Premessa
Avvertenza, Personaggi, Atto Primo
Atto secondo
Atto terzo
N’ Sicilianu – Liolà
««« Elenco delle opere in versione integrale
««« Introduzione al Teatro di Pirandello.
1916
Liolà
Atto Secondo
Parte del casale. A sinistra, quasi a metà della scena, la rustica casupola di Gesa. Se ne vede il davanti, e, di sguincio, il lato manco. Sul davanti è una porticina che dà sull’orto, riparato lateralmente, cioè dallo spigolo della casa fino al proscenio, da una siepe di rovi secchi, con un passaggio in mezzo, a mo’ di rastrello. Nel lato manco della casupola si vede un’altra porta, che è quella di strada. Nel lato destro della scena, la casa di Liolà, con porta e due finestre. Tra la siepe dell’orto e la casa di Liolà è una straducola di campagna.
Al levarsi della tela Gesa è seduta nell’orto, intenta a sbucciare patate, con un grosso colapasta di stagno tra le gambe. I tre ragazzi di Liolà le stanno attorno.
GESA. Sei bravo davvero, tu Pallino?
PALLINO. Bravo, sì.
CALICCHIO. Anch’io!
GESA. Anche tu?
TININO. E anch’io! anch’io!
GESA. Ma chi più, di voi tre?
PALLINO. Io, io!
CALICCHIO. No, io! io!
TININO. No, no, io! io! io!
GESA. Tutt’e tre, tutt’e tre! Bravi a un modo tutti e tre! Pallino però è il più grandicello, non potete negarlo! E dunque, tu Pallino, di’ un po’ : sapresti andare a cogliermi là – là, vedi?(indica un punto nell’orto, alla sua destra, fuori scena) – tre cipolline?
PALLINO. Sì, sì. (Fa per correre.)
GESA. Aspetta!
CALICCHIO. Anch’io! anch’io!
TININO. Anch’io!
GESA. Buoni, buoni, una cipollina per uno! una per uno! Vi condurrà Pallino.
TUTT’E TRE (correndo al punto indicato). Sì, sì, sì.
GESA. Piano! Tre sole! Bravi, così, così! Basteranno!
(I tre ragazzi ritornano, ciascuno con una cipollina in mano.)
GESA. Ah, è proprio vero, tutt’e tre bravi allo stesso modo.
(A questo punto dalla casa di Liolà si sente la voce di zia Ninfa che chiama con un verso che dev’esserle abituale.)
VOCE DI ZIA NINFA. Pallino, Calicchio, Tinino.
GESA. Sono qua con me, zia Ninfa, stia tranquilla.
ZIA NINFA (mostrandosi alla porta). Appiccicati a voi come le mosche! Venite dentro, subito dentro!
GESA. Li lasci stare, zia Ninfa: non mi danno fastidio. Anzi, m’ajutano.
ZIA NINFA. Se vi danno fastidio, cacciateli via!
GESA. Non dubiti, con me stanno quieti come tre tartarughine.
ZIA NINFA Così va bene. (Rientra in casa.)
GESA. Altrimenti, papà, appena di ritorno… – dite un po’: che fa, che fa, papà?
PALLINO (serio serio). C’insegna a cantare.
GESA. E non vi suona anche sul culetto, se non siete buoni e fate dannar la nonna?
(Dal fondo della straducola sopravviene Ciuzza che si ferma e s’affaccia alla siepe.)
CIUZZA. Per piacere, zia Gesa, avrebbe da prestare a mia madre uno spicchietto d’aglio?
GESA. Sì, vieni, vieni dentro, Ciuzza (indica alle sue spalle l’uscio di casa), va’ pure a prenderlo da te.
CIUZZA. (spingendo il rastrello ed entrando.) Grazie, zia Gesa. Li ha sempre qua con lei questi ragazzi? Carini! Chi non vorrebbe far loro da mamma?
GESA. Eh, tu con tutto il cuore, m’immagino!
CIUZZA.. Dico, per carità, badiamo, zia Gesa!
GESA. Ah, certo! Per carità! chi può metterlo in dubbio?
CIUZZA.. Mi dica intanto una cosa. Liolà…
(Sopravvengono dal fondo della straducola Luzza e Nela, che s’affacciano anch ’esse alla siepe.)
LUZZA. Zia Gesa, ci vuole? Uh, guarda, c’è anche Ciuzza!
GESA. (Ecco le altre due!)
NELA. Siamo venute per ajutarla, zia Gesa! Sta a sbucciar le patate?
GESA. Volete ajutarmi? Dio vi benedica, come siete massaje! (Pare che ci sia il vischio in quest’orticello.) Entrate, entrate pure. Non è ancora tornato però. (Allude maliziosamente a Liolà.)
NELA (fingendo di non capire). Chi, zia Gesa?
GESA. Chi? Mozzica il ditino!
LUZZA (sedendo sulle calcagna davanti a Gesa). Dia, dia qua, ho il coltellino: l’ajuto a sbucciare.
GESA. Ma non così! Su, Pallino, va’ a prendere una seggiola!
NELA. Vado io, vado io, zia Gesa! (Va e ritorna con tre seggiole.)
GESA. Così, belle, tutt’e tre sedute qua, e solo per ajutar me! Non vorrei intanto che tua madre, Ciuzza, stia ad aspettare quello spicchietto d’aglio!
CIUZZA. No, che! Le serve per stasera.
GESA. Eh, mi pare che sia già sera! – Fate conto ch’è qua. (Allude di nuova a Liolà.)
CIUZZA. (fingendo anche lei di non capire). Chi, zia Gesa?
GESA. Il gatto! – Mózzica il ditino anche tu!
LUZZA. Intende Liolà?
GESA. Maliziosa, io; non lo sai?
CIUZZA.. Le volevo domandare, zia Gesa, se è vero che Tuzza della zia Croce non ne ha voluto sapere.
GESA (fingendo di non capir lei, questa volta). Sapere, di chi?
LUZZA (mentre le altre ridono). Ah, lo mózzichi lei, ora, il ditino!
NELA. Io ho sentito dire che è stata la madre: zia Croce.
LUZZA. Lei non ne sa nulla?
CIUZZA.. Ma no, dicono che è stata proprio lei, Tuzza.
NELA. Tuzza? Ma se… (si tura la bocca) – via, non mi fate parlare!
LUZZA. Ma lui, Liolà, che ne dice? Lo vorremmo sapere!
GESA. Lo volete sapere da me? Andate a domandarlo a lui!
CIUZZA.. Per me ci avrei un gusto!
LUZZA. Ah, anch’io!
NELA. E anch’io, anch’io!
CIUZZA.. Gli pareva che tutte le donne, appena con la mano faceva così, si sarebbero buttate dalle finestre a terra per lui!
GESA. Vojaltre no, nessuna delle tre!
LUZZA. Chi lo calcola?
CIUZZA.. Chi lo cerca?
NELA. Chi lo vuole?
GESA. Eh, si vede!
LUZZA. Perché ora siamo qua a domandarle…?
NELA. Siamo qua perché vorremmo sentire come lo fa cantare il dispetto!
CIUZZA.. Deve friggere, friggere, me l’immagino!
LUZZA. Che fa, canta? canta?
NELA. Dica, dica, zia Gesa! Canta?
GESA (turandosi le orecchie). O oh! ragazze! che volete da me? Là c’è zia Ninfa: domandatelo a lei, se canta o non canta! (Zia Ninfa, come chiamata, si mostra su l’uscio.)
ZIA NINFA. Che cos’è? avete nel giardino le cicale, comare Gesa?
LUZZA, CIUZZA e NELA (subito confuse: a un tempo). – Niente, niente, zia Ninfa!
– Buona sera, zia Ninfa!
– (Uh, guarda, era là!)
GESA. Altro che cicale, mi pajono tre vespe, zia Ninfa, si sono attaccate a me per sapere… Luzza, Ciuzza, Nela. – No, niente!
– Non è vero!
– Non è vero!
GESA. – ma sì! se Liolà canta per dispetto, perché Tuzza della zia Croce Azzara non l’ha voluto per marito.
ZIA NINFA. Mio figlio? Chi l’ha detto?
LUZZA, CIUZZA e NELA. – Lo dicono tutti!
– E per esser vero è vero!
– Non lo neghi, zia Ninfa!
ZIA NINFA. Io non ne so nulla! Ma, ammesso che sia vero, Tuzza ha fatto bene, e meglio ha fatto zia Croce sua madre, se non ha voluto dargliela. Madre io, non dico una figlia, ma neppure una cagna vorrei affidare a uno come mio figlio Liolà. Che che! Guardàtevene, ragazze! Tutti i più neri peccatacci li ha lui! Come dal diavolo dovete guardarvene! E poi, con tre creaturine qua… – Su, su, piccini, a casa! a casa!
(A questo punto dal fondo della straducola si sentono le grida della Moscardino che viene tutta scalmanata con le mani in aria.)
LA MOSCARDINA. Gesù! Gesù! Che cose! Cose da non credersi! Non c’è più dov’arrivare!
CIUZZA.. Uh, la Moscardina! Sentite come grida?
LUZZA. Che avete?
NELA. Perché gridate così?
LA MOSCARDINA (entrando nell’orto). Che rovina! Che rovina, comare Gesa, in casa di vostra nipote!
GESA (balzando in piedi). Mia nipote? Che le è accaduto? Parlate!
LA MOSCARDINA. Fa come una Maria, con le mani nei capelli!
GESA. Perché? Perché? Ah, Madre di Dio! Lasciatemi andare! Lasciatemi andare! ( Via di corsa per la straducola, voltando e scomparendo a manca.)
LE ALTRE (a una voce). Che è accaduto a Mita? Parlate! Ch’è stato?
LA MOSCARDINA. Zio Simone, suo marito – (Le guarda, e non aggiunge altro.)
QUELLE (subito, incitandola). – Ebbene?
– Dite!
– Che ha fatto?
LA MOSCARDINA. S’è messo con sua nipote!
LUZZA, CIUZZA, NELA e ZIA NINFA (a un tempo). – Con Tuzza?
– Possibile?
– Oh guarda!
– Gesù, che dite!
LA MOSCARDINA. Proprio così! E pare che Tuzza già… (Fa di nascosto a zia Ninfa un certo gesto che lascia intendere: incinta.)
ZIA NINFA (con orrore). Madonna, liberateci!
LUZZA, CIUZZA e NELA. Che significa? Che significa? – Tuzza? – Che pare? Che ha fatto?
LA MOSCARDINA. Via, via, ragazze! Non son cose per vojaltre! via!
ZIA NINFA. Ma è certo? è certo?
LA MOSCARDINA. Lui stesso, zio Simone, è andato a vantarsene con la moglie!
ZIA NINFA. Ha avuto questa impudenza?
LA MOSCARDINA. Sì: ch’era vero che non mancava per lui; e che se avesse preso in moglie sua nipote, a quest’ora, non uno, tre figli avrebbe potuto avere!
CIUZZA. (a zia Ninfa). Ma scusi, non se la diceva con suo figlio Liolà Tuzza fino a jeri?
ZIA NINFA. T’ho detto che non ne so nulla!
LA MOSCARDINA. Oh, zia Ninfa, non facciamo storie! Lo negherebbe? O davvero si vuol bere che zio Simone da sé…? Madre e figlia d’accordo, hanno messo il vecchio nel sacco!
ZIA NINFA. Che che! che che!
LA MOSCARDINA. Calunnia?
ZIA NINFA. Che c’entri mio figlio, sì!
LA MOSCARDINA. Zia Ninfa, le mani mi farei tagliare, prima l’una e poi l’altra!
CIUZZA. Anch’io!
LUZZA. Anch’io!
NELA. Lo sanno tutti!
ZIA NINFA. Tutti, e io no!
LA MOSCARDINA. Perché lei non vuol saperlo, lasciamo andare!
LUZZA. Oh, ecco qua Mita! Ecco qua Mita con sua zia!
(Mita, tutta scarmigliata e in pianto, viene giù per la straducola insieme con zia Gesa che grida correndo dal fondo alla siepe e dalla siepe di nuovo al fondo, con le mani sui fianchi, mentre nell’orto le donne confortano Mita.)
GESA. Figlia mia! Figlia mia! Dio lo deve fulminare! Le mani, le mani addosso ha osato metterle, vecchiaccio assassino! vecchiaccio scellerato! Per giunta, le mani addosso! L’ha afferrata per i capelli, strascinata per casa, pezzo da galera! Via! Via! Lasciatemi andare al paese! La consegno qua a voi, buone vicine! Vado a ricorrere alla giustizia! In galera, in galera!
LA MOSCARDINA. Fate bene! Sì, sì, andate, andate dal delegato!
ZIA NINFA. No, che delegato! Da un avvocato, piuttosto! Date ascolto a me.
GESA. Da tutt’e due, vado! in galera, vecchiaccio scomunicato! Ha avuto la tracotanza di dire che il figlio è suo, com’è vero che il sangue di Gesù Cristo è nel calice della santa messa!
ZIA NINFA (turandosi gli orecchi). Oh Dio, che cose!
GESA. E in galera anche quelle due infamacce, madre e figlia! Sgualdrine! – Lasciatemi andare! Ci arriverò di notte al paese: non importa; andrò a dormire da mia sorella. Tu sei qua a casa tua, Mita, tra queste buone vicine. Ti chiudi bene, di qua e di là. Io vado. In galera! in galera… scellerato… sgualdrine… (E, così gridando, scompare infondo alla straducola.)
LA MOSCARDINA. Separata, avrai diritto al mantenimento, non ti confondere!
ZIA NINFA. Ma che separata! Che dite! Gliela vorresti dar vinta? Tu sei e devi restare la moglie!
MITA. Ah no, basta! basta! Con lui non torno più; ne può esser certa! Neanche se m’ammazzano!
ZIA NINFA. E non capisci che van cercando proprio questo?
LA MOSCARDINA. Eh già: andare a spadroneggiare madre e figlia, in casa del vecchio e far mangiare l’aglio a tutti gli altri parenti!
MITA. Volete dunque che mi lasci pestare sotto i piedi? No, no! Non ho più nulla da spartire con lui, adesso, zia Ninfa! Ha avuto da un’altra ciò che desiderava, e ora mi vorrebbero morta, tutt’e tre!
LA MOSCARDINA. Morta? È una parola! C’è la legge, cara! Tua zia è corsa al paese.
MITA. Che legge e legge! Quattr’anni che peno! Ma sapete ch’è arrivato a gridarmi in faccia? Che non dovevo arrischiarmi a dir male di sua nipote! Sì. Perché sua nipote, dice, è una ragazza onesta!
ZIA NINFA. Onesta? Così t’ha detto?
LA MOSCARDINA. È incredibile! È incredibile!
CIUZZA., LUZZA, NELA. Onesta oh! onesta!
MITA. Così! Così! Perché s’è messa con lui; e che lui le lascerà tutto, dice; perché gli ha dato la prova, dice, che non mancava per lui, ma per me; e che la legge, anzi, dovrebbe trovarci il rimedio, per un poveruomo a cui tocchi d’imbattersi in una donna come me! Ah zia Ninfa, me lo diceva il cuore di non prendermelo! E non me lo sarei preso, se non ero –
LA MOSCARDINA. – senz’ajuto, povera orfana, è vero! –
MITA. – alle spalle di mia zia, a cui non potei dir di no! – Ero tanto tranquilla e contenta, qua, in questa casuccia, in quest’orticello. Lei lo può dire, zia Ninfa. Sotto i suoi occhi. Ma Dio penserà a castigare chi m’ha fatto questo tradimento.
LA MOSCARDINA (risoluta). Bisogna che Liolà parli, zia Ninfa!
ZIA NINFA. E dalli con Liolà! La volete finire di nominare mio figlio?
LA MOSCARDINA. Oh, ragazze, ditelo voi se non è vero!
CIUZZA, LUZZA e NELA. Sì sì, è vero! è vero! è stato lui! è stato lui!
MITA. Io so che Liolà mi voleva bene, quando stavo qua, zia Ninfa. Che colpa ho io se, soggetta com’ero, ho dovuto maritarmi con un altro?
ZIA NINFA. Ma puoi credere sul serio che Liolà te l’abbia fatto per dispetto, dopo quattr’anni?
LA MOSCARDINA. Questo no, non lo credo neanch’io. Ma se è un galantuomo, Liolà ora deve andare a gridare in faccia a quel vecchiaccio scomunicato l’inganno di quelle due schifose, madre e figlia, per rovinare questa povera donna! Ecco quello che deve fare, se è uomo di coscienza, suo figlio, zia Ninfa! Svergognare quelle due infamacce e sventare questa trama a danno d’una povera innocente! (S’è fatta sera. Si sente la voce di Liolà che ritorna a casa cantando.)
LA VOCE DI LIOLÀ.
Tutti gli amici miei me l’hanno detto,
l’uomo che prende moglie resta sotto…
LA MOSCARDINA. Ah, eccolo qua che torna cantando! Ora gli parlerò io! Glielo dirò io!
CIUZZA, LUZZA e NELA (sporgendosi dalla siepe e chiamando). Liolà! Liolà! Liolà!
ZIA NINFA. Vieni, vieni qua, figlio mio!
LA MOSCARDINA. Qua, Liolà!
LIOLÀ (alla Moscardina). Agli ordini! (Poi, alle ragazze): Oh, le colombelle!
LA MOSCARDINA. Lascia le colombelle! Vieni qua. Guarda chi c’è: Mita!
LIOLÀ. Oh, Mita… Che cos’è?
LA MOSCARDINA, È che ti devi far di coscienza, Liolà! Qua Mita piange per colpa tua!
LIOLÀ. Per colpa mia?
LA MOSCARDINA. Sì; per ciò che hai fatto con Tuzza della zia Croce Azzara.
LIOLÀ. Io? Che ho fatto?
LA MOSCARDINA. Madre e figlia vogliono dare a intendere a zio Simone che il figlio –
LIOLÀ. – il figlio? che figlio? –
LA MOSCARDINA. – ah, lo domandi? quello di Tuzza! –
LIOLÀ. – di Tuzza? che dite? Tuzza è dunque…? (Fa segno per significare: incinta?)
ZIA NINFA. Via, ragazze, andate, andate! Fatemi questo piacere!
LUZZA. Oh Dio benedetto, sempre con questo: (andate, andate…)
CIUZZA.. E con codesti discorsi che non sono per nojaltre!
LIOLÀ. Veramente non lo capisco neanch’io, questo discorso.
LA MOSCARDINA. Sì, seguita a far l’ingenuo, l’innocentino! – insomma, ve n’andate, ragazze? Non posso parlare con vojaltre qua!
CIUZZA.. Andiamo, sì, andiamo! Buona sera, zia Ninfa.
LUZZA. Buona sera, Mita.
NELA. Buona sera, comare Càrmina.
LIOLÀ. E a me niente? Neanche un salutino?
CIUZZA.. Va’ via, impostore!
LUZZA. Malacarne!
NELA. Faccia di bronzo! (Via tutt’e tre per la straducola.)
LA MOSCARDINA (subito, di nuovo, risoluta). Il figlio di Tuzza è tuo, Liolà!
LIOLÀ. Eh via, finitela! O l’avete preso davvero come un vizio per queste campagne? Ogni ragazza a cui comincia ad abbondare in bocca la saliva – chi è stato? – Liolà!
LA MOSCARDINA. Ah lo neghi?
LIOLÀ. Vi dico di finirla! Io non ne so nulla.
LA MOSCARDINA. E perché sei andato allora a domandare a zia Croce Azzara la mano di Tuzza?
LIOLÀ. Ah, per questo? Stavo ancora a sentire come potessi entrarci io!
LA MOSCARDINA. Vedi che non neghi più?
LIOLÀ. Ma sì… così per ischerzo… di passata…
LA MOSCARDINA (a zia Ninfa). Lo sente, zia Ninfa? Ora dovrebbe parlargli lei, da madre. Con me, il signorino, se la prende a ridere, mentre c’è qua una povera donna che piange. Ci vuole coscienza! Guardala!
LIOLÀ. Eh, lo vedo che piange. Ma perché?
LA MOSCARDINA. Perché, dici? (Rivolgendosi a zia Ninfa e pestando un piede): Ma parli lei!
ZIA NINFA. Perché zio Simone… a quanto pare…
LA MOSCARDINA. (Oh, s’è smossa alla fine!) – A quanto pare? – Le ha messo finanche le mani addosso! –
ZIA NINFA. – già, perché dice che di lei non sa più che farsene, ora che il figlio, dice, sta per averlo da sua nipote…
LIOLÀ. Ah! È stato dunque lui, zio Simone? Misericordia! S’è messo con sua nipote?
ZIA NINFA (indicando Liolà alla Moscardina). Vedete? Mio figlio è sincero. Se fosse come voi dite…
LA MOSCARDINA (senza badarle, rivolta a Liolà). Vorresti farmi ingozzare, tu che non hai voluto mai saperne d’ammogliarti –
LIOLÀ. – io? chi ve l’ha detto? mai saperne? Anzi! Ogni cinque minuti…
LA MOSCARDINA. Ah, così, per ridere!
LIOLÀ. No! Con tutto il sentimento! Non è colpa mia, scusate, se poi nessuna donna mi vuole. Mi vogliono tutte, e non mi vuole nessuna. Per cinque minuti, sì, appena mi butto… Dovrebbe correre subito un prete con l’acqua benedetta. Non corre nessuno, e il matrimonio si sconchiude. – Oh guarda guarda, Tuzza dunque… Eh, non c’è che dire, se l’è scelto bene il genero zia Croce! – Evviva zio Simone! Gli è venuto fatto dunque! – Gallo è… Vecchio, ma di buon osso, si vede… Eh sfido allora che Tuzza… Con questo bel servizio che aveva apparecchiato qua a Mita… – Be’, pazienza, povera Mita, che vuoi farci?
LA MOSCARDINA (friggendo). Non sai dir altro? Non sai dir altro? – Via! Via! Via! Certe bili ci piglio! Lasciatemi andare! A combattere con certuni che la coscienza se la mettono così sotto i piedi! (E va via rabbiosa con le mani per aria.)
ZIA NINFA. Ma è proprio pazza, oh! La coscienza, dice! Signori miei, per forza incornata a credere che sia come sospetta lei!
LIOLÀ. Non se ne curi! Vada, vada piuttosto e mettere a letto queste tre creaturine. Guardi là, Tinino s’è addormentato. (Difatti il bambino, sdrajato a terra supino, s’è addormentato, e gli altri due sonnecchiano seduti.)
ZIA NINFA. Uh, già, povero figlio mio… guardalo li! (Accorre, si china su lui, lo chiama):Tinino… Tinino… (A Liolà): Su, prendilo, tiralo su, e dammelo in braccio.
(Liolà si cala, fa prima il segno della croce sul bimbo dormente, poi zufola per svegliarlo; ma, vedendo che il bimbo non si sveglia, accenna con la voce la solita arietta di danza, battendo le mani: allora Tinino si alza, si alzano anche gli altri due fratellini, e stropicciandosi gli occhi con le manine a pugno chiuso, cominciano a saltare; e, così saltando, tutt’e tre, accompagnati dal padre che seguita a cantare e a battere le mani, entrano in casa.)
MITA (alzandosi). Io entro in casa. Buona notte, zia Ninfa.
ZIA NINFA. Se hai bisogno di me, figliuola mia, appena avrò messo a letto questi piccini, ritornerò qua con te.
MITA. No, grazie. Mi chiuderò per notte. Buona notte anche a te, Liolà. (Zia Ninfa entra in casa.)
LIOLÀ. Rimani a dormire qua, questa notte?
MITA. La zia è su al paese.
LIOLÀ. È andata a ricorrere?
MITA. Ha detto che andava da un avvocato.
LIOLÀ. Davvero, allora, non vuoi più ritornare da tuo marito?
MITA. Non ho più nulla da spartire con mio marito, adesso. Buona notte.
LIOLÀ. Ah, come sei sciocca, Mita!
MITA. Che vuoi, non possiamo esser tutti scaltri come te, Liolà. Vuol dire che per me ci penserà Dio.
LIOLÀ. Dio, già. – Ci dovrebbe pensare. – Ci pensò una volta. – Ma per quanto buona tu possa essere, timorata, rispettosa di tutti i santi comandamenti, certo non puoi osare di paragonarti alla Vergine Maria.
MITA. Io? Tu bestemmii!
LIOLÀ. Scusa, se dici che deve pensarci Dio! Come? Per virtù dello Spirito Santo?
MITA. Via! Via! È meglio che mi ritiri! Non posso star qua a sentire simili eresie.
LIOLÀ Eresie… Ti sto dicendo, anzi, che Dio non può ajutarti così…
MITA. Ma non intendevo mica così io!
LIOLÀ. E come, allora? Con le scenate che viene a far qua la Moscardina? o le corse inutili al paese di tua zia? strilli, bastonate, avvocato, delegato, separazione…? oppure, cacciando me di mezzo; mandandomi a gridare in faccia a zio Simone che il figlio di Tuzza è mio? – Cose da bambini! cose che potevano venire in mente a te e a me, quando qua, in quest’orticello, giocavamo agli sposi e ogni tanto ci strappavamo i capelli e correvamo a fare i raffronti davanti a tua zia o a mia madre, ti ricordi?
MITA. Mi ricordo sì. Ma non è stata colpa mia, Liolà! (L’ho detto or ora a tua madre.) – Dio sa dove avevo io il mio cuore, quando sposai…
LIOLÀ. Lo so anch’io, Mita, dove l’avevi. – Ma questo ora non c’entra. Ti sei maritata; non se ne parla più.
MITA. Ne ho parlato, perché m’hai domandato se mi ricordavo…
LIOLÀ. Ora il discorso è un altro. – Tu hai torto e tuo marito ha ragione.
MITA. Io, ho torto?
LIOLÀ. E scusa, non hai perduto… quanti anni? quattro? cinque? – Ecco il tuo torto! – Tuo marito s’è stancato. Sapevi bene, sposando, che ti prendeva in moglie per avere un figlio. Gliel’hai dato questo figlio? No. Aspetta oggi, aspetta domani; alla fine, tanto ha detto, tanto ha fatto, che ha trovato un’altra che glielo darà in vece tua.
MITA. Ma se Dio, a me, questa grazia non ha voluto farmela?
LIOLÀ. E se tu aspetti che piòvano fichi! Lo vorresti sul serio da Dio? Poi dici che bestemmio! Vai, vai a domandare a Tuzza, da chi lo sta avendo lei, il figlio.
MITA. Dal diavolo, lei!
LIOLÀ No. Da zio Simone.
MITA. Dal diavolo! dal diavolo!
LIOLÀ. Da zio Simone.
MITA. Hai il coraggio d’affermarlo anche davanti a me? È un’infamia questa, Liolà!
LIOLÀ. Perciò ti dico che sei una sciocca! – (Ripigliando): Guarda: facciamo come dice la Moscardina: vado da zio Simone; anzi, mi lego un campanaccio al collo e mi metto a gridare per tutte le campagne e le strade su al paese: Don, don, don! Il figlio di zio Simone è mio! Don don don! Il figlio di zio Simone è mio! – Chi ci crede? Sì, magari ci crederanno tutti. Ma lui no, lui non ci crederà mai, per la ragione appunto che non ci vuol credere! Vai a convincerlo, se sei buona! – E poi, via, siamo giusti! Ti pare che domani il figlio di Tuzza nascerà con un cartellino in fronte: – Liolà! – Cose cieche anche per la stessa mamma che lo fa! – Neanche se lo scannano, stai sicura, egli crederà che il figlio non è suo! Né io ho il mezzo di farglielo riconoscere per mio! – Ma tu stessa, tu stessa, se non sei proprio una sciocca, tu stessa, prima di tutti, devi dirgli ch’è vero.
MITA. Vero, che il figlio è suo?
LIOLÀ. Sì, sì: suo! suo! e che finora non è mancato per lui, ma per te! Tanto è vero che lui sta per averlo da Tuzza, e che, come ora sta per averlo da Tuzza, domani lo potrà avere da te!
MITA. E come?
LIOLÀ. Come? Te lo sto dicendo, come! Come sta per averlo da Tuzza!
MITA. Ah no! questo, no! questo, mai!
LIOLÀ. E buona notte, allora! Statti quieta e non piangere più! a chi vai a ricorrere? Perché te ne scappi? Con chi te la pigli? Gli altri t’insegnano come si fa, e tu non vuoi seguir l’insegnamento. Gliela lasci commettere tu a Tuzza l’infamia, non io! Perciò io ho negato e nego! Per te, per te nego, per il tuo bene, e perché non c’è altro mezzo ora di sventare quest’inganno e quest’infamia! Ah, ti pare che bruci soltanto a te? Dio solo sa quello che ho dovuto ingozzare! Quando andai là, per fare il mio dovere di galantuomo, e sotto i miei occhi quella madraccia infame fece entrare tuo marito dov’era Tuzza – ah! – lo vidi come in un quadro il tradimento; vidi te, Mita, e ciò che doveva venirtene, e giurai a me stesso che non dovevano averla vinta! Mi cucii le labbra. E ho aspettato questo momento! No, no, non deve passare quest’infamia, Mita! Devi darglielo tu il castigo! Dio stesso te lo comanda! Non deve approfittarsi di me, quell’infame, per rovinarti! (Dicendo queste ultime parole, le cinge la vita.)
MITA (divincolandosi). No, no… lasciami, lasciami… Questo non lo farò mai… no, no, non voglio, non voglio… (Tutt’a un tratto resta sospesa, sgomenta, tendendo l’orecchio): Ah… sss… aspetta! sento camminare… Chi viene?
LIOLÀ. (tirandola verso l’uscio). Entriamo, entriamo subito!
MITA. No, è lui… è lui, sì, mio marito, il suo passo… Scappa, scappa via, per carità!
(D’un balzo Liolà è alla porta della sua casa. Mita corre quatta quatta e si rintana nella cosuccia della zia, chiudendo pian piano la porticina. Si vede comparire dal fondo della straducola zio Simone con un lanternino in mano sospeso a una catenella; s’appressa all’altra porta della cosuccia, quella di strada, e bussa a più riprese.)
ZIO SIMONE Zia Gesa! – Zia Gesa! – Aprite; sono io. – (Sentendo dall’interno la voce di Mita): Ah, tu? Apri… Ti dico, apri! – Apri se no butto la porta a terra! – Niente, devo dirti una cosa. – Sì, sì, me n’andrò; ma prima apri!
(La porta si apre e zio Simone entra. Liolà, dalla sua, allunga il collo a spiare nel bujo della notte e nel silenzio. Poi si ritrae, sentendo schiudere la porticina che dà sull’orto.)
MITA (uscendo sull’orto e chiamando). Zia Ninfa! Zia Ninfa! (Poi, voltandosi contro il marito che sopravviene dall’interno della cosuccia col lanternino in mano): No, v’ho detto no! no! Non vengo! Non voglio più stare con voi! – Zia Ninfa! Zia Ninfa!
ZIO SIMONE Chiami ajuto?
ZIA NINFA (accorrendo dalla sua casa ed entrando nell’orto). Mita! Mita! Che è? – Ah, voi, zio Simone?
MITA (riparandosi dietro le sue spalle). Glielo dica lei, glielo dica lei, zia Ninfa, per carità, che mi lasci stare!
ZIO SIMONE Tu sei mia moglie, e devi venire con me!
MITA. No, no! Non sono più io vostra moglie, no! Andate a cercarla dov’è, vostra moglie, in casa di quella schifosa di vostra cugina!
ZIO SIMONE Stai zitta, stai zitta, o per Cristo ti faccio sentire di nuovo il peso delle mie mani!
ZIA NINFA (riparando Mita). Eh via, basta, zio Simone! Lasciatela almeno sfogare, santo Dio!
ZIO SIMONE. Nossignore, si deve star zitta! Che se non ha saputo esser madre, deve sapere almeno esser moglie; senza sporcarsi la bocca dicendo male del mio parentado.
ZIA NINFA. Ma siamo giusti, zio Simone, son pretese le vostre? Le cuoce, poverina, ciò che le avete fatto!
ZIO SIMONE. Non le ho fatto nulla io! Solo il bene le ho fatto, quando la presi dalla strada e la misi a un posto che non si meritava.
ZIA NINFA. Benedett’uomo, e vi par questo il modo di persuaderla a ritornare con voi?
ZIO SIMONE. Ah zia Ninfa, non è vero che avrei mancato di rispetto alla santa memoria di mia moglie, se non era perché non sapevo a chi lasciare la roba! Tutta la mia roba, fatta a sudori di sangue, all’acqua e al sole!
ZIA NINFA. Sta bene. Ma che colpa ha questa poverina, in nome di Dio?
ZIO SIMONE. Non avrà colpa, ma nemmeno deve darne a chi ora sta facendo ciò che non ha saputo far lei!
MITA (a zia Ninfa). Lo sente? (A zio Simone): Che volete più da me, allora? Andate da chi ve lo sta sapendo fare, e lasciatemi in pace, che del vostro nome e delle vostre ricchezze io non so che farmene!
ZIO SIMONE. Tu sei mia moglie, t’ho detto; e quella è mia nipote. Ciò ch’è stato è stato, e non se ne parla più. Io rio bisogno d’una donna che m’assista in casa, zia Ninfa.
MITA. E io, guardate, piuttosto, di nottetempo, mi butto per le campagne!
ZIA NINFA. Via, lasciatela calmare un po’, zio Simone: il colpo che le avete dato è stato troppo forte. Un po’ di pazienza! Vedrete che Mita si calmerà e ritornerà a casa.
MITA. Avrà voglia d’aspettarmi, non ci torno!
ZIA NINFA. È venuto fin qua, vedi? per ricondurti a casa; e t’ha detto che ora tutto è finito e che non andrà più dalla zia Croce. Non è vero?
ZIO SIMONE Non andrò più; ma il figlio, quando nascerà, lo prenderò con me.
MITA. Ecco, lo sta a sentire? E la madre allora verrà a pestarmi in casa!
ZIA NINFA. Ma no, perché?
MITA. Eh, con la scusa che è la madre, potrò chiuderle la porta in faccia? E vuole che sopporti un tal sopruso? O debbo, zia Ninfa, apparecchiar loro anche il letto a casa mia con le mie mani? Ha cuore, dopo questo, di farmi andare ancora con lui?
ZIA NINFA. Io, figliuola mia? Che c’entro io? Non debbo mica tenerti con me! Parlo per il tuo bene.
ZIO SIMONE Su, su, andiamo, ch’è notte!
MITA. No, no! Se non ve n’andate, corro a buttarmi giù dal ponte!
ZIA NINFA. Date ascolto a me, zio Simone, lasciatela qua almeno per questa notte. Con le buone, a poco a poco, si persuaderà e vedrete che domani… domani ritornerà, potete esser certo.
ZIO SIMONE. Ma perché vuol rimanere qua stanotte?
ZIA NINFA. Perché… perché tra l’altro… deve guardar la casa a sua zia, salita al paese –
ZIO SIMONE. – a fare gli atti contro di me?
ZIA NINFA. Eh, via, non badate! Nella prima furia! Andate, andate a dormire, ch’è tardi. Mita ora si chiuderà in casa. (A Mita): Va’, va’ prima ad accompagnare tuo marito: chiuderai la porta di là; poi questa; e buona notte. Buona notte anche a voi, zio Simone. (Zio Simone entra per il primo nella cosuccia, dimenticandosi nell’orto il lampioncino acceso. Mita, entrando dopo di lui, chiude la porticina.)
ZIA NINFA (attraversando l’orto e la straducola). Mi sembra che zia Gesa abbia raccomandato la pecora al lupo. (Davanti la porta della sua casa si ferma, scorgendo Liolà in agguato, e gli dice piano): Via dentro, via dentro, figlio, non facciamo pazzie…
LIOLÀ. Sss… aspetti… voglio vedere come andrà a finire… Se ne vada, se ne vada a dormire…
ZIA NINFA. Giudizio, figlio, giudizio! (Entra in casa.)
(Liolà accosta la porta e subito si caccia dentro l’orto, tutto aggruppato, dietro la siepe; sale, cheto e chinato, fino allo spigolo della cosuccia e s’apposta impalato contro il muro. Tutt’a un tratto la porticina si riapre, e Mita, scorgendo Liolà, caccia un grido subito represso e si volta contro il marito per impedirgli il passo.)
MITA. V’ho detto no! Andatevene! O chiamo di nuovo zia Ninfa! Andatevene!
ZIO SIMONE. (dall’interno della cosuccia). Vado, sì, vado, stai tranquilla! (Mita rientra, lasciando semiaperta la porticina. E allora, mentre zio Simone esce dalla porta di strada, Liolà, strisciando lungo il muro, entra dalla porticina e subito la richiude. L’uscita di zio Simone di là e l’entrata di Liolà di qua debbono avvenire contemporaneamente. Ma zio Simone, appena richiusa la porta di strada, si volta e dice): O oh, il lanternino… ho lasciato il lanternino… Che dici? Ah, nell’orto? – Bene bene… ci giro di qua… (Scende per la straducola, entra per il rastrello della siepe nell’orto, prende da terra il lanternino e lo alza per vedere se è acceso bene): Al bujo, per la campagna, Dio liberi, c’è pericolo di rompersi le corna… (E risale lentamente la straducola.)
Tela
1916 – Liolà – Commedia campestre in tre atti
Premessa
Avvertenza, Personaggi, Atto Primo
Atto secondo
Atto terzo
N’ Sicilianu – Liolà
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