1916 – Liolà – Commedia campestre in tre atti

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Si suol dire che la commedia risulta del tutto priva di ogni complicazione di tipo intellettualistico, ed è vero, nel senso che l’attenzione dello spettatore è catturata dalla festosa gioia di vivere di Liolà; il quale trasgredisce alle regole della società in cui vive, ma non se ne accorge nemmeno.

FONTE  Capitolo IV de Il fu Mattia Pascal (1904). Novella La mosca
STESURA Agosto – settembre 1916
PRIMA RAPPRESENTAZIONE 4 novembre 1916 – Roma, Teatro Argentina, Compagnia di Angelo Musco, in dialetto siciliano

Approfondimenti nel sito:
Sezione Novelle – La mosca
Sezione Romanzi – Il fu Mattia Pascal, Capitolo IV
Sezione Tematiche – Ivano Mugnaini – Liolà – «Commedia allegra con cattiveria»
Sezione Tematiche – Carmelo Nicosia – Liolà – La meditata scelta dialettale di Pirandello per “Liolà”
Sezione Tematiche – Maria Cristina Riffero – Pirandello rusticano: La Giara e Liolà
Sezione Tematiche – Lucienne Kroha – Il “desiderio” di Mattia Pascal ovvero «Liolà: Pirandello maschilista?»
Sezione Video – Liolà – 1996 – Massimo Ranieri

Link esterni
Opere Letterarie del 900 Italiano – Liolà
Biblioteca dei Classici Italiani – Introduzione a Liolà, di Giuseppe Bonghi (Pdf)

N’ Sicilianu Liolà

Premessa
Avvertenza, Personaggi, Atto Primo
Atto secondo
Atto terzo

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Liolà
Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, Liolà – Film 1963. Immagine dal Web 

Premessa, Articolo di Antonio Gramsci (1917), Note di regia Gigi Proietti 2006 

   Premessa

        È stata definita da Pirandello «commedia campestre in tre atti». Deriva dal capitolo IV del romanzo II fu Mattia Pascal (1904) e dalla novella La mosca, che apre l’omonima raccolta di Novelle per un anno. Se ne fa risalire la stesura in dialetto agrigentino all’agosto-settembre 1916. La trascrizione in italiano, a opera dello stesso Pirandello, fu pubblicata da Bemporad, Firenze, nel 1928. L’edizione in dialetto fu rappresentata dalla Compagnia Angelo Musco, al Teatro Argentina di Roma, il 4 novembre 1916. L’edizione in lingua italiana fu rappresentata soltanto l’8 giugno 1942 dalla Compagnia Tofano-Rissone-De Sica, al Teatro Nuovo di Milano.

        È una commedia d’ambiente siciliano, ma più che la ricerca di tipo naturalista o gli aspetti folkloristici, interessa all’autore rappresentare Liolà, lo spensierato protagonista, il dongiovanni campagnolo, che con il suo comportamento mette allegramente a soqquadro l’apparentemente morigerata società in cui vive. Si suol dire che la commedia risulta del tutto priva di ogni complicazione di tipo intellettualistico, ed è vero, nel senso che l’attenzione dello spettatore è catturata dalla festosa gioia di vivere di Liolà; il quale trasgredisce alle regole della società in cui vive, come tutti i personaggi di Pirandello, ma non se ne accorge nemmeno. La sua monde, nei rapporti con le donne, è che non sa che esista una morale. Ha l’innocenza dì Jeli il pastore, dell’omonima novella verghiana. Ma tutta pirandelliana è la conclusione che balena con chiarezza: il trasgressore delle regole è l’unico veramente buono e generoso, gli altri sono interessati, egoisti e gretti. Il giovane Mattia Pascal che quasi per burla mette incinta la nipote e la moglie dell’odiato Batta Malagna suo infedele amministratore sembra rivivere nel protagonista di questa commedia: Liolà giuoca lo stesso tiro al vecchio Zio Simone Palumbo, anch’esso, come il Malagna, ossessionato dal corale sospetto sulla sua incapacità d’avere figli. Qui è Tuzza, incinta di Liolà, a progettare l’inganno per avidità di danaro e per gretta vendetta: invece di sposare il suo seduttore che non potrà mai essere un buon marito nonostante l’insistenza con la quale la chiede in moglie, suggerisce allo Zio Simone di attribuirsi la paternità del figlio che ha in grembo, mettendo così a tacere le male lingue. In questo modo Tuzza pensa di assicurarsi l’avvenire e di vendicarsi non solo di Liolà ma anche di Mita che ha sposato il vecchio benestante, creandosi una posizione alla quale lei stessa aspirava. Il piano è ben congegnato, la povera Mita è malmenata e cacciata di casa dal marito. Ma interviene Liolà che la salva, mettendola incinta, di modo che il Vecchio Zio Simone se la riprende in casa, preferendo questa paternità legale a quella illegale procuratagli dalla Tuzza.

        Liolà aveva detto chiaramente che non voleva essere coinvolto in un inganno che avrebbe danneggiato Mita; un senso di giustizia lo spinge a ristabilire la situazione a favore di chi era stata danneggiata ingiustamente, e contro chi ha usato la malizia e la frode.

        Egli è immune dalla brama di benessere materiale che assilla la società in cui vive. Una società di tipo verghiano per gli interessi da cui è dominata, nonché per la corale partecipazione agli avvenimenti. Il senso di giustizia di Liolà lo porta a infrangere le regole della moralità comune, spontaneamente, per istinto, senza rendersene conto. Tuzza ha agito male, voleva ingannare Zio Simone e danneggiare Mita; mentre doveva sposare lui che l’aveva richiesta con insistenza per regolarizzare la sua situazione. Per il male che ha fatto Tuzza non merita più d’essere sposata. Ma Liolà prenderà con sé il figlio; in casa ha già altri tre figli e nessuna moglie. Il suo istintivo senso di giustizia lo ha sempre portato a occuparsi dei poveri innocenti nati a lui da occasionali incontri amorosi. Né questa singolare situazione gli pesa; nessuna ombra passa mai sulla sua gioia di vivere: i figli sono allevati dalla madre e vezzeggiati da tutte le ragazze del paese. Egli, che vive cantando, insegnerà loro a cantare. Una delle sue canzoni è un autoritratto: «Ho per cervello / un mulinello: / il vento soffia e me lo fa girare. / Con me, gira il mondo, e pare / gira e pare /gira e pare /gira e pare un carosello». L’indugio su quel «pare» è un vezzo o vuole echeggiare di lontano il concetto pirandelliano di «parere» ? Certo Liolà non ha mai pensato a ciò che pare e ciò che è. Né si rende conto delle paradossali situazioni in cui Pirandello si diverte a metterlo. Proprio in questa inconsapevole innocenza è la sua gioia di vivere. Ma nemmeno lui è veramente felice. Renato Simoni scrisse nel Corriere della sera del 14 gennaio 1917, subito dopo la «prima»: «Questa commedia ride, ma non è gioconda; è allegra con cattiveria a spese di tutti». Lo stesso Liolà «ha tante donne e nemmeno un poco d’amore…». Nella commedia si sente sempre «la presenza d’un ingegno creatore che ha quasi la tristezza dell’opera che crea, e una superiore e ironica pietà dei personaggi che egli fa ridere».

 Articolo di Antonio Gramsci:
«Liolà» di Pirandello all’Alfieri, da L’Avanti!, 4 aprile 1917

I tre atti nuovi di Luigi Pirandello non hanno avuto successo all’Alfieri. Non hanno avuto almeno quel successo che è necessario perché una commedia diventi redditizia. Ma Liolà ciò nonostante rimane una bella commedia, forse la migliore delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia riuscito a creare. L’insuccesso del terzo atto, che ha determinato il ritiro momentaneo del lavoro dalle scene, è dovuto a ragioni estrinseche: Liolà non finisce secondo gli schemi tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio, e perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non poteva finire che così come è,. e pertanto finirà con l’imporsi.

Liolà è il prodotto migliore dell’energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso, ciò che vuol dire che troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in  una palude  retorica di moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità inutile. AncheLiolà è passato per questo stadio, e allora esso si chiamava Mattia Pascal, ed era il protagonista di un lungo romanzo ironico intitolato appunto: Il fu Mattia Pascal, pubblicato verso il 1906 dalla Nuova Antologia e poi ristampato dal Treves.

In seguito il Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è venuto fuori Liolà; l’intreccio rimane lo stesso, ma il fantasma artistico è stato completamente rinnovato: esso è diventato omogeneo, è diventato pura rappresentazione, libero completamente di tutto quel bagaglio moraleggiante e artatamente umoristico che lo aduggiava. Liolà è una farsa, ma nel senso migliore della parola, una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell’arte figurativa vascolare del mondo ellenistico. C’è da pensare che l’arte dialettale così come è espressa in questi tre atti del Pirandello, si riallacci con l’antica tradizione artistica popolare della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei campi piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia odierna, là dove questa tradizione si è conservata più viva e più sincera. È una vita ingenua, rudemente sincera, in cui pare palpitino ancora i cortici delle querce e le acque delle fontane: è una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un’opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica. Mattia Pascal, il melanconico essere moderno, dall’occhio strabico, l’osservatore della vita volta a volta cinico, amaro, melanconico, sentimentale, vi diventa Liolà, l’uomo della vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica, perché uomo, perché se stesso, semplice umanità vigorosa. E la trama si rinnova, diventa vita, diventa verità; diventa anche semplice, mentre nella prima parte del romanzo primitivo era contorta e inefficace. Zio Simone smania perché vuole avere un erede, che giustifichi il tenace lavoro suo che ha accumulato una ricchezza: è vecchio, e incolpa la sterilità della moglie, che non ha capito che Simone vuole un erede purchessia, vuole un bambino a tutti i costi, ed è disposto a fingere di essere egli il padre. Una sua nipote, che ha capito gli umori del vecchio, ed è stata resa madre da Liolà, propone a Simone di diventare egli il padre del nascituro, gli propone di farsi credere egli il padre, e il vecchio accetta. La moglie legittima viene percossa, viene umiliata, perché non ha fatto altrettanto. Per diventare la padrona, fa altrettanto. Zio Simone ha un figlio legale. Ma è Liolà che dà vita a queste nuove vite, e dà vita alla commedia; Liolà che ha sempre la gola piena di canti, che entra sempre nella scena accompagnato da un coro bacchico di donne, accompagnato dai suoi tre altri figlioletti naturali che sono come dei satiretti che ubbidiscono all’impulso della danza e del canto, che sono impastati di suono e di  danza come le creature primitive dei drammi satireschi. Liolà voleva sposare Tuzza, la nipote di Simone, prima che fosse imbastito il trucco dell’erede, ora che l’erede legale c’è Tuzza vorrebbe essere sposata, ma Liolà non vuole, non vuole rinunziare ai suoi canti, alla danza dei suoi figlioli, alla vita dionisiaca del lavoro lieto: e il pugnale di Tuzza è stroncato dalle sue mani che però non sanno l’odio e la vendetta. Ma per il pubblico ci voleva il sangue o il matrimonio, e perciò il pubblico non ha applaudito.

Antonio Gramsci (4 aprile 1917).

Note di regia di Gigi Proietti – Liolà, 2006

Troppe cose importanti si sono dette su Pirandello, perché io ardisca aggiungere altro.

Ed è curioso che tutti gli studi, gli approfondimenti sulla sua poetica siano condivisibili anche se, a volte, opposti l’uno all’altro:

“teatro di parola ma a suo modo gestuale”, “teatro del dolore ma ironico” o meglio “umoristico”, “specchio della realtà o specchio della stessa finzione”, “critica sociale della borghesia”, “curiosa contaminatio di tragico e comico”, “indagine introspettiva dell’uomo singolo contrapposto alla società fatta di singoli diversi ma uguali..”.

Liolà c’entra in tutto questo? Pirandello, in seguito, a quell’ambiente contadino, a quei personaggi solari, a quelle fertilità a quei balli e canti preferì il mondo borghese più nascosto, claustrofobico. Ma ancora di più, qui, in Liolà, si comprende come l’ipocrisia, l’interesse gretto e meschino e il cinismo siano propri dell’animo umano e non soltanto del borghese, piccolo o alto che sia. E qui più si evidenzia l’autore “umoristico” (è di pochi anni prima il suo saggio sull’Umorismo) che alterna e mescola cattiveria e pietas, avarizia e generosità, allegria e calcolo e, insomma (per far contenti tutti) realtà e apparenza.

Eppure Liolà è leggero, quasi vola. La fertilità, il mito della Terra, e dei campi, la felicità sono strascichi di un mondo pagano che sembrano essere ironizzati e quasi derisi fino ad un finale che non ce la fa ad essere tragedia, ma che la sfiora o meglio la graffia. Quindi testo tutt’altro che univoco, permeato com’è da una serie di ironiche evocazioni visive, balli campestri, passioni, Marie, vendemmie. Microcosmo femminile, gineceo all’interno di un mondo culturale e di una società (quella agricola) che sta per dissolversi. Prospettive per il futuro? Insegnare ai figli a cantare…Ecco: avere presenti queste semplicissime riflessioni mentre si cerca di convincere gli attori ad essere tanto finti da sembrare veri (o viceversa…) è il progetto di lavoro della regia.

Gigi Proietti

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