Lo spirito maligno – Audio lettura 3

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Legge Valter Zanardi
«Era una vecchia borsetta, evidentemente lasciata lì da qualche avventore. Forse era vuota. Se non vuota, che poteva mai contenere? pochi soldi, qualche lira d’argento. E il Noccia rimase un pezzo perplesso, se prenderla o farla prendere dal caffettiere…»

Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 22 maggio 1910 col titolo Una piastra e quattro centesimi.

Lo spirito maligno
Beka Lisa, Spirit painting, 2002. Dal sito dell’autrice

Lo spirito maligno

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Carlo Noccia fu da giovane per circa sette anni in Africa, a Bona, commerciante; vi soffrì anche la fame nei primi tempi, e soltanto a furia di stenti, di rischi e d’incredibili fatiche riuscì a metter da parte un gruzzolo modesto.

             Ritornato in Sicilia, per non apparire ingenuo in mezzo ai commercianti suoi compaesani, produttori e sensali d’agrumi e di zolfo, gente ladra, usa a combattere tra le insidie e con ogni sorta d’inganni, provò il bisogno di lasciar loro intendere che con quelle stesse arti egli aveva guadagnato colà il suo danaro. Dovette insomma confarsi al modo di pensare di quelli e disonorar le sue fatiche e il frutto di esse per aver pregio e considerazione agli occhi loro.

             E s’aggirò, faccente, con l’aria d’un furbo matricolato, in mezzo al traffico rumoroso del piccolo porto di mare, tra i grandi depositi di zolfo accatastati su la spiaggia; a bordo dei piroscafi d’ogni nazione, tra marinai e interpreti e scaricatori e stivatori, aspirando con voluttà l’odor del catrame e della pece, mentre gli occhi gli lacrimavano bruciati dalla polvere dello zolfo diffusa nell’aria. Stordito dai gridi dei barcaioli e dei facchini del porto, tra un continuo sbaccaneggiar di liti, e i fischi delle sirene e il fumo delle macchine, credette sinceramente che la necessità d’ingannare, i cattivi pensieri venissero dal fermento stesso di quella vita esagitata, esalassero dalle bocche delle stive, dall’acqua stessa del mare sporca di zolfo e di carbone, dal muffido pacciame delle alghe secche su la spiaggia solcata, scavata dal transito incessante dei carri striduli, carichi di minerale; credette sinceramente ch’egli, senza volere, vivendo lì, respirando in quell’aria, avrebbe appreso quell’arte in poco tempo; e fu felicissimo quando potè aver la dimostrazione che già gli altri credevano che non avesse più bisogno d’apprender altro. Si vide tutt’a un tratto posto a capo d’uno dei più grossi depositi di zolfo. Il proprietario, giovanotto ambizioso, che aveva dovuto interrompere gli studi universitarii per la morte improvvisa del padre, era affatto ignaro di commercio e attendeva piuttosto a ingraziarsi con servigi e favori gli animi dei suoi compaesani per essere eletto sindaco del Comune. Naturalmente, diventò subito preda dei più furbi speculatori di piazza, e segnatamente di un certo Grao, il quale cominciò a irretirlo in una vasta impresa da tentare col nobilissimo scopo di allibertare il commercio dello zolfo dallo sfruttamento delle case estere d’esportazione che avevano sede nei maggiori centri dell’isola; impresa per cui egli, in poco tempo, centuplicando le sue ricchezze (e diceva poco!) avrebbe avuto gloria di salvatore dell’industria zolfifera siciliana, e sarebbe stato eletto sindaco subito, senza alcun dubbio.

             Il Noccia ammirava sopra tutti questo Grao; lo teneva in conto d’un oracolo. Forse, a destare in lui tanta ammirazione e così cieca fiducia aveva gran parte una figliuola, che costui aveva, bellissima, e della quale egli si era innamorato. Il fatto è che quando il Grao gettò in quella vasta impresa il suo principale, e questi domandò a lui, suo magazziniere e amministratore, consigli e schiarimenti sui giuochi ora al rialzo ora al ribasso a cui quegli lo esponeva, egli, con la massima buona fede, gli dette sempre quei consigli e quegli schiarimenti che il Grao di nascosto e senza parere gli aveva suggeriti. Se non che, sempre, alla scadenza degli impegni, il suo principale, se aveva giocato al ribasso, s’era trovato di fronte a uno spaventoso rialzo, e viceversa; sicché in meno d’un anno era stato liquidato.

             Nessuno volle credere alla buona fede del Noccia. Come mai non s’era accorto che il Grao faceva volta per volta di soppiatto il giuoco inverso?

             Non sé n’era accorto, perché anche lui credeva a occhi chiusi che quella vasta impresa commerciale, se non proprio centuplicato, avrebbe certo accresciuto di molto le ricchezze del suo principale. Al primo, al secondo, al terzo colpo fallito, credette sinceramente alla disperazione del Grao, e che nel nuovo giuoco proposto fosse la salvezza e il rifacimento dei danni.

             Del resto, ad attestar la sua buona fede stava il fatto che alla fine nella rovina del suo principale egli vide anche la sua: perduto il posto e, quel che più gli dolse, anche la speranza di far sua la figlia del Grao; e che si sentì come cascar dalle nuvole allorché il Grao gli venne avanti con le braccia aperte per ringraziarlo di quanto aveva fatto e dargli in premio la figliuola con più di trecentomila lire di dote.

             Protestò allora, di fronte al Grao stesso, la sua innocenza e la sua buona fede; ma quegli, ammiccando furbescamente e battendogli una mano su la spalla, gli fece intendere che lo riteneva, anche per quella protesta, suo degno compare, anzi suo degno genero; e un’altra cosa gli fece intendere: che nessuno lo avrebbe lodato di non essersi approfittato del suo posto e di quel giuoco per arricchire, e che anzi sarebbe stato stimato da tutti uno sciocco, un buono a nulla, proprio come quel suo principale e degno come questo d’esser giocato e poi buttato là in un canto con una pedata.

             Avvenne intanto che per invidia dell’agiatezza che gli era venuta da quelle nozze con la figlia del ricchissimo speculatore, si vide addosso inaspettatamente l’odio feroce di tutti i suoi compaesani. Presero a chiamarlo Giuda e a stimarlo capace d’ogni infamia, d’ogni perfidia e ad avvelenargli con questa stima anche l’amore per la sposa.

             Volle dimostrare che non era, non era, perdio, quel che tutti lo stimavano; ma ecco che in tre o quattro occasioni, senza che ne sapesse né il come né il perché, dai suoi atti e dalle sue buone intenzioni era saltata fuori all’improvviso la dimostrazione contraria, fino al punto che, un giorno, per una inesplicabile intestatura su un conto sbagliato, s’era visto citare in tribunale per poche centinaja di lire da un suo subalterno colmato di beneficii.

             Il Noccia cominciò a credere allora all’esistenza d’un certo spirito maligno nato e nutrito dall’odio, dall’invidia, dal rancore, dai cattivi pensieri e insomma da tutto il male che ci vogliono i nostri nemici; uno spirito maligno che ci sta sempre attorno agile vigile e pronto a nuocerci, approfittando dei nostri dubbi e della nostra perplessità, con spinte e suggerimenti e consigli e insinuazioni che hanno in prima tutta l’aria della più onesta saggezza, del più sennato consiglio, e che poi tutt’a un tratto si scoprono falsi e insidiosi, sicché tutta la nostra condotta appare all’improvviso agli occhi altrui e anche ai nostri stessi sotto una luce sinistra, dalla quale non sappiamo più, così soprappresi, come sottrarci.

             Certo era stato questo spirito maligno a fargli sbagliar quel conto.

             E intanto, ecco qua, anche capace d’approfittarsi di poche centinaja di lire a danno d’un poveretto lo avevan creduto i suoi compaesani. E d’allora in poi ciascuno s’era sentito in diritto di negargli quel che gli doveva, sicché per riavere il suo si vedeva ogni volta costretto a intentare una lite.

             Ora, per una di queste liti, che da un pezzo si trascinava nei tribunali e che forse il Noccia, stanco e avvilito, avrebbe volentieri mandato a monte, se la rabbia non lo avesse forzato a dimostrare ancora una volta che la giustizia stava dalla sua, eccolo in viaggio per Roma a sollecitare di persona il patrocinio del deputato del suo collegio.

             Aveva già quarantasette anni, e l’animo gli s’era profondamente incupito per tutta quella guerra d’odio e d’invidia.

             Come una bestia, ferita in una caccia feroce, e ricoverata in una tana non sua, egli si guardava ormai davanti e dietro, diffidente e ombroso.

             I grandi occhi chiari, d’acciajo, negli sguardi obbliqui, davano in quel suo volto fosco, bruno, cotto dal sole nelle lontane arrabbiate spiagge di Sicilia, l’impressione d’un vuoto strano. E in quel suo volto egli sentiva ora quasi un disagio insolito per certe rughe che di tratto in tratto gli si spianavano, ammirando lo splendore della città.

             Aveva in petto il portafogli gonfio di molte migliaja di lire. Forse, partendo dalla Sicilia, s’era proposto di concedersi, se non tutti, parecchi di quegli svaghi per lui affatto nuovi, che una città come Roma poteva offrirgli. Ma in quattro giorni, per quel ritegno ombroso, divenuto in lui quasi istintivo, non aveva ancora ceduto a nessuna tentazione, e si sentiva stanco, oppresso e inquieto.

             Aveva preso alloggio nell’albergo della Nuova Roma presso la stazione, e faceva ogni volta chilometri e chilometri per andarvisi a rinchiudere per una mezz’oretta; ne riusciva poco dopo più smanioso di prima e senza meta.

             Così gli avvenne, la mattina del quinto giorno, di cacciarsi in un caffeuccio lì nei pressi della stazione, per passarvi un po’ di tempo.

             C’erano pochi avventori e molte mosche. Il Noccia ordinò una tazza di birra e stese la mano al tavolino accanto per prendere un giornale che vi stava posato. Ma le mosche lo tormentavano. Per cacciarne una, sfondò il giornale; voleva ripagarlo, ma il padrone non permise; per cacciarne un’altra, per poco non rovesciò la tazza di birra. Smise allora di leggere e, sbuffando, allungò le mani sulla panca imbottita di cuojo; ma subito ne ritrasse una, la destra, che aveva toccato qualche cosa, e si voltò a guardare.

             Era una vecchia borsetta, evidentemente lasciata lì da qualche avventore.

             Forse era vuota. Se non vuota, che poteva mai contenere? pochi soldi, qualche lira d’argento. E il Noccia rimase un pezzo perplesso, se prenderla o farla prendere dal caffettiere, perché la restituisse al proprietario, se fosse venuto a cercarla. Guardò il caffettiere dietro il banco. Non gli parve che avesse faccia da restituir la borsetta, se ci fosse dentro qualche cosa. Forse sarebbe stato meglio accertarsene, prima. Allungò cautamente la mano e la prese. Pesava. L’aprì un poco; vi intravvide una piastra d’argento e due monetine da due centesimi. Tornò a guardare il caffettiere, e non ebbe alcun dubbio che quella piastra e quelle due monetine sarebbero andate a finire nella ciotola dentro il banco.

             Che fare? Pensò che il giorno avanti aveva letto nella cronaca d’un giornale un nobile esempio da imitare: quello d’un fattorino di telegrafo che aveva trovato per istrada un portafogli con più di mille lire, ed era andato a depositarlo in questura. Imitare quel nobile esempio? In questura avrebbero voluto il suo nome e lo avrebbero stampato sui giornali nel dar l’annunzio della borsetta ritrovata. Pensò che nel circolo di compagnia gli sfaccendati del suo paese leggevano i giornali di Roma dall’articolo di fondo all’ultimo avviso di pubblicità in sesta pagina. Quantunque lo ritenessero capace di approfittarsi anche di poche lire, avrebbero detto sghignazzando che la borsetta, lui, l’aveva consegnata alla questura perché conteneva soltanto una piastra e quattro centesimi. Veramente, darsi per così poco tutta quell’aria d’onestà gli parve troppo. Che fare allora? Durando quell’esitazione, non stimò prudente tenere ancora la borsetta in mano, alla vista di tutti, e se la ficcò nel taschino del panciotto per riflettere con comodo se non gli sarebbe meglio convenuto, per non aver tanti impicci, rimetterla al posto dove l’aveva trovata. Ma forse allora qualche altro avventore senza scrupoli se la sarebbe presa senza pensarci due volte; e quel poveretto che l’aveva smarrita…

             «Oh via», fece tra sé a questo punto il Noccia. «In fin dei conti, son cinque lire…»

             E stava per trarre dal taschino la borsa, quando entrò di furia nel caffeuccio e s’avventò verso il suo tavolino una sudicia vecchia dalla faccia aguzza, che soffiava come un biacco, col naso da civetta e il muso irto di grigi peluzzi, tirandosi via dagli occhi i capelli lanosi, scarmigliati sotto il decrepito cappellino annodato al mento.

             –   C’è lì la borsetta! la mia borsetta! l’ho lasciata lì!

             Così investito, il Noccia guardò la grinta della vecchia e subito concepì il sospetto che, essendosi egli messo in tasca la borsetta, quella dovesse ritener per certo che avesse voluto appropriarsela, e allora le rivolse un sorriso vano, da scemo, e si finse ignaro: – Una borsetta? Dove? – E prima si scostò e poi si alzò per farla cercar bene; e quando la vecchia, dopo aver cercato su la panca, sotto la panca, tra i piedi dei tavolini con irosa smania che lasciava intender chiaramente quel sospetto, levò l’arcigna faccia e gli domandò, squadrandolo biecamente: – Lei non l’ha trovata? – egli, che pur si struggeva di non poter più ormai cacciarsi due dita in tasca per restituirgliela, ebbe naturalmente, per quello stesso struggimento, un fiero scatto e, arrossendo fin nel bianco degli occhi, le rispose:

             –   Siete matta?

             Il caffettiere e i pochi avventori gli diedero ragione e, appena la vecchia piangendo e brontolando se ne fu andata, gli dissero che era una poveraccia da compatire, mezzo svanita di cervello e stordita sempre dal caffè e dai liquori che ingozzava, dacché le era morta all’ospedale l’unica figliuola.

             Il Noccia ora si sentiva su le spine; voleva subito pagare e andar via. Intanto, aveva messo la borsetta della vecchia nello stesso taschino ove teneva la sua. Se, nel cavar questa, fosse venuta fuori anche quell’altra? Si sentiva tutto il sangue alla testa, e gli occhi gli brillavano come per febbre. Trasse dalla tasca in petto il portafogli gonfio di carte da cento.

             – Non avrebbe spicci? – gli domandò il caffettiere, meravigliato.

             Ed egli non trovò la voce per rispondergli; disse di no, col capo. Uno degli avventori si profferse di cambiar lui il biglietto, e il Noccia, lasciando una mancia di cinque lire, uscì dal caffeuccio.

             Appena fuori, il suo primo pensiero fu quello di buttar via la borsetta in qualche angolo nascosto. Ma quell’ultima notizia che gli avevano dato della vecchia nel caffè, che ella cioè era una poveretta mezzo impazzita per la morte della figliuola, gli fece stimare più che mai indegno quell’atto. Pur ammesso che la vecchia avesse avuto il sospetto ch’egli volesse tenersi la borsetta trovata, questo sospetto in fondo non era ingiusto, poiché egli veramente, contro la sua volontà, ridendo prima come uno scemo, poi scostandosi e alzandosi per farla cercar lì nel posto, aveva agito come se in realtà avesse voluto appropriarsi di quella borsetta. E buttandola via, ora, non avrebbe avuto sempre la colpa della sottrazione? L’avrebbe trovata un altro, che non avrebbe sentito l’obbligo di restituirla, l’obbligo che ne aveva lui, lui che conosceva a chi essa apparteneva e gliel’aveva negata in faccia. No, no: buttarla via sarebbe stato un atto anche più vile di quel che aveva dianzi commesso. Pensò allora che quei pochi avventori del caffeuccio e il caffettiere avevano dovuto accorgersi dal suo portafogli ben fornito ch’egli era un signore, un signore il quale poteva permettersi il lusso d’offrire a quella povera vecchia un compenso di dieci o venti lire per la borsetta perduta. Ecco, sì. Avrebbe lasciato al banco venti lire alla presenza di quei testimoni, o avrebbe domandato al caffettiere l’indirizzo della vecchia per recarsi lui stesso a dargliele.

             E il Noccia ritornava con questo proposito sui proprii passi, quand’ecco, lì presso l’entrata del caffeuccio, di nuovo la vecchia che, tenendosi con ambo le mani i cerfugli lanosi spioventi su gli occhi, andava curva e piangente, guardando in terra, ancora in cerca della sua borsetta. Il Noccia la fermò, toccandole lievemente una spalla; trasse dal portafogli due biglietti da dieci lire e, tutto commosso per la buona azione che faceva, glieli porse, balbettando che li accettasse per la perdita sofferta. Ma si vide tutt’a un tratto acciuffato dalla vecchia, la quale, scrollandolo furiosamente, si mise a strillare:

             – Venti lire? A chi le dai? Ah, ladro! E il resto? Venti lire sole mi dai? Al ladro! al ladro!

             Accorse gente da tutte le parti, accorsero anche due guardie di questura e al Noccia che, dapprima stordito, poi abbrancato da cento braccia aveva preso a divincolarsi inferocito, fu trovata addosso la borsetta, nella quale, sissignori, c’era la piastra da cinque, ma c’erano anche due vecchi marenghi da venti lire e non due monetine da due centesimi, come al Noccia era sembrato a prima vista, là, nel caffeuccio. Perciò la vecchia reclamava con tanta rabbia il resto.

             Ma anche cento lire, anche duecento, anche mille, gliene avrebbe date ora il Noccia. E cavava dalla tasca il portafogli. Se non che, anche quel portafogli, come la borsetta, siamo giusti, poteva ormai credersi rubato. E il Noccia fu trascinato in questura.

             Ora, è certo che a un ladro non passa per il capo di restituire una parte del suo furto. Ma anche generalmente si crede che neppure a un galantuomo possa passare per il capo di mettersi in tasca una borsetta che non gli appartiene, e di negarlo poi in faccia, così come il Noccia aveva fatto. Bisognava dunque trattenerlo in arresto e domandar ragguagli in Sicilia sul conto di lui.

             Non sarebbe stato serio prestar fede alla persecuzione di un certo spirito maligno, di cui quell’arrestato farneticava.

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