Lo storno e l’Angelo Centuno – Audio lettura 2

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Legge Giuseppe Tizza
«Era una donnetta piccola magra e viva, sempre un po’ irritata. Tra le lunghe labbra sottili la saliva le friggeva. Batteva di continuo le palpebre su gli occhietti neri e furbi, da furetto.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 4 settembre 1910 col titolo Lo storno e l’Angelo Centuno (miracoli), poi col tutto definitivo in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914.

Lo storno e l Angelo Centuno. audiolibro 2
Immagine dal Web.

Lo storno e l’Angelo Centuno

Voce di Giuseppe Tizza

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             Ci eravamo levati a bujo e camminavamo da tre ore con una fame da lupi, per certe scorciatoje scellerate che, a dire di Stefano Traina, ci avrebbero fatto risparmiare un terzo di cammino: ma già tre o quattro volte ci era toccato di tornare indietro, non trovando l’uscita, e non so quanto tempo avevamo perduto a scavalcar muricce, e cercare il passo tra fitte siepi di agavi e di rovi, a traversar rigagnoli sui ciottoli: fatiche da bestie, che ci avevano tolto l’unico compenso al sonno perduto: quello di godere, camminando per vie piane, l’ilare freschezza dell’aria mattutina in campagna. E gli scarponi e le munizioni da caccia ci pesavano e la cinghia del fucile ci segava le spalle.

             Chi di noi tre, in tali condizioni, poteva aver animo da contraddire Stefano Traina e da difendere gli storni ch’egli ci dipingeva come una vera calamità per le campagne, peggio assai delle cavallette, vero flagello di Dio?

             Ma Stefano Traina era fatto così: parlando aveva bisogno di credere che qualcuno lo contraddicesse; e accalorandosi sempre più, volle far sapere a noi tre poveri innocenti che gli storni vanno a nugoli così fitti che, se passano davanti al sole, l’oscurano; se calano su un bosco d’olivi, in un batter d’occhio lo sterminano. Perché ogni storno si porta via con sé nientemeno che tre ulive, una per zampa e una nel becco; e questa del becco se la ingoia sana sana e la digerisce come niente.

             –    Con tutto l’osso? – domandò Bartolino Gaglio -, sgomento.

             –    Con tutto l’osso.

             E Sebastiano Terilli esclamò:

             –    All’anima del ventricolo!

             –    Gli storni? Ma se vi dico… – seguitò Stefano Traina.

             Per concludere che se da un canto noi dovevamo ringraziare Celestino Calandra – il più giovane e il più bello dei canonici di Montelusa – per averci invitati a passare una settimana nelle sue terre di Cumbo, dall’altro Celestino Calandra doveva restar grato a noi del segnalato servizio che gli avremmo reso, salvandogli il raccolto delle ulive con la nostra caccia agli storni.

             È vero che non eravamo mai stati a caccia, né io né Sebastiano Terilli né Bartolino Gaglio, come si poteva vedere dai nostri fucili nuovi fiammanti, comperati il giorno avanti. Ma questo non voleva dir nulla. Agli storni – sosteneva Stefano Traina – si spara anche con gli occhi chiusi.

             Ecco, forse fu perché sparammo con un occhio chiuso e l’altro aperto, ma il fatto è che, dopo quattro giorni di caccia accanita nell’olivete di Cumbo, non uno storno, che si dice uno, riuscimmo a far cadere, neppure per combinazione; ulive sì, invece, oh, a ogni scarica, giù come grandinare; tanto che il buon Celestino Calandra (giovane e santo) cominciò a dire tra bellissime risate che una consolazione così non gliela poteva mandare altri che Dio.

             Lo sterminio ci fu, ma nel pollajo di Cumbo. Una fame pantagruelica si sviluppò in tutti noi quattro giovani cacciatori. Ma era forse la rabbia che ci divorava per tutti gli storni falliti, che se ne volavano via pian pianino, senza fretta, come se volessero dirci: «Uh, come siete nojosi, con codeste schioppettate!».

             La vecchia donna Gesa, casiera di Celestino Calandra (vecchia e santa), con due mazzi di pollastrelli, uno per mano, dai colli tirati e ciondolanti, ci fulminava con gli occhi ogni mattina al ritorno dalla caccia; fulminava più di tutti Sebastiano Tedili, il quale, non contento dello sterminio delle ulive e dei polli, faceva poi, a tavola, arrabbiare Monsignore con certe discussioni che non stavano né in cielo né in terra.

             Quel buon odore di casa campestre perduta in mezzo agli olivi e ai mandorli, quelle camere patriarcali, nude ampie sonore, dai pavimenti avvallati, che sapevano di antiche granaglie e di mosto e del sudore di chi fatica al sole e del fumo che esalano la paglia e la legna dei rozzi focolari, non erano riusciti a disarmare l’acre spirito di Sebastiano, filosofo dilettante e materialista convinto. E vero ch’egli ficcava l’anima in tutte le sue esclamazioni molto frequenti: – «All’anima di questo! all’anima di quello!» – ma quell’anima non era un’anima: era un modo d’intercalare.

             Le discussioni più calorose avvenivano la sera, dopo cena, e disturbavano donna Gesa, la casiera, la quale prima d’andare a letto si rincantucciava, tutta raffagottata, in un angolo a recitare il rosario di quindici poste. La disturbavano, perché di continuo ella si sentiva tentata a interloquire e rintuzzare, come si scorgeva chiaramente dagli atti che faceva, dalle smusate che dava, da quel dito che di tratto in tratto si passava rapidamente due o tre volte sotto il naso arricciato.

             Era una donnetta piccola magra e viva, sempre un po’ irritata. Tra le lunghe labbra sottili la saliva le friggeva. Batteva di continuo le palpebre su gli occhietti neri e furbi, da furetto. Giù dalle tempie, per le gote, fino al naso, le si allungava a fior di pelle un’intricata diramazione d’esilissime venicciuole violette.

             Una mattina finalmente, dopo colazione, non potè più reggere. Si parlava di donne e di prender moglie e di suocere e di nuore. Stefano Traina, che aveva in casa una suocera demonio, s’era scagliato in una invettiva furibonda contro tutte le suocere.

             – Ma tante volte, – uscì allora a dire donna Gesa, con le mani levate e le narici frementi, – sono vipere le nuore! Vipere, sì, vipere, vipere! E voce di cattive intanto hanno sempre le suocere.

             Stefano Traina la guardò un tratto come basito; balzò in piedi, corse in camera a prendere il fucile, e scappò via.

             Rompemmo tutti in una risata fragorosa. Donna Gesa aggrottò le ciglia e aspettò che finissimo di ridere; poi si volse verso Monsignore e, tentennando il capo in segno di commiserazione, domandò:

             – Era buona la Popone? Vossignoria lo sa: quella del miracolo dell’Angelo Centuno.

             – Raccontate! raccontate! – le gridammo io e Bartolino Gaglio. Ma Sebastiano Terilli, facendo campana:

             –    Un momento! Aspettate! Come avete detto? Centuno? C’è l’angelo cento e l’angelo centuno?

             –    Mi pare! – gli gridò subito in faccia Bartolino Gaglio, temendo che l’interruzione indignasse la vecchia e le facesse passar la voglia di raccontare. – Centuno, centodue, centotre… Che maraviglia? Ci sono gli angeli e Dio assegna il numero a ciascuno.

             Celestino Calandra (giovane e santo) sorrise bonariamente e ci spiegò che quel centuno, non era, a dir proprio, un numero progressivo; ma che si trattava invece di un angelo particolare, per cui la gente del paese aveva una special divozione, come quello che aveva in custodia cento anime del purgatorio e le guidava ogni notte a sante imprese.

             –    Un angelo centurione? – fece il Terilli.

             –    Dunque… dunque, la Popone? – domandai io, infastidito, rivolto a donna Gesa.

             Questa si sedette e prese a narrare:

             «Si chiamava veramente Maragrazia Ajello. Di soprannome, Popone. Tutti gli Ajello, di padre in figlio, sono intesi così, chi sa perché.

             Buona come il pane, sempre con gli occhi a terra, poverina, e con le labbra cucite. Il suo non era suo. S’era spogliata di tutto per il figlio, e stava dove la mettevano, senza dar fastidio neanche all’aria.

             La nuora, invece, che si chiamava Maricchia, dispetti sopra dispetti, dalla mattina alla sera. Facciaccia tosta, che non arrossiva di nulla, linguacciuta e cimentosa poi!

             Non c’è peggio delle donne cimentose.

             Non voleva portare la mantellina come tutte le villane, perché diceva che il padre era della maestranza: portava il manto di lana, a pizzo e con la frangia, e voleva esser chiamata ’gnora e non comare.

             La Popone, zitta, per amore del figliuolo che abbozzava anche lui. Un po’ bestialotto era. Se fosse stato figlio mio! Basta.

             Quante ne patì, povera creatura di Dio, la Popone!

             A sessant’anni – bisognava vederla – non un pelo bianco. Pareva una madonnina di cera, linda linda, coi capelli gremiti e fresca nelle carni più di una ragazza di quindici. Vestiva, come tutte le poverette, di baracane; ma ogni casacchina addosso a lei pareva di seta: tanto bel portamento aveva, con un che di civile. Tutti le davano passo appena la vedevano. Mi ricordo le mani, che finezza! Parevano un velo di cipolla. E sì che avevano faticato quelle mani!

             Non c’era neanche da dire che la nuora si dispendiasse per lei, che pure aveva ceduto in vita al figliuolo tutto quanto possedeva: la casetta e una piccola chiusa, sotto le Fornaci. Campava ancora sul suo, facendo novene e recitando rosarii per conto dei divoti che venivano a trovarla fino a casa da miglia e miglia lontano, e la compensavano delle grazie che riusciva a impetrare dalle anime sante del Purgatorio, con le quali durante la notte era in comunione.

             Se ne vedevano le prove ogni giorno.

             Una volta – consta a me – una povera madre venne a trovarla per un figliuolo ch’era in America e non le scriveva più da tre mesi.

             –   Ritornate domani, – le disse la Popone.

             E il giorno appresso le annunciò che il figliuolo non le aveva più scritto perché era in viaggio di ritorno, e che già era arrivato a Genova e tra pochi giorni lo avrebbe riabbracciato.

             Così fu. Guardate: lo dico, e mi s’aggricciano ancora le carni. Santa! santa! era proprio una santa la Popone!

             –    Ma questo miracolo dell’Angelo Centuno? – le domandò Sebastiano Terilli.

             –    Ecco, ci vengo adesso, – rispose donna Gesa. – Per avere un po’ di requie dai continui dispetti della nuora, un giorno la Popone pensò di recarsi per qualche settimana al vicino paese di Favara, dove aveva una sorella, vedova come lei.

             Ne chiese licenza al figliuolo e, avutala, andò da un compare del vicinato, che si chiamava zi’ Lisi, per chiedergli in prestito una vecchia asinella ch’egli aveva, un po’ tignosa, ma tranquilla come una tartaruga.

             Sapeva bene la Popone, che a lei, zi’ Lisi, non l’avrebbe negata, quantunque per quella sua asina avesse tanto amore che non aveva più pace per tutto un giorno se essa la mattina non beveva intero il suo solito bugliolo d’acqua. Era un vecchio curioso, questo zi’ Lisi. Tutti sparlavano di lui, nel vicinato, per via di quella sua asina. Ogni mattina, le reggeva con le mani davanti al muso il bugliolo, invitandola col fischio a bere per una o due ore, tante volte; e guaj se le vicine, infastidite da quel fischio lamentoso, persistente, gli gridavano che la smettesse!

             Vedovo come la Popone, da tanti anni le stava attorno desideroso di mettersi con lei.

             –   Statevi zitto, santo cristiano! – gli dava sempre su la voce la Popone; e si faceva il segno della croce, che le pareva una tentazione del diavolo. –

             Quel giorno ella aspettò davanti al cortile acciottolato, dove zi’ Lisi aveva la casa e la stalla; aspettò un bel pezzo che il vecchio finisse di fischiare, tra gli sbuffi di tutte le vicine che la spingevano ad entrare, dicendole: – Su, su, se entrate voi, la smette!

             Alla fine il vecchio la smise, ed ella entrò nel cortile.

             L’asina? Ma subito! Anche per un mese l’avrebbe prestata a lei, anche per un anno, e magari gliel’avrebbe donata, e tutto le avrebbe donato, tutto quanto possedeva, se…

             –   Daccapo, vecchio stolido? statevi zitto! Mi bisogna per una settimana. Debbo andare da mia sorella, alla Favara.

             Com’egli intese proferire quel nome di Favara, spiritò, e cominciò a dire che mai e poi mai avrebbe consentito ch’ella andasse sola a quel paese d’assassini, dove ammazzare un uomo era come ammazzare una mosca. E le raccontò che un favarese, una volta, per provare se la carabina era ben parata, fattosi all’uscio di strada, la aveva scaricata sul primo che aveva veduto passare; e che un carrettiere di Favara, un’altra volta, dopo aver fatto montare sul carretto un ragazzino di dodici anni incontrato di notte lungo lo stradone, lo aveva ucciso nel sonno, perché aveva inteso che gli sonavano in tasca tre soldi; lo aveva sgozzato come un agnello, povero piccino; s’era messi in tasca i tre soldi per comperarsene tabacco; aveva buttato il cadaverino dietro la siepe, e arri! a passo a passo, cantando, aveva seguitato ad andare, sotto le stelle del cielo, sotto gli occhi di Dio che lo guardavano. Ma l’animuccia del povero ucciso aveva gridato vendetta, e Dio aveva disposto che lui stesso, il carrettiere, arrivato all’alba alla Favara, invece di recarsi alla carretteria del padrone, si fermasse davanti al posto di guardia e coi tre soldi nella mano insanguinata si denunziasse da sé, come se parlasse un altro per bocca sua.

             –   Vedete che può Dio? – gli disse allora la Popone. – E perciò io non ho paura!

             Zi’ Lisi insistette per accompagnarla; ma lei tenne duro; gli disse che avrebbe preso in affitto l’asino da qualche altro; e allora egli cedette e le promise che il giorno appresso, all’alba, l’asinella sarebbe stata davanti alla porta di lei, con la bardella e tutto.

             Ora avvenne, che di notte zi’ Lisi, col pensiero dell’asina da approntare per l’alba, si svegliò. C’era un gran chiaro di luna, e gli parve giorno. Saltò dal letto, sellò l’asina in un amen e la condusse alla casa della Popone. Bussò alla porta e disse:

             –   L’asina è qua, gna’ Popone. L’ho legata all’anello. Il Signore e la bella Madre vi accompagnino.

             La Popone, zitta zitta, per non svegliare la nuora, il figliuolo e i nipotini, prese a vestirsi. Ma solita di levarsi alla punta dell’alba, non si capacitava, col silenzio che regnava tutt’intorno, che quella fosse l’ora di partire.

             –   Sarà! – disse. – M’avrà gabbata il sonno.

             E uscì col fagottello sotto la mantellina. S’accorse subito, guardando il cielo che quella non era alba, ma chiaro di luna. lutto il paesello dormiva tranquillo; dormiva anche l’asinella in piedi, legata lì, all’anello accanto alla porta.

             – O Gesù mio, – disse la Popone. – Che stolido, quello zi’ Lisi! Debbo mettermi in cammino, di notte? Mah! Sono vecchia, c’è la luna; e non ho niente da perdere. Le animucce sante del Purgatorio mi accompagneranno.

             Montò su l’asinella, si fece il segno della croce e s’incamminò.

             Quando fu un buon tratto lontana dal paese, nello stradone, tra le campagne sotto la luna, andando lentamente su l’asinella, si mise a pensare a quel ragazzino sgozzato e buttato lì, dietro la siepe polverosa, povera creaturina di Dio; a tanti altri ammazzamenti e male vendette pensò, che si raccontavano della Favara, e intanto proseguiva con la mantellina in capo tirata fin su gli occhi per impedirsi di guardare le ombre paurose della campagna di qua e di là dello stradone, ove la polvere era così alta, che non faceva neanche sentire il rumore degli zoccoli dell’asinella.

             Tutto quel silenzio e quel suo andare, e la luna e quella via lunga e bianca le parevano un sogno.

             – O Animucce sante del Purgatorio, – diceva tra sé, – a voi mi raccomando! E non smetteva un momento di pregare.

             Ma, o fosse la lentezza del cammino, o la sua debolezza, o che, o come, a un certo punto, forse la vinse il sonno. La Popone non lo seppe mai dire; ma il fatto è che ai due lati dello stradone, a un certo punto, svegliandosi, si trovò due lunghe file di soldati. In testa, nel mezzo dello stradone, andava a cavallo il capitano.

             La Popone, appena li. vide, si sentì riconfortare, e ringraziò Dio, che proprio in quella notte del suo viaggio aveva disposto che quei militari dovessero recarsi anch’essi alla Favara. Le faceva però una certa meraviglia che tanti giovinetti di vent’anni non dicessero nulla vedendo in mezzo a loro una vecchia come lei, su un’asina vecchia più di lei, che non doveva fare certamente una bella figura, per lo stradone a quell’ora.

             Perché così in silenzio, tutti quei soldati?

             Non si sentivano nemmeno camminare e non sollevavano neanche un po’ di polvere. La Popone ora li mirava sbigottita, non sapendo che pensarne. Le parevano ombre, sotto la luna; eppure erano veri, soldati veri, sì, col loro capitano là, a cavallo. Ma perché così silenziosi?

             Il perché lo seppe, quando fu in vista del paese, sul primo albeggiare. Il capitano a un certo punto fermò il cavallo e aspettò ch’ella lo raggiungesse.

             – Maragrazia Àjello, – le disse allora, – io sono l’Angelo Centuno, di cui sei tanto divota, e queste che ti hanno scortata fin qui sono anime del Purgatorio. Appena arrivata, mettiti in regola con Dio, che prima di mezzogiorno tu morrai.

             Disse e scomparve con la santa scorta.

             Quando la sorella, alla Favara, si vide arrivare in casa la Popone, bianca, come di cera, e stralunata:

             –    Maragrà, che hai? – le gridò. E lei con un filo di voce:

             –    Chiamami un confessore.

             –    Ti senti male?

             –    Devo farmi le cose di Dio. Prima di mezzogiorno morirò.

             E così fu, difatti. Prima di mezzogiorno morì. E tutto il popolo di Favara scasò a vedere la santa che l’Angelo Centuno e le anime del Purgatorio avevano scortata quella notte fino alle porte del paese».

             Donna Gesa tacque. Tacemmo, ammirati, io e il Gaglio e Monsignore, suo padrone. Ma Sebastiano Terilli, scrollandosi, esclamò:

             –   All’anima del miracolo! È questo il miracolo? E che miracolo è questo? Ma scusate… Miracolo? Perché miracolo? Ammettiamo tutto: ammettiamo che la poveretta non sia morta veramente di paura, e che quella non sia stata un’allucinazione spiegabilissima in una che credeva di parlare ogni notte con le anime del Purgatorio e con quest’Angelo Centuno; ammettiamo che l’angelo le sia apparso per davvero e le abbia parlato. Ebbene? Altro che miracolo! Questa è crudeltà feroce. Annunziare imminente la morte a una poverina! Ma noi tutti, scusate, noi tutti possiamo vivere solo a patto che…

             Celestino Calandra protese le mani per rispondergli, e l’eterna discussione si riaccese più calorosa che mai.

             Ma la fede, la fede! non si doveva tener conto della fede, di cui si nutre e s’appaga la povera gente? Gli uomini così detti intellettuali non vedono, non sanno veder altro che la vita, e non pensano mai alla morte. La scienza, le scoperte, la gloria, il dominio! E si domandano come faccia a vivere senza tutte queste belle e grandi cose la gente del popolo, quella che zappa la terra e che appare loro condannata alle più dure e umili fatiche; come faccia a vivere e perché viva; e la stimano bruta, perché non pensano che una ben più grande idealità, di fronte alla quale diventano vane e ridicole miserie tutte le scoperte della scienza e il dominio del mondo e la gloria delle arti, vive come certezza irrefragabile in quelle povere anime e rende loro desiderabile come un giusto premio la morte.

             Chi sa quanto si sarebbe protratta quella discussione sul miracolo dell’Angelo Centuno, se un altro miracolo, e questo vero, autentico, indiscutibile, non la avesse a un tratto troncata.

             Stefano Traina, col fucile da caccia in pugno, si precipitò nella sala da pranzo tutto ansante, esultante, col volto paonazzo, congestionato, sgraffiato, affumicato.

             Era riuscito finalmente a uccidere uno storno!

Lo storno e l’Angelo Centuno – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Lo storno e l’Angelo Centuno – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza

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