziere perdesse ogni valore?

Ebbene, certi giorni, senza saper perché, o meglio, senza volersene dire la ragione, ella cadeva in una cupa irrequietezza; era agitata da una sorda irritazione, che cercava in ogni più piccola contrarietà (e quante ne trovava, allora!) un pretesto per darsi uno sfogo. Le erano mancati per via quegli sguardi, quell’ammirazione. E segnatamente sulla maggiore delle figliuole, su Dinuccia, si scaricava allora la maligna elettricità di quelle torbide giornate. La piccina, senza saperlo, attirava quelle scariche col suo visino pallido, silenziosamente vigile, coi suoi sguardi attoniti e serii, che seguivano la mammina furiosa, la mammina che si sentiva spiata e credeva di scorgere un rimprovero in quell’attonimento penoso e in quello sguardo serio e indagatore.

– Stupida! – le gridava.

Stupida, perché? Perché non capiva la ragione per cui la mammina era così nervosa, quel giorno, e cattiva? Ma se non voleva capirla neanche lei, questa ragione! Era soltanto meravigliata, la piccina, di non vederla gaja come gli altri giorni, ecco. Meravigliata? Si meravigliava a torto; perché non tutti i giorni si può essere gaj; e non era mica gioconda per la mammina quella vita di stenti e d’angustie. Lo sapeva bene lei sola, quanti pensieri e quanti bisogni e quante difficoltà.

Soffocava così il rimorso d’aver maltrattato e fatto piangere ingiustamente la bambina. Erano pur veri sì, i pensieri, gli stenti, i bisogni, le angustie, le difficoltà; ma il non voler confessare a se stessa la vera ragione della sua tristezza e della sua nervosità la rendeva ancora più triste e nervosa.

Per fortuna, c’era l’altra piccina, Mimi, che faceva ogni volta il miracolo di rasserenarla tutt’a un tratto, con qualcuno de’ suoi vezzi infantili, pieni di grazia, irresistibili.

Mimi prima la guardava, la guardava per un pezzo, ma non con quegli occhi vigili e serii della maggiore; con occhi ingenui e amorosi la guardava; poi faceva parlare quello sguardo, soffiando coi labbruzzi di ciliegia:

– Mammina bella!

Si alzava, s’inchinava con le manine a tergo e domandava, scotendo tutti i riccioli neri della testina:

– Vuoi bene?

Così. Non diceva: «Mi vuoi bene» ma per tutti, semplicemente: «Vuoi bene?». E allora ella le tendeva le braccia e appena quel batuffoletto le saltava al collo, se lo stringeva forte forte al seno, rompendo in pianto; chiamava subito a sé anche Dinuccia; le abbracciava tutt’e due, con fremente tenerezza, carezzando anche di più la piccina poc’anzi maltrattata; e godeva di sentirsi inebbriare da quest’altra gioja pura, che nasceva dal suo dolore e dalla sua bontà, che nasceva veramente dal suo sacrificio, imposto dalla crudeltà della sorte, e ch’ella era felice, felice di compiere per quelle due creaturine, unicamente per loro.

Quella sera, intanto, la mammina era molto gaja.

– Su, Mimi! Ecco, è qua: siamo arrivate!

La bambina era restata a bocca aperta davanti a certe grandi vetrine abbarbaglianti in capo a via Nazionale. Tirata dalla mamma, entrò nella bottega, ripetendo ancora una volta:

–    «Le bacchette! Pima le bacchette!».

–    Ecco, sì, zitta! – le gridò la madre, a cui s’era fatto innanzi un commesso di negozio. – Barch… cioè, vedi? lo fai dire anche a me. Mi dia due paja di…

–    «Bacchette!»

–    E dalli! «Calosce», per queste bambine. Le chiama barchette la mia piccina. Veramente, si potrebbero anche chiamare così, per non usare quella parolaccia forestiera.

–    Soprascarpe, – suggerì asciutto, con aria di sufficienza il commesso, inarcando le ciglia.

–    Barchette però sarebbe più carino.

–    «Pima a me! Pima a me!» – gridava intanto Mimi, arrampicatasi sul divano, agitando i piedini.

–    Mimi! – la sgridò la mamma, guardandola severamente e cangiandosi in volto.

Subito Dinuccia notò questo repentino cambiamento, e assunse, con gli occhi attoniti e serii, quell’aria di attonimento penoso, che tanto urtava la madre. E nessuna delle due badò alla gioja di Mimi, a cui quell’antipatico commesso aveva già provato la prima «barchetta». Voleva subito subito scendere dal divano per camminarci, senz’aspettare l’altra.

– Qua, ferma, Mimi! O via a casa! Troppo larga, non vedi? Qua!

Il commesso, prima d’andare a prendere un altro pajo d’ultima misura, avrebbe voluto provare quelle alla maggiore; ma Dinuccia si schermì, indicando la sorellina:

–    Prima a lei.

–    Stupida, è lo stesso! – le gridò la madre, prendendola sotto le ascelle e sedendola con mal garbo sul divano. Intanto, per quietare Mimi, disse al commesso che gliel’avrebbe calzate lei, quelle, alla maggiore; e che egli per piacere andasse nel frattempo a prendere il pajo per la piccola.

Dinuccia, calzata, rimase a sedere sul divano; Mimi invece ne scivolò via lesta, battendo le mani, e si mise a saltare, a girare su se stessa come una trottolina, cacciando gridi di gioja; e ora levava un piede, ora l’altro, per guardarselo. Dal divano, Dinuccia la guardava, e sorrideva pallidamente. Si rifece seria, udendo la madre esclamare:

–    Quaranta lire? Venti il pajo?

–    Fabbrica americana, signora, – rispose il commesso, opponendo alla maraviglia della compratrice la freddezza dignitosa di chi conosce il valore della merce che si vende in bottega. – «Articolo» indistruttibile. Lei lo può stringere in un pugno, guardi !

– Capisco, ma… scusi, per un piedino così, venti lire? E il commesso:

–    Due soli prezzi, signora: per i piccoli, venti lire; per i grandi, trentacinque. Un po’ più lunghe, un po’ più corte, capirà, ciò che conta è la fattura.

–    Non me lo sarei mai aspettato! – confessò allora, afflitta, la mammina. – Avevo calcolato, al più al più, venti lire per tutt’e due.

–    Uh, non lo dica nemmeno! – protestò il commesso, quasi inorridito.

–    Guardi, – si provò ad allettarlo la mammina, – dovrei comperare altra roba: due «loden», pure per le piccine; due ombrelli.

–    Abbiamo tutto.

–    Lo so; sono venuta qua apposta. Mi faccia qualche riduzioncina. Il commesso alzò le mani, inflessibile:

–    Prezzi fissi, signora. Prendere o lasciare.

La mammina gli lanciò uno sguardo torbido, di sdegno. Facile a dire, lasciare! Come togliere dai piedini a Mimi le barchette? La solita furia. Avrebbe dovuto prima contrattare, ecco. Ma poteva mai supporre che gliene domandassero tanto? E poi, se erano prezzi fissi… Aveva calcolato di spendere in tutto centoventi lire; più non poteva.

–    I «loden», – disse, – mi faccia vedere. Che prezzo hanno?

–    Ecco, favorisca di qua.

–    Dinuccia! Mimi! – chiamò la mammina irritata. – Buona, sai, Mimi, o ti levo le calosce! Vieni qua. Lasciami vedere! Non ti vanno troppo larghe anche queste?

Voleva tentare di levargliele per provare se le riuscisse di trovarne a minor prezzo in qualche altra bottega. Le veniva ormai di schiaffeggiarlo quel commesso.

–    «Lagghe? No, belle!» – gridò Mimi, ribellandosi.

–    E lasciami vedere!

–    «Belle no, belle! tanto belle!» – seguitò Mimi, scappando via.

E si mise a soffiare, gonfiando le gote, e ad agitare i braccìni e a sgambettare, come se fosse in mezzo all’acqua e vi passasse sicura, con quelle barchette ai piedi.

La degnò di un sorriso, alla fine, quel commesso di negozio. Ma non l’avesse mai fatto! Vedendolo ridere come per compassione, la mammina sentì rimescolarsi tutto il sangue. Pensò che aveva soltanto centotrentacinque lire nella borsetta. I «loden», quaranta lire l’uno; quaranta le due paja di soprascarpe; non ne restavano che quindici, poche per due ombrelli: sì e no, avrebbe potuto comperarne uno, e d’infima qualità.

Ora, il piacere delle bambine era appunto d’avere un ombrello per ciascuna, l’ombrello e le barchette. A quei cappotti impermeabili, grevi, grigi, pelosi, non fecero alcuna festa: e quando seppero che di ombrelli non se ne poteva comperar che uno, cominciarono le liti.

Dinuccia sosteneva con ragione che toccava a lei, ch’era la più grande; ma Mimi non voleva sentirla questa ragione, poiché un ombrello era stato promesso anche a lei; e invano la mamma, per metter pace, badava a ripetere che non sarebbe stato né dell’una né dell’altra, ma di tutt’e due in comune, dovendo andare a scuola insieme.

–    «Pelò, lo lleggio io!» – protestò Mimi.

–    No, io! – si ribellò Dinuccia.

–    Un po’ Luna, un po’ l’altra, – troncò la madre, e rivolgendosi a Mimi: – Tu non potrai; non saprai reggerlo.

–    «Sì che lo lleggio!»

–    Ma se è più alto di te, non vedi?

E, per fargliene la prova, la mammina glielo pose accanto. Subito Mimi se lo strinse al petto con tutte e due le braccia. Questa parve a Dinuccia una prepotenza, e stese le mani per strapparglielo.

– Vergogna! – gridò la mamma. – Che spettacolo! che bambine per bene! Qua, a me l’ombrello! Non l’avrà nessuna delle due!

Per via, benché coi «loden» addosso e le barchette ai piedi, le due bambine andarono taciturne, imbronciate, con gli occhietti sfavillanti, fisso il pensiero a quell’ombrello, per cui la lite si sarebbe certo riaccesa, appena varcata la soglia di casa. La proprietà, in comune: va bene; ma a chi lo avrebbe affidato, la mattina appresso, la mamma? Tutto era qui: portarlo aperto per via, quell’ombrello, sotto la pioggia! E Dinuccia pensava che toccava a lei, a lei di diritto: non solo perché la maggiore, ma anche perché… ecco qua: si poteva dare una prova migliore di quella che dava lei, in quello stesso momento, di saper reggere ombrelli per via? E per quella prova, così ben disimpegnata anche nell’andare, non si meritava adesso di reggere l’ombrello nuovo? Perché lo aveva comperato la mamma? per tenerlo chiuso sotto il braccio? Se la mamma riparava col suo Mimi, perché lasciar lei intanto con quello vecchio, della serva? Il castigo, se mai, doveva essere per quella Mimi soltanto, per quella Mimi prepotentona, che mai e poi mai avrebbe saputo reggere un ombrello come lei. Eh, avrebbe voluto vederla!

Così pensando, Dinuccia si provava a lanciare un’occhiatina alla mamma, di sotto l’ombrello, senza perdere l’equilibrio, per vedere se ella si accorgesse di quella sua bravura. Ma scorse, invece, più che mai torbido e aggrondato il volto della mamma; e l’ombrello tentennò tra le due manine che lo sorreggevano.

Uscita dalla bottega in preda a una rabbiosa mortificazione, la mammina lottava in quel momento per espungere dall’animo il più cattivo dei pensieri contro la sua Dinuccia: un pensiero orribile, ch’ella non voleva assolutamente le si riflettesse neppure per un attimo sulla coscienza, dove sarebbe rimasto, al minimo contatto, come una macchia, come una piaga.

Eppure, a ogni urto anche lieve contro la dura realtà, in certi momenti, quel pensiero odioso le si riaffacciava all’improvviso. E il pensiero odioso era questo: che se lei, Dinuccia, non ci fosse stata (non che dovesse morire, Dio, no!; ma se non ci fosse stata, ecco, se non l’avesse avuta), ella, con Mimi soltanto, ch’era d’indole così gaja e aperta, sempre contenta, con Mimi soltanto, ella si sarebbe rimaritata. Mimi, senza dubbio, si sarebbe fatta amare da colui ch’ella avrebbe scelto per compagno, gli sarebbe subito saltata al collo, domandando anche a lui, con la solita grazia, scotendo la testina ricciuta: «Vuoi bene?». E come non volerle bene? Dinuccia invece, con quegli occhi, sempre attoniti e serii… Ecco, se li immaginava, quegli occhi, rivolti penosamente al patrigno e… no, no, mai! sentiva che con lei e per lei ella non lo avrebbe mai fatto, quel passo, non avrebbe potuto farlo.

La guardò, e subito, come le soleva avvenir sempre, sentì un acuto rimorso e un’angosciosa tenerezza per quella sua povera piccina. La vide ancora tutta intenta a dare quella sua prova di bravura e non potè fare a meno di sorridere. Lei, no; ma avrebbe voluto che qualcuno per via esclamasse: «Ma brava! Guardate come sa regger bene l’ombrello quella pupetta!». L’ombrello vecchio, poverina… Chi sa che gioja, se le avesse dato il nuovo! Già: ma l’altra allora? Eh, l’altra… Tutte vinte? Se aveva fatto male a promettere anche a lei un ombrello tutto per sé, se non aveva potuto comperarne due, doveva andarci di mezzo la povera piccina? Mimi non doveva far capricci, e Dinuccia, che sapeva reggere così bene l’ombrello, doveva reggere il nuovo e non il vecchio.

Glielo diede. Ma la piccina non lo accolse con quella festa ch’ella s’era immaginata. Non perché avesse indovinato il tristo pensiero della mamma (còme avrebbe potuto mai indovinarlo?); ma, subito dopo che le aveva scorto quel volto torbido e aggrondato, aveva sentito un brivido alla schiena, Dinuccia, e gli occhietti le si erano infoscati, e s’era messa a pensare che non la sola Mimi era cattiva, ma anche la mamma cattiva, la mamma che riparava Mimi e non badava a lei, e la lasciava sola, con quell’ombrellaccio vecchio della serva, che sgocciolava e che pesava tanto, ormai, tanto che lei se ne sentiva tutt’e due i braccìni indolenziti; e non poteva e non sapeva reggerlo più.

Ora, il nuovo pesava meno, e Dinuccia ringraziò la mamma soltanto con un sorriso. Parve poco alla mamma, e si rivolse subito a Mimi:

– Tu stai qua sotto con me, buona buona, è vero? Dinuccia si ripara da sé. Che direbbe la gente vedendola con quest’ombrellaccio vecchio? «Uh, che poverella!» direbbe. «E forse la servetta?» E tu non vorresti, è vero? che si dicesse così della tua sorellina.

Mimi non fiatò: aveva una sua idea. Appena arrivate al portone di casa, s’affrettò a pregare la mamma:

– «Oa, mamma, io pelle ccale! Lo lleggio io pelle ccale!».

E così entrò in casa, dove si sentiva più sicura, con l’ombrello in suo potere; e non volle cederlo, salite le scale, perché la mamma lo riponesse, con la scusa che Didì lo aveva tenuto tanto tempo per istrada. La lite – inevitabile – scoppiò, mentre la mamma si svestiva di là. Dinuccia strappò l’ombrello a Mimi e la fece cadere per terra con un urtone. Strilli di Mimi; restituzione a lei dell’ombrello; e Dinuccia castigata senza cena.

Sul tardi però, quando la mamma andò a cercare Dinuccia che s’era rincantucciata in un angolo dietro l’armadio, e la trovò che dormiva, comprese perché la piccina non aveva accolto con festa, per via, l’ombrello nuovo, e perché poi, contro il solito, lei che come una vecchina compativa sempre i capricci di Mimi, l’aveva fatta piangere quella sera: Dinuccia scottava dalla febbre!

La mamma restò un pezzo, sgomenta, a contemplarla; poi se la tolse in braccio, gridando:

– Oh Dio, no. Dinuccia mia! No, no, no!

La svestì, la mise a letto e le si sedette accanto, con l’anima vuota e sospesa, come intronata dalla pioggia, che scrosciava furiosa di fuori.

Piovve tutta quella notte, e piovve per sei giorni di fila quasi senza interruzione.

Il pensiero di Mimi, la mattina dopo, allo svegliarsi, fu per l’ombrello, perle barchette e il cappotto nuovo.

L’ombrello se l’era messo accanto al lettino, e se lo trovò subito in mano; scappò per le barchette e per il cappotto. Pioveva; e dunque festa! sarebbe andata a scuola munita di tutto punto, le barchette ai piedi, il cappotto addosso, e l’ombrello in mano, aperto, sotto l’acqua!

No? Non si andava a scuola? Perché? Dinuccia era malata? Che peccato! Pioveva così bene…

Avrebbe voluto chiedere alla mamma, perché non mandava a scuola lei sola, con la serva. Ma la mamma non le badava; piangeva. Lo chiese alla serva; ma questa, già lì lì per uscire in fretta in furia in cerca d’un medico, nemmeno si voltò per risponderle.

Mimi rimase un pezzo dietro la vetrata della finestra a guardare la bell’acqua scrosciante, impetuosa; poi andò a pararsi davanti allo specchio dell’armadio col «loden» e con le barchette; si tirò sulla testina il cappuccetto fin su le ciglia; aprì con molto stento l’ombrello, e si contemplò beata nello specchio, tutta ristretta nelle spallucce, coi piedini giunti, ridendo e tremando dei brividi che le comunicava quella pioggia immaginaria.

Per cinque giorni, ogni mattina, Mimi fece quella prova davanti allo specchio. E dopo essersi contemplata per più d’un’ora, a più riprese, toltisi il cappotto e le barchette, andava a nascondere l’ombrello in un certo posto che sapeva lei sola. Ah, quell’ombrello era suo, ormai, tutto suo, suo unicamente, e mai lo avrebbe ceduto, neppure alla mamma! Che pena, intanto, che tutta quella pioggia andasse sprecata…

La sera del sesto giorno, Mimi fu condotta dalla serva nel quartierino accanto, abitato da due vecchie signore, amiche della mamma, che in quei giorni parecchie volte aveva veduto per casa, affaccendate tra la camera da letto e la cucina. Era tanto presa di quei suoi tesori, che non ci badò; non badava a nulla da sei giorni; ed era anzi contenta che la mamma fosse tutta intenta alla sorellina malata e non si curasse affatto di lei, perché così poteva «fare l’inverno» («l’invenno», diceva lei) a suo agio e con la massima libertà. Era del resto di così facile natura, che s’accomodava subito e si sentiva a posto, ovunque la mettessero: traeva da sé la vita e la spandeva intorno festosamente, popolando di meraviglie ogni cantuccio, fosse anche il più nudo e il più oscuro. Cenò in casa delle vicine, giocò, chiacchierò a lungo con la serva, saltando di palo in frasca, e finalmente le si addormentò in grembo.

Si svegliò a notte alta, di soprassalto, sbalordita da un formidabile fragore, che aveva scosso tutta la casa e che ora s’allontanava con cupi rimbombi tra lo scroscio violento della pioggia. La bambina si guardò attorno, smarrita. Dov’era? Quella non era la sua casa; quello non era il suo lettino… Chiamò la serva due o tre volte, si liberò della coperta in cui era avvolta e balzò a sedere sul letto. Era ancora vestita. Guardò il lettino accanto, intatto, e si raccapezzò: quella era la camera in cui dormivano le due vecchie signore: v’era entrata tante volte! Scivolò dal letto; attraversò una stanza al bujo; trovò la porta aperta, e uscì sul pianerottolo della scala, atterrita dal fragorio della pioggia che cadeva sul lucernario, e dal palpitante bagliore dei lampi. Aperta era anche la porta della sua casa; e Mimi si cacciò dentro e corse alla camera da letto, gridando:

– Mamma! mamma!

Una delle due vecchie signore, che se ne stava accanto al lettuccio della bambina agonizzante, le corse subito incontro, per fermarla sulla soglia.

–    Va’, va’, piccina mia, – le disse, – la mamma è di là.

–    Didì? – domandò allora la bimba sbigottita, intravedendo al debole chiarore della lampada il viso cereo della sorellina sul letto.

–    Sì, cara, – le rispose quella, – il Signore la vuole per sé. Se ne va in cielo Didì…

–    In cielo?

E Mimi uscì, senz’aspettare risposta; si fermò nella saletta al bujo, un po’ perplessa: udì novamente, attraverso la porta aperta, il tremendo fragorio della pioggia sul lucernario della scala: intravide dalla finestra a un nuovo palpito di luce il cielo sconvolto, e scappò via, lungo il corridojo.

Poco dopo, le due vecchie signore che vegliavano l’agonia di Dinuccia, se la videro venire innanzi con quell’ombrellone più grosso di lei tra le braccia, balbettando:

– «L’ombello… a Didì.. in cielo… piove».

L’ombrello – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
L’ombrello – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
L’ombrello – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi

 

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