Premessa
Avvertenza, Personaggi, Atto Primo
Atto secondo
Atto terzo
N’ Sicilianu – Liolà
««« Elenco delle opere in versione integrale
««« Introduzione al Teatro di Pirandello.
1916
Liolà
Atto Terzo
La stessa scena del primo atto. È tempo di vendemmia. Presso la porta del magazzino si vedono ceste e panieri. Tuzza è seduta sul rustico sedile di pietra e cuce il corredino del bimbo nascituro. Zia Croce, col «manto» su le spalle e un fazzoletto in capo, viene dal fondo.
ZIA CROCE. Tutti arricchiti! Non vuol venire nessuno.
TUZZA. Doveva aspettarselo!
ZIA CROCE. Non sono mica andata a invitarle a sedere a tavola con me! Con la roccia addosso, più sozze del cantone all’uscita del paese, non han neppure paglia per buttarsi a dormire, e sissignori, le chiamo per guadagnarsi un tozzo di pane, a una fa male il braccio, a un’altra la gamba…
TUZZA. Gliel’avevo detto di non andare a pregarle!
ZIA CROCE. È l’invidia, che se le mangia vive; e si fingono sdegnate! – Mi tocca intanto salire al paese a far le opere per quattro grappoli d’uva, se non voglio che se li mangino le vespe. – È già in ordine il palmento?
TUZZA. In ordine, in ordine.
ZIA CROCE. Le ceste son qua pronte, pronto tutto, e mi mancano le braccia! Lui solo, Liolà, ha promesso di venire.
TUZZA. Ah, ha voluto proprio incaponirsi a chiamarlo?
ZIA CROCE. Apposta, sciocca! Per far vedere che non c’è stato nulla.
TUZZA. Ma se ormai lo sanno finanche le pietre!
ZIA CROCE. Non per lui, a ogni modo, che l’ha sempre negato, e mi costa! Gliene sono grata. Non l’avrei mai creduto! E quando lo nega lui, lascia pur cantare gli altri finché non scoppiano come le cicale!
TUZZA. Va bene. Però io – gliel’avverto – mi chiudo in casa, e non caccio più fuori neanche la punta del naso. Non posso più vedermelo davanti!
ZIA CROCE. Ora eh? ora non puoi più vedertelo davanti? – Forca! – Son parecchi giorni intanto che tuo zio non si fa vedere.
TUZZA. Ha mandato a dire che non si sente bene.
ZIA CROCE. Se c’era lui, a buon conto, mi levava da quest’impiccio della vendemmia. Ma nascerà, nascerà questo figlio! Non mi par l’ora! Quando l’avrà qua – ora che l’ha riconosciuto per suo davanti a tutti – avrà un bel chiamarselo accanto sua moglie! La sua casa sarà qua. Dove sono i figli è la casa.
(A questo punto si presenta davanti la tettoja, ilare e accaldata, la Moscardina.)
LA MOSCARDINA. È permesso, zia Croce?
ZIA CROCE. Oh, voi Moscardina?
LA MOSCARDINA. A servirla. Le annunzio che vengono, sa? Tutte!
ZIA CROCE. Ah! E ch’è accaduto? Vi vedo così contenta!
LA MOSCARDINA. Sì, sì, contenta, sono proprio contenta, zia Croce!
ZIA CROCE. Ih, e tutta rossa come un peperone! Siete venuta di corsa?
LA MOSCARDINA. Corro sempre, io, zia Croce. Sa come si dice? «Gallina che va e gira, col gozzo pieno si ritira». E poi, tempo di vendemmia! Anche loro, le ragazze, vedrà, tutte festanti!
ZIA CROCE. O come mai? Le ho vedute poco fa con tanto di muso; nessuna voleva venire: e ora sono tutte pronte e festanti?
TUZZA. Se fossi in lei, non vorrei più io, ora, e andrei su al paese a far la ciurma.
ZIA CROCE. No. Mi piace anzi che si levi ogni ruggine tra vicine. Di tutta questa allegria, piuttosto, vorrei saper la ragione…
LA MOSCARDINA. Ma forse perché han saputo che verrà Liolà. Questo Liolà, creda, zia Croce, è una cosa… una cosa… Pare che abbia fatto lega col diavolo!
ZIA CROCE. Ne ha combinata qualche altra delle sue?
LA MOSCARDINA. Non so. Ma il fatto è che mette nel cuore di tutti l’allegria. Una ne fa e cento ne pensa. E le ragazze, dove c’è lui, vengono contente! – Canta, ecco, lo sente? Viene cantando con le ragazze e i tre piccini che gli saltano attorno. – Guardi! Guardi!
(Si sente difatti un coro campestre intonato da Liolà. Poi Liolà entra sotto la tettoja con Ciuzza, Luzza, Nela e altri contadini e contadine e i suoi tre cardelli, e si mette a improvvisare, battendo i piedi in cadenza.)
LIOLÀ. Ullarallà!
Pesta bene, tu qua!
Pesta bene, pesta bene, pesta bene,
che più pesti nel tinello
e più forte il vin ti viene!
Più di quello
dell’altr’anno, Liolà!
CORO. Ullarallà! Ullarallà!
LIOLÀ. Ogni maglio,
senza sbaglio,
se tu pesti bene, compare,
un barile te ne farà!
un barile che a berne un sorsetto
a terra mi getto
col male di mare
perché vagellare
la testa mi fa.
Ullarallà! Ullarallà!
CORO. Ullarallà! Ullarallà!
LIOLÀ. Cara zia Croce, rieccoci qua!
(La ciurma ride, salta e batte le mani.)
ZIA CROCE. Ih, che allegria! Davvero festanti siete! Che miracolo è questo?
LIOLÀ. Nessun miracolo, zia Croce. «Chi cerca trova, e chi seguita vince!»
(Le ragazze ridono.)
ZIA CROCE. Che vuol dire?
LIOLÀ. Niente. Proverbio.
ZIA CROCE. Ah sì? E senti allora quest’altro: «Suono e canzoni son cose di vento».
LIOLÀ (subito). «E il tavernajo vuol esser pagato!»
ZIA CROCE. È giusto! Patti chiari. Faremo come l’altr’anno, eh?
LIOLÀ. Ma sì, non si confonda! Ho detto per farle vedere che sapevo il proverbio e anche il séguito.
ZIA CROCE. E allora sbrighiamoci, ragazze; prendete le ceste e fate con garbo; non c’è bisogno che ve lo raccomandi.
LIOLÀ. Ho portato i bambini per piluccare qualche acinetto lasciato.
ZIA CROCE. Purché non s’appendano ai bronconi quando non ci arrivano con le mani!
LIOLÀ. Ah, non c’è pericolo. Educati alla scuola di papà. Il grappolo alto, a cui non s’arriva con la mano, si lascia lì e non gli si dice eh’è acerbo. (Altra risata delle ragazze.) Che c’è da ridere? Non sapete la favola della volpe? – Basta. Qua nel palmento è tutto pronto?
ZIA CROCE. Sì, sì, tutto pronto.
LIOLÀ (prendendo le ceste e i panieri e distribuendoli alle ragazze e ai giovani). E allora, via, su, prendete… ecco qua! prendete… E via cantando: Ullarallà! Ullarallà! (Via dal fondo con la ciurma, cantando.)
ZIA CROCE (gridando loro dietro). Cominciate da giù, ragazze, di filare in filare, salendo a poco a poco! E date un occhio ai piccini! (Poi, a Tuzza): Scendi con loro, rompiti il collo! Debbo guardarli io sola gl’interessi?
TUZZA. No, no, gliel’ho detto, non vado!
ZIA CROCE e. Chi sa che scempio ne faranno, quell’affamate! – Hai visto, intanto, come guardavano? che sfavillio d’occhi?
TUZZA. Ho visto, ho visto.
ZIA CROCE. Per quel pazzo! – (Guardando fuori, in quel momento, scorge zio Simone.)Oh, ecco tuo zio… Ma guarda, butta le gambe come se non fossero sue… Dev’esser malato davvero!
(Si presenta sotto la tettoja zio Simone, tutto ingrugnato.)
ZIO SIMONE. Cara cugina, buon giorno. Buon giorno, Tuzza.
TUZZA. Buon giorno.
ZIA CROCE. Non state bene, cugino? Che avete?
ZIO SIMONE (grattandosi il capo sotto la berretta padovana). Guaj, cugina, guaj.
ZIA CROCE. Guaj? Che guaj potete avere voi?
ZIO SIMONE. Io no, veramente… anzi, io…
ZIA CROCE. Sta male forse vostra moglie?
ZIO SIMONE. Eh… dice… dice che… insomma…
ZIA CROCE. Insomma, che? Parlate; ho fuori le opere e voglio andare a badarle.
ZIO SIMONE. Avete cominciato a vendemmiare?
ZIA CROCE. Sì, proprio ora.
ZIO SIMONE. Senza dirmene nulla?
ZIA CROCE. Non vi fate vedere da due giorni! Mi son pigliate anzi certe bili con tutte queste vipere del vicinato! Non volevano venire, e poi, tutt’a un tratto, chi sa perché, son venute tutte, e ora sono giù con le ceste.
ZIO SIMONE. Sempre con la furia, voi, cugina!
ZIA CROCE. Io? Furia? Che furia? Le vespe stavano a mangiarsi tutto…
ZIO SIMONE. Non dico soltanto per la vendemmia… dico per altro… dico anche per me… Non so che gusto rompersi il collo per non dar mai tempo al tempo!
ZIA CROCE. Oh infine, si può sapere che avete dentro? Buttatelo fuori! Vedo che volete pigliarvela con me…
ZIO SIMONE. No, non me la piglio con voi, cugina; con me, me la piglio, con me!
ZIA CROCE. Per la furia?
ZIO SIMONE. Appunto: per la furia.
ZIA CROCE. A proposito di che?
ZIO SIMONE. Di che! Vi par poco il peso che porto addosso? È venuto jeri a trovarmi mio compare Cola Randisi! –
ZIA CROCE. – Ah sì, l’ho visto passare di qua. –
ZIO SIMONE. – s’è fermato a parlarvi? –
ZIA CROCE. – no, ha tirato via di lungo –
TUZZA. – tirano via di lungo tutti, ora, passando di qua!
ZIO SIMONE. Tirano via di lungo, figliola mia, perché la gente, vedendomi qua, si figura… si figura ciò che per grazia di Dio non è, né è stato mai. La coscienza nostra è pulita; ma l’apparenza, purtroppo…
ZIA CROCE. E va bene, va bene… Lo sappiamo, zio Simone, e dovevamo immaginarcelo prima, che tutti gl’invidiosi si sarebbero comportati così. A parlarne, adesso… (A Tuzza): Anche tu, sciocca!
ZIO SIMONE. Eh, ma la faccia, cugina, vengono a beccarla a me tutti quelli che, passando di qua, tirano via di lungo!
ZIA CROCE. Mi dite, insomma, che diavolo è venuto a dirvi questo vostro compare Cola Randisi?
ZIO SIMONE. È venuto a dirmi appunto: «Maledetta la furia!», se volete saperlo. In faccia a mia moglie ha sostenuto che s’è dato il caso d’aver figli, non dopo quattr’anni, ma anche dopo quindici dal matrimonio.
ZIA CROCE. Oh! Stavo ancora a sentire che abbia potuto dirvi da farvi stare così sopra pensiero! – E dite un po’: che gli avete risposto voi? – Quindici anni? – sessanta, più quindici, quanto fanno? settantacinque, mi pare. – Cugino, a sessanta no; e a settantacinque sì?
ZIO SIMONE. O chi v’ha detto, a sessanta no?
ZIA CROCE. Eh, il fatto, cugino.
ZIO SIMONE. No, cugina. Il fatto è… (Esita a dire.)
ZIA CROCE. Che è?
ZIO SIMONE. Che a sessanta sì.
ZIA CROCE. Che?
ZIO SIMONE. Sì, sì. Proprio così.
ZIA CROCE e. Vostra moglie?
ZIO SIMONE. Me l’ha confidato stamattina.
TUZZA (mangiandosi le mani). Ah! Liolà!
ZIA CROCE. Ve l’ha fatta!
TUZZA. Ecco perché erano tutte festanti quelle vipere là! «Chi cerca trova, e chi seguita vince!»
ZIO SIMONE. O oh, non andiamo dicendo ora!
ZIA CROCE. Avreste il coraggio di credere che il figlio è vostro?
TUZZA. Liolà! Liolà! Gliel’ha fatta! Gliel’ha fatta, e me l’ha fatta, assassino!
ZIO SIMONE. Non andiamo dicendo… non andiamo dicendo…
ZIA CROCE. Ve la siete guardata così la moglie, vecchio imbecille?
TUZZA. E glielo dissi! Cento volte glielo dissi, di guardarsi da Liolà!
ZIO SIMONE. O oh, badate, non vi mettete in bocca Liolà, adesso, perché a mia moglie io le comandai di star zitta quando mi buttò in faccia per te la stessa accusa, ch’era vera!
ZIA CROCE. E ora, no? non è più vera ora per vostra moglie, vecchio becco?
ZIO SIMONE. Oh! cugina, volete per Cristo che faccia uno sproposito?
ZIA CROCE. Ma via, levatevi! Come se non sapessimo –
ZIO SIMONE. – che cosa? –
ZIA CROCE. – quello che sapete anche voi, e meglio di tutti!
ZIO SIMONE. Io so che qua con vostra figlia non ho avuto mai nulla da spartire: ho fatto un’opera di carità, e nient’altro. Ma, con mia moglie, ci sono stato io, ci sono stato io!
ZIA CROCE. Sì, quattr’anni senza frutto! Andate, andate a domandare adesso chi c’è stato con vostra moglie!
TUZZA. E opera di carità, ha il coraggio di dire!
ZIA CROCE. Già! Dopo che s’è vantato davanti a tutti, davanti alla sua stessa moglie che il figlio era suo, per prendersi questa soddisfazione, sapendo bene che non poteva prendersela altrimenti!
TUZZA (cangiando animo, d’improvviso). Basta! Basta! Non gridi più, ormai! Basta!
ZIA CROCE. Ah no, cara mia! Vuoi che mi rassegni così?
TUZZA. E che altro vorrebbe fare? Se si prendeva il mio, pur sapendo di chi era, si figuri se non vorrà riconoscere per suo questo che gli darà ora sua moglie –
ZIO SIMONE. – e ch’è mio! mio! mio! – e guaj a chi s’attenta a dir cosa contro mia moglie… (A questo punto appare dal fondo Mita, placidissima.)
MITA. Oh, e che è qua tutto questo baccano?
TUZZA. Vattene, Mita, vattene via, non mi cimentare!
MITA. Io, Tuzza, cimentarti? Non sia mai!
TUZZA (lanciandosi per afferrarla). Levatemela davanti! levatemela davanti!
ZIO SIMONE (parandola). O oh! Ci sono io!
ZIA CROCE. Hai la tracotanza di presentarti qua? Via! Via! Fuori!
MITA (indicandola al marito). Ma guardate un po’ chi parla di tracotanza!
ZIO SIMONE. No, tu no, tu non t’immischiare, moglie mia! Tornatene a casa, tu! E lascia che ti difenda io!
MITA. No, aspettate, voglio ricordare a Tuzza un nostro motto antico: «Chi tarda e non manca, non si chiama mancatore». Ho tardato, sì, è vero, ma non ho mancato. Tu sei andata avanti e io ti son venuta appresso.
TUZZA. Per la mia stessa strada mi sei venuta appresso!
MITA. No, cara! la mia è dritta e giusta; la tua, torta e falsa.
ZIO SIMONE. Non agitarti, non agitarti così, moglie mia! Te lo fanno apposta, non vedi?, per farti arrabbiare! Va’, va’, da’ ascolto a me! A casa! a casa!
ZIA CROCE. Ma guardatelo! Ma sentitelo! «Moglie mia!»
TUZZA (a Mita). Hai ragione! Hai ragione! Hai saputo farla meglio di me! Tu i fatti, e io le parole!
MITA. Parole? Non pare!
ZIA CROCE. Parole, parole, sì! Perché qua non c’è l’inganno che pare! L’inganno è in te, che non pare!
ZIO SIMONE. Oh insomma, la finiamo sì o no?
ZIA CROCE. Lo vedi? Per te c’è tuo marito, ora, che ti ripara, ingannato! Mentre mia figlia, no, suo zio non lo volle ingannare: gli si buttò ai piedi piangendo, come Maria Maddalena!
ZIO SIMONE. Quest’è vero! quest’è vero!
ZIA CROCE. Ecco, vedi? te lo dice lui stesso! lui ch’è la causa di tutto il male, per potersi vantare davanti a te, davanti a tutto il paese…
MITA. E voi lo permetteste, zia Croce? Oh guarda! A costo dell’onore di vostra figlia? Ma l’inganno, sì, è proprio dove non pare: nelle ricchezze di mio marito, di cui a costo della vostra stessa vergogna volevate appropriarvi!
ZIO SIMONE. Basta! Basta! Basta! Invece di far codeste chiacchiere inutili e accapigliarvi per non concludere nulla, cerchiamo di venire al rimedio, adesso, tutti d’accordo. Siamo in famiglia!
ZIA CROCE. Rimedio? Che rimedio volete che ci sia più, vecchio stolido? Siamo in famiglia, dice! Il rimedio lo troverete voi, voi, a tutto il danno che avete fatto a mia figlia per la soddisfazione che vi voleste prendere!
ZIO SIMONE. Io? Io ho da pensare a mio figlio, adesso. Al vostro ci penserà suo padre. – Liolà non potrà negare in faccia a me che il figlio è suo.
TUZZA. Quale?
ZIO SIMONE (stordito dalla domanda che lo avrà colpito come una pugnalata a tradimento). Che vuol dire, quale?
MITA (subito). Ma il tuo, cara! Quale vuoi che sia? Io ho qua mio marito che non può dubitare di me.
ZIO SIMONE. Oh insomma, la finite tutt’e due, madre e figlia? Ora che mia moglie ha voluto darmi questa consolazione non deve amareggiarsi il sangue con le vostre parole. Lasciate che parli io con Liolà. (Si sente da lontano appressare a poco a poco il coro delle vendemmiatrici.)
TUZZA. Ah no, basta! Non s’arrischi a parlare per me! Guaj a lei se lo fa!
ZIO SIMONE. Tu te lo prenderai perché è giusto così. Lui solo potrà darti uno stato, e fare che nasca legittimo il figlio che è suo. Vuol dire che, a persuaderlo, penserò io, facendo ciò che il cuore mi detterà. Eccolo che viene. Lasciate parlare a me.
(Liolà ritorna con la ciurma, cantando a coro un canto di vendemmia. Appena sotto la tettoja, vedendo Mita e zio Simone, e le facce stravolte di zia Croce e di Tuzza, la ciurma che reca come in trionfo le ceste colme d’uva, si ferma e tronca il coro. Solo Liolà, come se non volesse accorgersi di nulla, seguita a cantare e a farsi avanti con la sua cesta per andare a vuotarla dalla finestra del palmento.)
ZIA CROCE (facendosi incontro). Basta, basta! Votate le ceste, ragazze, e poi buttatele lì. Non ho più testa da badare a voi in questo momento.
LIOLÀ. E perché? Ch’e avvenuto?
ZIA CROCE (alle donne). Andate, andate, vi dico! Poi, se mai, vi richiamerò.
ZIO SIMONE. Tu vieni qua, Liolà!
(In fondo alla tettoja la Moscardino, Ciuzza, Luzza, Nela e le altre donne circondano Mita e le fanno un mondo di feste per la consolazione che ha dato a tutte. Tuzza le guata e si macera dentro; pian piano si tira indietro fino alla porta di casa e vi si caccia dentro.)
LIOLÀ. Vuole me? Eccomi qua.
ZIO SIMONE. Cugina, venite qua anche voi.
LIOLÀ (con aria di comando). Zia Croce, sotto!
ZIO SIMONE. Oggi è giorno segnato e dev’esser festa per tutti.
LIOLÀ. Benissimo! E cantare. Non come dice zia Croce, che suono e canzoni sono cose di vento. Se sono di vento, son cose mie; perché io e il vento, zio Simone, siamo fratelli.
ZIO SIMONE. Lo sappiamo, lo sappiamo tutti che sei sventato. Ora è tempo però di metter giudizio, caro mio!
LIOLÀ. Giudizio? Muojo.
ZIO SIMONE. Stammi a sentire, Liolà. Prima di tutto, debbo darti parte e consolazione che Dio finalmente ha voluto farmi la grazia –
ZIA CROCE. – senti, senti bene questa partecipazione, tu che non ne sai nulla! –
ZIO SIMONE. – insomma, v’ho detto di lasciar parlare a me –
LIOLÀ. – lo lasci parlare! –
ZIA CROCE. Eh sì, parlate, parlate… Ha voluto farvela Dio veramente, questa grazia!
ZIO SIMONE. Sissignora, la grazia che, dopo quattr’anni, mia moglie alla fine s’è decisa…
LIOLÀ. Ah sì? davvero? sua moglie? le faccio a tamburo una poesia!
ZIO SIMONE. Aspetta! Aspetta! Che poesia!
LIOLÀ. Mi permetta che vada a farle il prosit almeno!
ZIO SIMONE. Aspetta, ti dico, per l’anima di…
LIOLÀ. Oh, non s’arrabbi! Deve sentirsi ai sette cieli, e s’arrabbia? – Via, l’ho qua sulla punta della lingua!
ZIO SIMONE. Lascia stare, t’ho detto, la poesia, che un’altra cosa tu hai da fare qua, adesso.
LIOLÀ. Io? Non so fare altro, io, zio Simone!
ZIA CROCE. Già… proprio… non sa far altro lui, poverino… (Gli s’accosta, gli afferra un braccio e gli dice sotto sotto, tra i denti): Due volte m’hai rovinato la figlia, assassino!
LIOLÀ. Io, la figlia? Osa dir questo, lei a me, davanti a zio Simone? Glie’ha rovinata lui, due volte, la figlia, non io!
ZIA CROCE. No, no, tu! tu!
LIOLÀ. Lui! Lui! zio Simone! Non scambiamo le carte in mano, zia Croce! Io venni qua a domandare onestamente la mano di sua figlia, non potendo mai supporre…
ZIA CROCE. Ah, no? Dopo quello che avevi fatto con lei?
LIOLÀ. Io? zio Simone!
ZIA CROCE. Zio Simone, già! Proprio zio Simone!
LIOLÀ. Oh, parli lei, zio Simone! Vorreste negare, adesso, e gettare il figlio addosso a me? – Non facciamo scherzi! – Io ho tanto ringraziato Dio che m’ha guardato d’esser preso nella rete, in cui, senza sospetto di nulla, ero venuto a cacciarmi. – Alla larga, zio Simone! Che razza di vecchio è lei, si può sapere? Non le bastava un figlio con sua nipote? Uno, anche con sua moglie? E che cos’ha in corpo? Le fiamme dell’inferno o il fuoco divino? il diavolo? il Mongibello? Dio ne scampi e liberi ogni figlia di mamma!
ZIA CROCE. Eh già, proprio da lui, proprio da lui devono guardarsi le figlie di mamma!
ZIO SIMONE. Liolà, non farmi parlare! Non farmi fare, Liolà, ciò che non debbo e non voglio fare! Vedi che tra me e mia nipote, non c’è stato, né poteva esserci, peccato! C’è stato solo che mi si buttò ai piedi pentita di ciò che aveva fatto con te, confessandomi lo stato in cui si trovava. Mia moglie adesso sa tutto. E io sono pronto a giurarti davanti a Gesù sacramentato e davanti a tutti, che mi son vantato a torto del figlio che, in coscienza, è tuo!
LIOLÀ. E intende, con questo, che io ora dovrei prendermi Tuzza?
ZIO SIMONE. Te la puoi e te la devi prendere, Liolà, perché, com’è vero Dio e la Madonna Santissima, non è stata d’altri che tua!
LIOLÀ. Eh – eh – eh – come corre lei, caro zio Simone! – Volevo, sì, prima. Per coscienza, non per altro. Sapevo che, sposando lei, tutte le canzoni mi sarebbero morte nel cuore. – Tuzza allora non mi volle. – La botte piena e la moglie ubriaca? Zio Simone, zia Croce, le due cose insieme non si possono avere! – Ora che il giuoco v’è fallito? – No no, ringrazio, signori! ringrazio. (Si piglia per mano due dei ragazzi.) Andiamo, andiamo via, ragazzi! (S’avvia, poi torna indietro.) Posso farmi di coscienza: questo sì. Gira e volta, vedo che qua c’è un figlio di più. Bene, non ho difficoltà. Crescerà il da fare a mia madre. Il figlio, lo dica pure a Tuzza, zia Croce, se me lo vuol dare, me lo piglio!
TUZZA (che se n’è stata tutta aggruppata in disparte, schizzando fuoco dagli occhi, a quest’ultime parole si lancia contro Liolà con un coltello in mano). Ah sì, il figlio? Pigliati questa, invece! (Tutti gridano, levando le mani e accorrendo a trattenerla. Mita si sente mancare ed è sorretta e subito confortata da zio Simone.)
LIOLÀ (pronto ha ghermito il braccio di Tuzza, e con l’altra mano le batte sopra le dita fino a farle cadere il coltello a terra, ride e rassicura tutti, che non è stato nulla). Nulla, nulla… non è stato nulla… (Appena a Tuzza cade il coltello, subito vi mette il piede sopra, e dice di nuovo con una gran risata): Nulla! (Si china a baciare la testa d’uno dei tre bambini; poi, guardandosi nel petto un filo di sangue): Uno sgraffietto, di striscio… (Vi passa sopra il dito e poi va a passarlo sulle labbra di Tuzza.) Eccoti qua, assaggia! – Dolce, eh? – (Alle donne che la trattengono): Lasciatela! (La guarda; poi guarda i tre bambini, pone le mani sulle loro testoline, e dice, rivolto a Tuzza):
Non piangere! Non ti rammaricare!
Quando ti nascerà, dammelo pure.
Tre, e uno quattro! gl’insegno a cantare.
Tela
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